aprile 2005

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Bungee jumping of their own (Beonjijeompeureul hada)
di Kim Dae-sung, 2001



Lo ammetto: in questo film, di cui non sapevo niente prima della visione, ho accettato cose che normalmente troverei inaccettabili. La sceneggiatura, di per sè, non starebbe in piedi: un ragazzo e una ragazza, amore a prima vista, abbandono. Passato il tempo, lui è diventato un professore, e si invaghisce di un suo allievo credendolo la reincarnazione della sua prima fiamma. E non vi dico come procede.



Ma Kim ha una certa sensibilità nel ritrarre (nella prima parte) la nascita di un amore, e un talento delicato nel rappresentare (nella seconda) un conflitto interiore, quello con la propria integra eterosessualità in un paese in cui c’è un test per verificarla, ed uno esteriore, quello con le istituzioni scolastiche e l’opinione pubblica, che infatti causano il suo licenziamento. E poi il passato non è mai raccontato in modo lineare, ma attraverso un puzzle di flashback che permettono di tenere sveglia l’attenzione dello spettatore.



Spudoratamente romantico e di una dolcezza quasi disarmante (e a volte struggente), Bungee jumping non è però un barattolo di melassa, ma una buona variazione sul tema dell’amore eterno e del destino (didascalicamente definito dal protagonista nella sua prima lezione), in cui di fronte alla potenza della simbiosi amorosa scompare persino la paura della morte (da lì il titolo, che non sto a spiegarvi) nel segno di un inaudito ma convincente amor vincit omnia.



Certo, a volte si esagera, come nel finale (circolare, perché riprende l’inizio, fino ad allora misterioso), ma la resa visiva è talmente bella e gli attori talmente bravi (lui è Lee Byung-hun, visto in JSA e Cut) che quasi non ci si accorge di alcuni svarioni. Una piacevole sorpresa.

Canicola (Hundstage)
di Ulrich Seidl, 2001



La provincia austriaca, con i suoi viali dominati dagli onnipresenti centri commerciali e le sue villette bianche, è un posto dove è impossibile essere felici, ed è impossibile non essere infelici. Tra altarini e vite segrete, squallori quotidiani e solitudini perverse, appare una sorta di angelo della purezza, sorta di nuova visitatrice pasoliniana, capace con la sua insopportabile logorrea di far uscire le contraddizioni e i piccoli orrori quotidiani che nascondono le vite della media borghesia.



Il film di Seidl non si ferma davanti a niente nella rappresentazione impietosa del suo zoo umano, e i suoi personaggi si scaldano al sole (i titoli di testa sono straordinari, ricordano il miglior Lynch) come animali in attesa della caccia, o della morte. Magari lo fa con un po’ di scorrettezza, spingendosi nei territori del porno e della sgradevolezza ricercata a tutti i costi, ma conservando uno sguardo antropologico di rara coerenza e di impressionante crudezza.



L’affresco infernale dipinto da Seidl non cerca l’abbellimento o la ricercatezza strutturale di Inarritu o di Tarantino. Lascia invece che siano gli eventi, messi lì apparentemente alla rinfusa e solo di rado incrociati, a parlare da soli. Magari perdendo valori formali che l’avrebbero reso più digeribile, ma la patina grezza non arriva alla depravazione degli idioti vontrieriani, fa parte del progetto e non si può di certo condannare.



Canicola non è un capolavoro, è un film imperfetto e massacrante, per le ragioni suddette ed altre. Ma sa parlare, con durezza e con sardonica ironia, della vecchiaia, della perdita, e dell’impossibilità di comunicare e di amare. E ne parla direttamente alle viscere.

Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé ou Le vent souffle où il veut)
di Robert Bresson, 1956


Film di fuga o trattato di libertà, disamina concreta e "sonora" di un’ostinazione, e di un istinto, e di una paranoia, e di un’amicizia. Un’essenzialità inaudita, come le parole comunicate attraverso il muro di una prigione. Ma terribilmente emozionante. Chi vi scrive l’ha vissuto con il batticuore. Meraviglioso.

