maggio 2005

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This is how liberty dies: with thunderous applause.

PTU

di Johnnie To, 2003

Hong Kong, di notte, è una giungla. E in una notte come tutte le altre, con la Police Tactical Unit (PTU, appunto) che pattuglia i quartieri e due boss che si fanno la guerra attraverso piccole corruzioni e beffardi omicidi, Lo perde la sua pistola e Mike lo aiuta a ritrovarla, mentre una bella agente del Crime Investigation Department si finge irreprensibile e cerca di capire.

PTU è un noir che parla di livelli sociali, di gerarchie repressive, e del loro sovvertimento: lo si intuisce fin dalla prima apparizione di Lo, alla caffetteria, e ne è conferma la disperata ricerca di un marchio di status, e la riproduzione/falsificazione di quello stesso oggetto. Allo stesso tempo, un noir nerissimo che però in più di un’occasione si rifà alla tradizione della farsa, diventando una specie di thriller degli equivoci: scivoloni (due) su bucce di banane, telefonini scambiato per sbaglio, e via dicendo.

Come se ciò non bastasse ad indicare che PTU non è un semplice noir, il tono di To è liberissimo, e alterna momenti di terribile violenza (come la splendida scena del tatuaggio) ad un’ilarità diffusa, sorniona e irrisoria. Lo stile invece è semplicemente ineccepibile: i soliti piani lunghissimi, le solite perfette "composizioni per corpi umani e arredo urbano", e una fotografia che è un piacere per gli occhi: un affresco della notte metropolitana che ha pochi eguali, tra echi scorsesiani e kafkiani, tra il buio sotto i muri e le luci bianche e accecanti dei lampioni, fino a un (tradizionale) ricongiungimento stradale/narrativo, e a una chiusa (molto) meno tragica del previsto.

Insomma, ancora un film che dimostra l’indipendenza (economica e dal pubblico) di To. A dimostrarlo, la scena delle scale: cinque minuti contati di silenzio illuminato dalle torce elettriche, vetta di una politica di dilatamento temporale, che potrebbe essere pura tensione ma che To contrasta con una musichetta che nessun essere umano avrebbe mai messo, proprio lì. E che si concludono in modo paradossale e frustrante, con un niente di fatto. Geniale.

Visionaria e scioccante la scena delle gabbie: da brividi. Ultima menzione, meritatissima, per uno degli attori-feticcio di To, Suet Lam: splendidi il suo urlo ralenti e la sua ghignante risata finale.

Due cinebloggers: uno molto più estasiato di me, l’altro un po’ meno.

Nido di vespe (Nid de guêpes)

di Florent-Emilio Siri, 2002

Davvero una bella sorpresa, quasi (ma non del tutto) inaspettata, il secondo film del regista francese, oggi trapiantato negli Stati Uniti. Thriller carpenteriano nel midollo, quasi-remake di Distretto 13, un action tutto europeo (nella versione originale si parlano almeno quattro lingue) ma senza troppi vezzi d’autore che sfoggia una solidità difficile da trovare in un Besson o in un Pirès.

Racconto rimaneggiato dell’infinito incubo dell’assedio, e di una comunione contro un "nemico terzo" dall’invisibilità metafisica, Nido di vespe non perde un colpo: tiene altissima la tensione fino alla fine e ha la capacità incredibile già dalle prime battute di costruire personaggi (tanti, e credibili) in men che non si dica, senza dire più che lo stretto necessario. Per passare ai fatti, insomma.

Azzeccata la scelta del "nemico terzo" nella tratta delle bianche: gli albanesi non ci fanno certo una figurona, ma la scelta è coerente, politica e umana, e il bravo Siri riesce persino a trasformarla in espediente narrativo. Certo, non è un prodotto fresco o innovativo: ma è il tipo di film che vorremmo volentieri più spesso sulle nostre tavole.

Bello il cast paneuropeo, tra cui spiccano nell’ombra un mefistofelico Angelo Infanti e il solito Valerio Mastandrea. Per fare ruoli del genere, per cui è nato, gli tocca varcare le Alpi: davvero un peccato.