Robots
di Chris Wedge, 2005



Ice age è un’altra cosa, la Pixar è un’altra cosa, ma Robots non è Shark Tale. E’ un buon cartone 3D, tecnicamente eccellente e drammaturgicamente solido. Nulla più, ma su, può bastare.



Ci sono le tipiche cose che mi fanno incazzare, come alcune gag ammiccanti alla mtv generation (Britney in testa, come giustamente cita Ohdaesu), ma il divertimento è più libero da condizionamenti modaioli rispetto a qualunque prodotto Dreamworks, e recupera una dimensione infantile che sa anche parlare (a momenti in modo critico, più spesso passandoci sopra in fretta) del consumismo e di altre menate.



Alcune sequenze sono spassosissime, come l’arrivo alla stazione e il seguente viaggetto sui "mezzi pubblici", o quella del surf sulle tavole di domino (graficamente mostruosa), o la prima visione dei sotterranei della città. E un paio di trovate (poche, purtroppo) sono davvero geniali: il telefono che propone le tariffe allo sconsolato Fender (dove ho riso fino alle lacrime, stupido io), e quella del padre appeso: davvero impagabile. Rodney comunque è insopportabile quanto il suo doppiatore italiano.



La sceneggiatura risente della comicità caciarona, molto saturday night, di Ganz e Mandel (grandi amici di Billy Crystal, responsabili di cose buone e tremende in egual misura), che però almeno mettono il citazionismo in secondo piano, pur utilizzandolo per tutta la durata del film.



Imperdonabile il balletto finale: perché in un cartone deve per forza finire tutto a tarallucci e vino?

The storm riders (Feng yun xiong ba tian xia)
di Andrew Lau, 1998



Il film che doveva rappresentare la rivoluzione digitale (e con sfoggio di mezzi e di tecnica) del cinema hongkonghese è in realtà un film brutto e insensato.



Difficile pensare a un Sonny Chiba più sprecato, i due protagonisti non hanno un briciolo di fascino (nonostante mossette e facce cupe), e l’unica a metterci un po’ di vita, come al solito, è la splendida Qi Shu. Incredibile che Lau abbia saputo fare un film come questo e Infernal affairs.



CGI a profusione, ma il risultato è una specie di attacco dei cloni sgangherato, talmente ridicolo da sfiorare la parodia, e talmente noioso da rendere difficile una visione unitaria. Io ci ho messo tre sessioni, fate voi.



Sono impietoso, forse qualcosa si poteva salvare. Forse, ma non per me. Probabilmente il più brutto film di Hong Kong che mi sia capitato di vedere.

questo post non esiste più

Super size me

di Morgan Spurlock, 2004

Il documentario di Spurlock funziona linguisticamente come la metafora. Guardate che vi sto dicendo questo, ma in realtà vi sto dicendo quest’altro. In quest’ottica, l’odissea di Spurlock (30 giorni di solo MacDonalds) serve come esemplificazione (e forse per melodrammatizzazione), e per rendere più chiaro e più appetibile un tema più ampio, quello dell’assenza di una cultura alimentare di base e del conseguente allarme obesità. Che riguarda gli Stati Uniti in modo particolarmente preccupante, ma purtroppo non solo.

Criticamente, non possiamo entusiasmarci, per le stesse ragioni dell’ultimo Moore. Perché i fini sono nobilissimi, ma i mezzi sono quel che sono. C’è un po’ di pregiudizio e un po’ di moralina, e il lato più interessante, cioè quello documentato da fior di studiosi di alimentazione (istituzionali e non) è meno curata di quella d’impatto dedicata all’odiato MacDonalds, e in cui Spurlock mette se stesso in scena con pornografica abnegazione. Come nella scena del vomito, o nelle dichiarazioni di impotenza sessuale della sua partner. Se si fosse parlato in questo modo anche del problema vero è più esteso rispetto ai soli Big Mac, perché riguarda (e lo si dice) una vera e propria istituzionalizzazione delle multinazionali, avrebbe fatto centro anche cinematograficamente e sarebbe potuto essere molto più politico.