[consolazioni]







Gazzetta.it, Reuters, Sportincampo


Foto, Liverani (La gazzetta dello Sport)

Kriminal
di Umberto Lenzi, 1966



Tratto dal fumetto di Bunker e Magnus, Kriminal è un film che farebbe come sfondo la gioia di un localetto trendy: musichette lounge molto sixties, costumi colorosi molto eccentrici, due topone e pure gemelle, un protagonista bello, biondo, atletico, spietato e gran scopatore. Di solito poi, se guardi sotto c’è qualcosa che sfugge allo sguardo (che altri chiama) modaiolo. Qui, invece, c’è ben poco. Ecco, forse la divertente interazione con il fumetto – sfoggiata nei titoli di testa – cosa rara per il nostro cinema. Nota per me stesso: recuperare presto il Diabolik di Bava.



Resta comunque inaudito oggetto italiano da recuperare nel filone "facevamo anche noialtri cinema di genere", oppure in quello "facevamo anche noialtri la serie B". E la facevamo anche benino: Lenzi, accantonate le limitatezze di budget e soprattutto di cast (terrificante) aveva una buona mano: vedasi la scena del terrazzo, e certe intuizioni grafiche. Ma il film a momenti è davvero insostenibile, specie perché l’intelligenza del protagonista (che aveva sempre previsto tutto, lui) le fa girare, e a vortice.



Magnificamente inconsistente, per lo più piacevole.

Bright future (Akarui mirai)
di Kiyoshi Kurosawa, 2003


Girato in un digitale livido e illuminato, Bright future è l’ennesimo tassello della riflessione sulla contemporaneità dello straordinario regista nipponico. Ancora la società e l’individuo: da una parte, una desolazione (sociale, lavorativa, umana) sotto cui scorre la sottilissima speranza: un abbraccio, un sacrificio, un piccolo gesto anarchico. Dall’altra parte, una novella dai tratti fantastici e favolistici sulla crescita e sui legami, sulla dipendenza e sull’adattamento (di Yûji come della medusa), sulla perdita e riscoperta della figura paterna.



Contro ogni immaginabile ruffianeria nei confronti del pubblico, con la solita "bellissima lentezza" (ma usando l’interruzione del climax come marca linguistica costante), Kurosawa costruisce la sua parabola morale (e ancor più spiccatamente sociale del solito) da simboli più che da didascalie, permettendo una stupefacente immersione inconscia (perché il film conquista in punta di piedi, senza che ce ne avvediamo) e un’interpretabilità estrema che fa il paio con una cristallina chiarezza d’intenti.



Non ho grande simpatia per il digitale, e mi manca forse la ricercatezza formale di altre opere del regista: tutto è apparentemente più grezzo, lasciato solo alla forza dei protagonisti (immensi il solito Asano Tadanobu e Fuji Tatsuya) e alle reiterazioni e alle distanze/divisioni da colmare: gli split-screen in auto, la prigione. Ma apparentemente, perché il film è con evidenza studiato fino al dettaglio (soprattutto in post-produzione) e riesce a proporre immagini di grande bellezza, come quella magica e incredibile delle meduse che vanno a disperdersi nel mare, fuggendo dalla città.



Efficacissimo il lungo piano-sequenza finale (con scoprimento del set), che segue i passi del vero "futuro luminoso" del giappone, anch’esso forse inconscio e racchiuso in un simbolo, ma un simbolo che è Storia e che si imprime sul cuore. Speranza.



Links: Murdamoviez, neo(N)eiga, Cinemavvenire, Locandina francese.

[buone e cattive]

La buona notizia è che domani, nelle sale italiane, esce Kung Fu Hustle, ultimo lavoro di Stephen Chow, trionfatore agli ultimi Hong Kong Film Awards e buon successo anche oltreoceano, con il bizzarro titolo italiano di Kung Fusion.

L’altra buona notizia è che Kung Fu Hustle è davvero splendido: vetta inaspettata (dopo film come King of comedy e God of cookery) della filmografia di un autore capace di unire rarissime doti spettacolari a un rimescolamento dei generi e dei linguaggi degno dei più grandi comici della storia, è un film divertentissimo e commovente, assolutamente imperdibile.