Ma in fondo la progressione malata e masochistica di Spurlock riesce a conquistare più di una volta, e alcune scene sono imperdibili. Più di tutte quelle che fanno indignare (come la sequenza delle mense scolastiche), ma anche quelle in cui esce un humor inaspettato e acidissimo. Spurlock è abbastanza antipatico ma almeno è umile, e il risultato, con i limiti suddetti, è uno spettacolo più che decoroso, e almeno privo delle cadute dell’ultimo Moore. Anche perché (forse a torto ma chissà) si ha l’impressione che un’opera così possa davvero cambiare le cose.

Davvero belli e azzeccatissimi i quadri (pardon, non ricordo il nome dell’artista) che introducono i diversi capitoli rileggendo l’arte con il senno della brand invasion.

Horror hotline… Big head monster (Hung biu hyn sin ji daai tau gwaai ang)
di Cheang Pou-soi, 2001



Mi sono avvicinato a questo film un po’ per quanto leggiucchiato su Hong Kong Express, un po’ perché l’occasione fa l’uomo ladro, e un po’ per la mia limitata conoscenza dell’horror hongkonghese (The eye a parte), spesso trascurato (e non solo da me) in favore dell’ormai globalmente noto (e remakato) horror giapponese.



Devo dire che, al di là delle aspettative, sono abbastanza soddisfatto: Horror hotline è un film stimolante e pauroso, e se qualche discendenza con il solito Ringu è innegabile (soprattutto per il rapporto tra soprannaturale e media), lo stile di Cheang è diverso, magari più effettato e meno raffinato di un Nakata o di un Kurosawa, ma capace comunque di raggiungere il suo scopo. Molte infatti le scene riuscite, e alcune (la "replica fantasma" del parto, lo scoprimento del cadavere nel garage, persino l’esorcismo et azzardato feto digitale) davvero riuscitissime.



Gli spaventi, quindi, non si risparmiano (come al solito, se si è predisposti), ma la cosa più interessante è il modo in cui Cheang sposta il baricentro verso l’irrazionale, rifiutandosi di dare una spiegazione a tutto e lasciando molto al mistero e all’interpretazione dello spettatore: tanto più frustrante se si pensa che buona parte del film è strutturato come un mystery. Peccato che il finale replichi Blair witch project paro paro: ca fa una figuraccia da complesso di inferiorità. Ma fa anche una paura marcia, e quindi accogliamo il plagio a naso turato.



Non un capolavoro, ma abbastanza interessante da invitarmi a recuperare New blood, che presto vedrò e di cui, altrettanto presto, ivi leggerete.

A chinese Odyssey

di Jeff Lau, 1994







A chinese odyssey Part one – Pandora’s box
(Xi you ji di yi bai ling yi hui zhi yue guang bao he)

A chinese odyssey Part two – Cinderella (Xi you ji da jie ju zhi xian lu qi yuan)

Finalmente ho terminato la visione di Chinese Odyssey, leggendario titolo del cinema di Hong Kong che, nonostante la distribuzione in due titoli, nasce come film a sè stante, in cui il talento di Lau riesce a unire il fantasy cantonese a una comicità demenziale e parodistica.

Quest’ultima affidata soprattutto all’estro del protagonista Stephen Chow, e al suo stile stralunato, talora greve ma sempre spassosissimo: alla scena in cui una manciata di persone si profiga (più volte) per spegnere (con i piedi) un fuoco accesosi tra le gambe di Chow si ride davvero sguaiatamente.

Ma come poi accadrà nel cinema di Chow, la parodia (il fantasy e il wuxia, persino Wong Kar-wai a più riprese) non impedisce un’ottima realizzazione. Jeff Lau ci mette tutto se stesso, e il risultato è un’epopea appassionante e visionaria: raccontarla è impossibile, tra reiterati paradossi temporali e sequenze come quella in cui 5 personaggi si mischiano le rispettive personalità. Roba da far impazzire un qualsiasi fan di Gilliam.