Il mio post è qui. Se non credete a me, leggete il blog di Gokachu o Mattia Matteucci su Pickpocket, per dirne due.

La cattiva notizia è che alla pellicola, come già al precedente lavoro di Chow (Shaolin Soccer), è stato riservato da parte dei distributori italiani un trattamento davvero vergognoso e da denuncia, stupido e paradossalmente suicida. Se n’era parlato sul (cine)forum, già ad Aprile.

Non abbiamo ancora visto l’edizione italiana, ma oltre al titolo idiota e alla promozione pubblicitaria razzista che è davanti agli occhi di tutti, i segmenti audio presenti sul sito ufficiale non fanno che confermare il peggiore incubo di noi (pochi ma buoni) fan di Chow: ancora un’antologia di dialetti italiani, ancora l’impossibilità di concepire che in un prodotto simile (solo apparentemente idiota) ci sia spazio per una vena melò, ancora le "L" al posto delle "R". L’unica cosa buona è che le durate ufficiali delle due versioni coincidono.

Io lo vedrò probabilmente anche in sala perché ho già goduto tre volte e mezza (la mezza iersera) della visione in cantonese, così come hanno fatto tutti gli altri spettatori del mondo, statunitensi compresi. Però devo consigliarvi caldamente di boicottare questo scempio. Anche se dolorosamente: non ci capita spesso di avere in sala film di tale qualità provenienti da Hong Kong (anzi mai, visto il destino incertamente divudistico di Infernal Affairs) , e se sarà un insuccesso quanto lo è stato Shaolin Soccer in futuro rimarremo ancor più a bocca asciutta.

Nonostante ciò, avete tre opzioni: (1) aspettare pazientemente il dvd e guardarlo in lingua originale; (2) se conoscete l’inglese, comprare il dvd d’importazione; (3) andare in sala e turatevi le orecchie.

A voi la scelta.

[oltre al danno, la beffa]

- E come secondo, cosa vi posso portare?

- Mah, io per secondo prenderei del Milan. E tu, cara?

- Del Milan anche a me, per secondo. Grazie.


- Arrivo subito con le bevande. Buona serata.

Buona serata, un cazzo.

[meno male che c’è Bassiano]

La maschera di cera (House of wax)

di Jaume Collet-Serra, 2005

Siamo sei ragazzi americani tra cui due belle topone, nessuno di noi è particolarmente brillante, dobbiamo andare in macchina a vedere la tal partita di football: che facciamo, andiamo di notte? Ma sì. La scorciatoia è chiusa, c’è un cartello con scritto detour: che facciamo piantiamo una tenda nel primo prato che puzzi di carogna? Ma sì. Sono una delle due tope di sopra, sento dei rumori fuori dalla tenda dopo che siamo stati "avvertiti" da un minaccioso camioncino: che faccio, esco da sola al buio? E per di più in mutande? Ma sì. Ciao, sono il fidanzato di quell’altra topa, facciamo che ogni volta che devo vedere qualcosa la lascio sola in balia di qualche pericolo? Ma sì.

E via dicendo: House of wax è tutto così. Banale e noioso, un film di una stupidità indecorosa costruito intorno a due idee che sono due: la prima, buona solo in teoria (ma un velo pietoso sul risultato) è la casa di cera che nel finale si scioglie su se stessa; la seconda, tremenda, è giocare in modo paratestuale sulla wannabe-star Paris Hilton, ironizzando fino alla nausea sul suo celeberrimo video porno e mostrando un breve e per di più frustrantissimo spogliarello. Giuro, non c’è altro.

I primi due o tre minuti prima dei titoli, in qualche modo originali, facevano sperare in qualcosa di diverso. E invece è il baratro, il fondo già scavicchiato dell’horror americano, derivativo e tristissimo, tetramente fighetto sotto l’apparenza truce, con plagi a non finire, citazioni cinefile che te raccomando (Aldrich, ma ditemi voi) e una deriva melò che fa solo ridere. Non pensavo che qualcuno avesse ancora il coraggio di produrre film simili: Silver e Zemeckis, tanto meno.