Come se non bastasse, l’impianto spettacolare è davvero spettacolare: merito della fotografia satura e accesa, e delle bellissime coreografie wire-action del grande Ching Siu-Tung. Se un problema c’è, è che tutto è buttato davanti agli occhi con un ritmo talmente estremo (basti vedere come comincia, in piena azione) e con una tale forza espressiva che un po’ di confusione è inevitabile. Ma glielo si perdona, perché ci si diverte davvero tanto.

Non ci viene negato nemmeno del sano romanticismo: grazie al fascino delle protagoniste (Ada Choi, Karen Mok, Athena Chu), e alla bellissima chiusa, con il Re Scimmia che si gira malinconicamente a guardare. Lungi da me dirvi cosa, ma ne vale la pena.

Mi è venuta voglia di rivedere Chinese Odyssey 2002

[Part one]

[ma che film è?]

[un gran film. o meglio, due. o meglio, uno in due parti]

[Hong Kong?]

[sì]

[ma quello è Stephen Chow?]

[sì]

[la smetti?]

[no]

Drunken master (Jui kuen)

di Yuen Woo-ping, 1978

Quello che penso di Jackie Chan l’ho detto più volte, più o meno ad ogni visione. Non c’è bisogno di ripetersi.

Drunken master è uno dei primi film a lanciare Chan come superstar, e a diffondere il suo gongfupian dai materiali quasi inesistenti (pretestuosità della trama e centralità dei combattimenti – qui il film finisce subito alla fine dell’ultimo scontro) eppure irresistibile nella sua mescolanza con una comicità da cinema muto e con numeri che più che arti marziali sembrano balletti marziani.

Drunken master è già tutto questo. Yuen (ormai assorto a leggenda in Occidente) ha in qualche modo creato Chan, attraverso le sue coreografie spettacolari. In seguito Chan ha fatto di meglio (soprattutto dirigendosi da solo), ma questo è un buon punto di partenza per (ri)avvicinarsi al suo cinema, e comunque contiene alcuni dei combattimenti più strabilianti mai prodotti dal corpocinema, qui ancora giovane (aveva la mia età…), del folletto di Hong Kong.

Puro musical.

In good company

di Paul Weitz, 2004

Pur essendo un’operetta senza grandi pretese degna non più di un’abbondante sufficienza, ci sono tre ragioni per cui il film vale una visione (e non di più d’una).

La prima, e più importante, è il ritratto di un mondo del lavoro ridotto a macchina di profitto dal mito della sinergia proclamato dalle multinazionali: sotto la patina leggera, un discorso importante sia per gli Stati Uniti, dove la pratica è già arrivata al suo apice, sia per noi, come avviso per il futuro. Se si pensa che il guru multindustriale del film è Malcolm MacDowell, la dice lunga sull’opinione (intelligente) di Weitz. Peccato che l’eccessivo idealismo di Quaid stoni un po’, ma ben venga lo schiaffetto cattivello alla faccia cattiva delle rivoluzioni globali.

La seconda, e la più rilevante, è Scarlett Johansson. E non solo: anche la strana alchimia che si forma con il bravo (e mal doppiato, purtroppo) Topher Grace, soprattutto in alcune scene in cui riescono miracolosamente a mostrare imbarazzo e tenerezza. La terza è lo sviluppo narrativo, che si discosta da un classicissimo lieto fine, e cerca, più che far accoppiare o scoppiare i personaggi, di insegnare loro una strada per la redenzione che sia acquisizione di maturità, di serenità interiore, più che di una soluzione da classico happy ending.

Un film leggero leggero, che probabilmente si farà dimenticare in fretta (anche se non ne sono sicuro), in ogni caso senza regia e con una sceneggiatura troppo poco divertente. Ma ci si aspettava di peggio, e invece se ne esce a bocca buona.

Shiri (Swiri)

di Kang Je-gyu, 1999

Un anno prima di JSA, un altro enorme successo in patria inserisce la sua storia nel contesto della divisione della Corea. Ma è inutile cercare un briciolo della profondità e complessità del film del film di Park.