Ingiustificabile: statene doverosamente lontani.

Meno male che era gratis: ancora un’anteprima di FilmTv andata male. Sono proprio curioso di leggere che (e se) ne diranno il blogger noto come Andrea e i due secondavisionisti, tutti e tre presenti in sala. Già lo so che sono d’accordo con me: ci mancherebbe altro. Più che altro, son curioso del tono.

Postilla

Ieri sera dovevo starmene a casa.

Anche solo per vedere questo splendido uomo.

Per me, tre pallette e mezzoSideways

di Alexander Payne, 2004

Viaggio alla ricerca della propria dignità e della propria identità sociale, smarrite nel fallimento dei sogni, on the road in un’enogastroturismo che sembra tanto alcolismo da intellettuali, Sideways è un film che non lascia a bocca cattiva: sensibile e delicato, scritto con grazia e intelligenza, recitato divinamente, purtroppo senza le unghie del bellissimo Election (dello stesso Payne) ma più che soddisfacente.

Nonostante ciò, da queste parti ci si chiede: se si funziona così bene con questo tono understatement, se si riesce a disegnare una coppia di falliti così ben riuscita e farli interagire con garbo e rigore, e se si riesce, in questo modo, a creare una scena magistrale come quella della prima, alcolicissima, uscita a quattro (con quell’impagabile "desiderio di telefonare"), perché allora prima o poi bisogna per forza buttarla sul greve, diventando a tratti una pochade volgarotta girata giusto un pelo meglio della media? Epater le bourgeois?

Grazie al cielo c’è la parte finale, bellissima, giustamente amara nel ritorno di Jack, altrettanto nella terribile scena del matrimonio, e piena di speranza in quella mano che bussa.

Paul Giamatti, enorme.

Expect the unexpected (Fai seung dat yin)

di Patrick Yau, 1998

Mai titolo fu più chiaramente messaggio, e direttamente allo spettatore: aspettati l’inaspettato, perché come la vita non è fatta di schemi prestabiliti e l’inatteso è dietro l’angolo, così può essere il cinema. O almeno, questo cinema. Ma per quanto possiamo essere stati "avvertiti", e quando siamo convinti che tutto sommato le regole siano state rispettate, che il film insomma sia finito, il celebre finale arriva come una vera pugnalata, uno sparo al cuore, meravigliosamente crudele.

Poi, da qualche parte (come su FilmTv) si dice che il resto del film sia un medio e onesto noir hongkonghese come molti altri: ma forse non lo è, a parer mio e a parer storico, perché Yau e (soprattutto) i produttori Johnnie To e Wai Ka-Fai mettono in campo una concezione del noir metropolitano che è la stessa che porterà al ben più celebre The mission, dell’anno dopo: la rappresentazione del celato e i tempi morti della vita.

Insomma, il film è sì una "caccia all’uomo", ma tale caccia sembra impensierire i personaggi molto meno della vita vera. Che è quella delle occasioni perse e delle seconde occasioni, e che è quella che tiene conto anche dell’inaspettato: da qui il senso sottile di presagio mortifero che attraversa il film, anche quando i personaggi (tutti straordinari, per tacer degli attori) cazzeggiano, scherzano, si innamorano, litigano, si riconciliano.

E’ proprio a causa di quest’affezione, di questo legame che si viene a creare con i personaggi (e in fretta, perché il film è breve) che il finale è così doloroso? O forse perché coglie un aspetto della vita, la sua drammatica e spietata casualità, che non siamo abituati a vedere sullo schermo con tale schiettezza e tragicità?

Un film di cui ci si può innamorare a prima vista.

Saw – L’enigmista (Saw)
di James Wan, 2004



Saw ha una dote innegabile, rara e preziosa per il cinema di genere: non annoia mai e non risulta mai ridicolo. E sì che il materiale per il tonfo c’era: tanto più che l’australiano Wan fa l’errore di tutti gli "esordienti" (questo è il suo secondo film, ma il primo di ampia visibilità), e cioè tende a strafare. Eppure, anche quelle sferzatone videofliippate nell’inseguimento o nei flashback non danno fastidio, anzi ci fanno tenerezza e allo stesso tempo accelerano il nostro battito cardiaco. Saw è un thriller cardiaco, in qualche modo: non per niente tra le scena migliori c’è quella dell’auscultazione.



Insomma, ce ne possiamo fregare del fatto che "recitino male", come si dice da qualche parte per sminuire un film semplicemente molto ben congegnato, senza molt’altro: ma avercene. D’altronde, il cast è il tipico B-cast: attori stanchi e dismessi. Cary Elwes, un uomo in calzamaglia. Danny Glover, un’eterna spalla. Ci fa quasi piacere vederli risucchiati in tale incubo. Perché tanto il protagonista è un occhio esterno (e interno, e via spoilerando), un voyeurismo mai metanarrativo, se non sintomaticamente.



Poi ci sono il sorpresone finale, l’effetto sonoro finale, la frase finale. Ma almeno senza l’ambizione di fare della facile morale (anche se la morale c’è, eccome): questa è serie B, buon divertimento. Poi, se ci trovare da pensare, fatti vostri. Piuttosto, si costruisce una situazione terrificante (debiti con The Cube, ma solo all’inizio), un’intelligentissima struttura ad incastro che evita il semplice affastellarsi di crudeltà rimanendo coesa (e il tempo è carattere fondamentale) e soprattutto l’immagine di un serial killer che pur essendo moralista (e figlio inevitabile del John Doe fincheriano) non predica tanto, ma razzola un gran bene.



A noi italiani un po’ di gore l’hanno purtroppo risparmiato tagliuzzando, ma una caviglia segata è sempre un bel vedere.

Quando sei nato non puoi più nasconderti
di Marco Tullio Giordana, 2005



Non vorrei dire nemmeno una parola sul nuovo film di Giordana. Perché sembra stato fatto apposta per essere analizzato e distrutto (cosa che non ho intenzion di fare), non mi sento di innalzarlo all’esempio che non può e non dev’essere, ma nemmeno di demolirlo. Si pone (purtroppo) su un livello di medietà, forse fastidiosa per chi apprezza il regista milanese, accettabile per chiunque altro.


Quando sei nato è un film decisamente politico, e strettamente legato alla realtà (altra cosa che il realismo, si intenda), più che ai personaggi e al senso storico come il meraviglioso La Meglio Gioventù. Ed è proprio per questo marcato disinteresse che i suoi personaggi non funzionano a dovere: la Cescon è un’anima pia, il Popy insopportabile ma solo perché stupido, non perché cattivo. E poi, Boni è buono solo perché devastato dai sensi di colpa nei confronti della moglie o gli si è davvero aperto il cuore? Speriamo nella prima ipotesi. Perché?



Perché dall’altra parte (gli "ospiti", spesso indesiderati) non c’è altro, o meglio non c’è nulla. Di qui, Boni, la Cescon, il Popy, il prete, e chi più ne ha. Di là, due ragazzi rumeni: che ci fanno davvero una figuraccia. E quindi, per procedimento metonimico (che funziona sempre bene, o sempre facilmente) ci farebbe una figura di merda l’intera "categoria". Narrativamente è un bel colpo di coda, che "sporca" l’oggetto dal  "buonismo" (come altri lo chiamano), ma se davvero si vuole parlare alla classe rappresentata (gente che abita sul colle Maddalena a Brescia, gente con i soldi e il Carrera4), allora bisogna tenere conto anche dei loro pregiudizi, invece di buttare benzina sul fuoco. Altrimenti usciranno dal cinema convinti che gli immigrati siano davvero tutti ladri e tutte puttane.



Questa è solo la cosa più fastidiosa di un film altrimenti di strana ma innegabile bellezza, con almeno una sequenza lunga e meravigliosa (quella notturna e angosciante, spinta ai limiti), molte altre memorabili (citandone una, l’identificazione al centro di accoglienza), attori splendidi e una sceneggiatura che, a partire da una bella storia, non sa bene che strada prendere (soprattutto alla fine) ma almeno sa, per una volta, prendere di petto il presente. "Non è giusto, ma non è colpa mia" dice Boni, mostrando sia una condizione legislativa indecorosa o semplicemente confusa e paradossale (rincarata dal manifesto elettorale esposto fuori da una specie di bolgia dantesca di clandestini), sia la visione che la "classe dominante", anche se illuminata o progressista, ha dei problemi e della realtà che le sta intorno.