Shiri è infatti talmente sudista da essere fastidioso, e i nordcoreani sono una specie di massificato esercito di cyborg assassini. Mah. La cosa si scioglie un po’ verso la fine, soprattutto grazie alla prova dello splendido Choi Sin-mik (quello di Oldboy), che in un brevissimo monologo rimette un po’ le cose al giusto posto, tentando con dolore ("hai mai visto qualcuno nutrirsi del cadavere dei propri figli?") anche se solo per qualche minuto di render conto di una situazione terribile e impossibile da manicheizzare in questo modo. I sudcoreani rimangono comunque tutti buoni, si intenda, e quando si sbagliano chiedono scusa.

In ogni caso poco importa, forse, perché al di là della riuscita metafora della donna sdoppiata così come è la Corea, il film è un poliziesco di spionaggio e d’azione, misto a melodramma, alquanto nella tradizione del cinema hongkonghese: coppie di poliziotti, fiducia e tradimenti, sacrifici e scelte tra amore e amicizia, e una sorpresa che tale non è (e il protagonista ci fa pure la figura del pirla, visto che l’avevano capita tutti tranne lui). Niente che non si fosse già visto in cantonese, e meglio.

Le scene d’azione sono comunque nervose e tostissime (tra cui un inseguimento davvero bellissimo), spesso gestite con macchina a mano e ottimo montaggio, e il violentissimo inizio è davvero sorprendente, per quanto irritante per le ragioni suddette. Ma è il tipo di film che mi entra da una parte e mi esce dall’altra in fretta. Deludente.

La febbre

di Alessandro D’Alatri, 2005

"E tagliati quel pizzo, che sei così carino con la faccia pulita!"

Nutro molta simpatia per Fabio Volo, sarà perché è bresciano come me, sarà perché è bravo nel suo mestiere. Cioè, l’uomo di spettacolo. Come attore ce la mette tutta, e qualche volta ci riesce persino. Tanto di cappello. Ecco tutto.

La città non è Brescia come pensavo, io disinformato, ma Cremona. Poco cambia, anche perché viene nominata solo alla fine: si parla della "provincia" (se le città lombarde siano davvero satelliti di Milano, è tutto da discutere), che porta dentro di sè il germe di una febbre che colpisce tutti, l’invidia di tutti ("se l’invidia fosse febbre, ognuno ce l’avrebbe") verso una persona che sa distinguersi e "vivere anche al lavoro", che reagisce con rabbia alle prevaricazioni, che cerca di essere felice nonostante le spinte avverse di una società che tende a riposarsi sugli allori e non sa rischiare, di gente che uscito dall’adolescenza disimpara a vivere.

Criticamente, devo dirlo: la messa in scena di D’Alatri (di cui non avevo visto ancora niente) è orripilante. Vuole dimostrare di essere bravissimo, ma ha dei limiti enormi, o almeno sproporzionati rispetto alle ambizioni. Ad un certo punto pensa di essere Fellini, e arriva una scena di incontro nella nebbia con il padre morto che sembra uscita da 8 e mezzo. Assurdità come la soggettiva "alla David Fincher" del caffè (sic) che esce dalla caffettiera sono inspiegabili. Qualche volta, però, ci azzecca (il sogno bukowskiano di annullamento in un’enorme Valeria Solarino).

Nonostante ciò, il fine del film è almeno coerente e, tutto sommato, coraggiosetto: D’Alatri vuole gridare forte che l’Italia è un paese di merda, ma riesce almeno a farlo senza troppi luoghi comuni, perché la colpa è dell’abiezione individuale e, appunto, della febbre che questi individui trasmettono al mondo italiano uccidendolo. E c’è una via di fuga, ma molto più rara del rischio di annullarsi sotto una pioggia ubriaca.