Quindi il mio consiglio è: andate a vederlo, in giro c’è di peggio, anche se è la seconda (su due) delusione (di fila) sulle opere che aspettavo più con ansia in questo periodo.



Concludo bonariamente: ammetto che il mio giudizio è sporcato dalla rarità dell’ambientazione bresciana. E da buon bresciano forse mi sono distratto con le parlate delle mie parti e gli esterni luoghi (le piazze, le colline, i panorami) in cui sono cresciuto. Le due vecchiette in autobus sono impagabili. Perdonatemi.

"Té, gnaro. Ma ta set té quel gnaro lé che l’era cascà ‘n mar? Mamamia, che bruta ‘speriènsa che ta gh’et fat, ‘n mes a tuti quei négher!"

Jabberwocky
di Terry Gilliam, 1977



Tratto da un celebre racconto in versi di Lewis Carroll, Jabberwocky è il primo vero film di Terry Gilliam (Holy Grail, codiretto da Terry Jones, è del 1975) ed il primo senza i Monty Python. "Senza" per modo di dire, se il protagonista assoluto è Michael Palin e il film si apre sul volto urlante di Terry Jones. In più, la comicità è figlia diretta di quella creata dal rivoluzionario gruppo di comici britannici, anni prima, in tv.



In definitiva molto inferiore alle opere successive del regista, così come ai film dei Python: non possiede la spinta visionaria dei primi, né l’irresistibile anarchia dei secondi. Tanto di più se si pensa che i materiali di Jabberwocky e di Holy Grail (ma anche dell’ossessione medievalista nel cinema di Gilliam) sono molto simili. Nonostante questo, grazie anche a una coesione narrativa che i Python non si sognavano nemmeno di portare in campo, è un’operetta molto divertente, terribilmente demenziale, lievemente satirica, con parecchie cadute di ritmo ma decisamente da recuperare.



Impressionante in alcune scene (come in quella della morte del padre) il lavoro fatto da Gilliam e dal direttore della fotografia Terry Bedford sulla riproduzione dell’iconografia medievale: ammirevole, per un film "comico". Molte le scene a ricordare, ma tra tutte è davvero da rotolarsi a terra quella del torneo, in cui il re e la principessa chiacchierano amabilmente, sempre più grondanti del sangue dei cavalieri.



Purtroppo assenti i leggendari disegni di Gilliam, limitati al fondale della scena finale. Ma il "mostro" è una creatura degna dei suoi deliri pittorici.



Cercavo questo film da anni: visto in una buona edizione dvd italiana, miracolosamente non doppiata e provvista persino di audio commentary.

Last days

di Gus Van Sant, 2005

Blake è una rockstar strafatta o forse semplicemente impazzita che rimbalza in giro per una grande casa e per la foresta che la circonda delirando e mugugnando frasi sconnesse che riportano alla predestinazione della sua morte. Mangia schifezze, incontra persone e oggetti, ma è sempre fondamentalmente solo.

Van Sant procede sulla strada intrapresa con Elephant e (pare) con Gerry, sulle orme dichiarate di Tsai e Tàrr: anche qui carrelli infiniti, piani fissi interminabili, l’ossessione dello stare nell’ombra del personaggio deambulante, la reiterazione delle situazioni secondo i diversi punti di vista. Last days comunque, più che il ritratto di un sosia di Kurt Cobain (ripreso con mimesi apprezzabile – forse inutile – da Michael Pitt) è il ritratto di una solitudine esistenziale e storica, legata al rapporto (e alla morte di ogni rapporto) di una generazione con la natura, con l’arte, con la società.

Ma purtroppo Last days, oltre a deludere chi si aspetta un biopic di Cobain (genere lontanissimo, e grazie al cielo), delude chi, come chi vi scrive, cercava un altro Elephant: perché là c’era una folla di personaggi da osservare, e la sospensione formale, anche qui magnifica, sottendeva una visione morale libera e sconvolgente. Mentre qui c’è solo un personaggio, prigioniero e solo, e la noia più che dietro l’angolo è nella stanza con Blake, e in sala con noi.