La sensazione è quella di un film sincero ma incompleto, ambizioso ma irrosolto, piacevole almeno per come costruisce un personaggio originale e ricco di stimoli. Insomma un film sul filo della difendibilità, mentre D’Alatri regista, lo ripeto, non è difendibile. Ma mette in mano, nel finale, uno spunto che lascia interdetti (spoiler: è davvero possibile non prendere la febbre isolandosi dal mondo civile?) ma almeno fa pensare. L’italia è un belpaese, ma solo visto dall’alto.

La cosa migliore del film è comunque la colonna sonora dei Negramaro: davvero bravi, ma davvero davvero bravi.

The king of comedy (Hei kek ji wong)

di Stephen Chow e Lee Lik-Chi, 1999

Con meno stramberie ed eccessi di alcuni (bellissimi) film precedenti, Chow si concentra su una coppia di personaggi nati perdenti e confeziona quello che, strano dirlo ma forse (e dico forse) è così, è il suo capolavoro. Forse sarebbe il suo capolavoro senza gli ultimi 20 minuti, che però sono ugualmente spassosissimi. Ma che importanza ha? Bellissimo.

Un film straordinariamente eclettico, come al solito diviso tra demenzialità e romanticismo. Ma qui la dimensione comica dà più spazio a una profondità e a una dolorosità nel tratteggio dei caratteri che altrove era lasciata in disparte. Chow si avvicina insomma alla vita vera, riflettendo sul valore del sacrificio amoroso e sul peso delle ambizioni. Gli emarginati sono sempre stati in prima fila nei suoi film, ma qui per la prima volta devono davvero lottare e soffrire (anche fisicamente), per raggiungere quello che vogliono e recuperare la loro dignità. I sogni non bastano più, nel mondo dell’industria del cinema.

Ma i comenti comici non mancano, e sono tra le cose migliori uscite dal cappello di questo piccolo genio: e più sono semplici meglio funzionano. Come la scena dell’audizione con muco, che fa semplicemente piangere dal ridere, o la lezione di dolore impartita ad un giovane gangster. Ce ne sono molte altre, ma tanto vale la pena di recuperare il film in qualche modo e godersele: lette in un blog non renderanno mai l’idea dell’irresistibile comicità di Chow.

Marginale Karen Mok, bravissima e bellissima invece Cecilia Cheung, come al solito vittima di un imbruttimento, ma a lei è andata ancora bene. Indimenticabile l’incontro sul set (di uno spassosissimo finto film di John Woo, con tanto di colombe in chiesa) con Jackie Chan, nello stesso anno in cui Chow appare in Gorgeous: il dialogo tra i due è da annali della storia del cinema.

(Jackie mostra la sua abilità nel cadere rovinosamente a terra)

Stephen: "Quando hai imparato a recitare così?"

Jackie: "Veramente non ho mai imparato…"

Stephen: "Ma tu sei un genio!"

Jackie: "Se ti applichi, ce la farai anche tu!"

Doppelganger (Dopperugengâ)

di Kiyoshi Kurosawa, 2003

Strano oggetto, il penultimo film di Kurosawa. Proprio lui, sempre paranoico, apocalittico, angosciato, pessimista, proprio lui la butta sul ridere. Non che sia un film ridicolo, è anzi una variazione modernissima sul doppio che maschera una riflessione matura sulla complessità dell’animo umano. Ma l’ironia sorprende davvero, e positivamente. E qualche volta si fanno quattro risate.

Stilisticamente, la solita goduria: e oltre ai soliti piani lunghissimi c’è un’uso dell’inquadratura divisa (anche in tre) che supera lo split-screen per rappresentare due punti di vista in contemporanea (difficilotto, visto che si tratta dello stesso attore), così come lo sdoppiamento della personalità, tema ormai trito e ritrito, trova nuove forme confondendo anima e corpo e rendendo inutile qualsiasi ovvia spiegazione razionale di ciò che succede.

Comunque in alcune parti (come nell’inizio), la mano thrilling di Kurosawa si riconosce, ed è un piacere avere paura con lui, e la mise in scene è sempre ai limiti della perfezione.

Grandissima, ovviamente, la prova doppia di Yakusho Kôji.