Non è un disastro, comunque: Van Sant è ancora un regista coraggiosissimo, sia per il suo impudico irrispetto del pubblico (qui portato molto oltre al di là di Elephant, e questo lo salva), sia per il suo sguardo unico nel contesto del cinema americano. Il film poi è ovviamente di una bellezza formale impressionante. Forse troppo. E qualche bella sequenza ce la lascia, come la camera fissa sul televisore che trasmette un video dei Boyz II Men (davvero indovinatissimo, un colpaccio da maestro), il lentissimo carrello all’indietro sullo sfogo musicale di Blake, la (doppia) sequenza del disco dei Velvet Underground.

Ma la scena dell’anima sovrimpressa è un tonfo imperdonabile, e fa seriamente dubitare della sanità mentale di Van Sant. Decisamente meglio la demitizzante secchezza dei bei titoli di coda. Asia Argento sono solo due chiappe.

Viridiana

di Luis Buñuel, 1961

Il vero film di svolta nella carriera del già 61enne Buñuel fu prodotto in Spagna sotto il regime franchista: impensabile infatti che potesse uscire davvero in sala un attacco così caustico alla borghesia e all’iconografia cattolica. Angosciante fino all’orrore, teso senza mai una risata liberatoria, è uno dei suoi film più limpidi e seri: una riflessione cupissima sul male (identificato con l’animo umano, e non con una categoria sociale) e sull’innata decadenza delle virtù teologali: la fede è inutile se la carità porta solo alla disperazione.

Da applausi la scena dell’angelus, con l’Ave Maria recitata in giardino alternata con i rumori degli operai. La lunghissima sequenza della "festa" dei barboni, tra il vino e allegre blasfemie leonardesche, le orgette e il Messiah di Haendel, è ancora una bella scudisciata nella schiena.

Splendido.

Il Dvd italiano, edizioni San Paolo, è davvero disastroso. Ma credo che di meglio non ci sia, almeno in Italia.

Yaaba

di Idrissa Ouedraogo, 1989

Secondo film del regista di Samba traoré, primo ad aver avuto un richiamo internazionale (FIPRESCI a Cannes e Tokio Gold Award), Yaaba (nonna) è la storia dell’amicizia tra un ragazzino e una vecchia donna rinsecchita e calva, esiliata dal villaggio perché rimasta senza famiglia, e ritenuta con il tempo una strega. Sfidando la chiusura mentale degli abitanti del villaggio, il piccolo Bila ricrea con la spontaneità infantile quello strappo che la storia e le alterne vicende hanno creato tra la generazione passata e quella presente, i cui adulti sembrano sono solo trascinati dal desiderio sessuale e dall’istinto vendicativo.

L’innocenza e la dimensione del gioco contro quella del pregiudizio, il rispetto della saggezza degli anziani contro gli istinti primordiali e i falsi idoli della superstizione: tralasciando le contingenze storico-geografiche (anche se il tetano mortale colpisce più come terrore reale che come espediente narrativo), quello di Ouedraogo, anni prima della storia di Samba, è già uno sguardo morale interessato a conflitti umani e universali, trasferiti ovviamente nel mondo che meglio conosce. E pur con l’aiuto degli europei (quasi tutti francesi e svizzeri, montatrice italiana), ne traspare un’indipendenza registica che è come aria fresca. Purifica.

Yaaba è un film dolcissimo e tanto semplice da avvicinarsi ai meccanismi della fiaba, ma sa colpire con durezza (come nella splendida scena della rissa dei ragazzini), soprattutto nel ritratto impietoso che fa del mondo degli adulti. Con la paura che quella sia l’unica strada ma anche con l’esplicita speranza nelle nuove generazioni.

Bella la fotografia secca come il terreno e i paesaggi del Burkina Faso. Assita Ouedraogo, vista poi anche in La promesse, è di una bellezza contagiosa.

La donna perfetta (The Stepford wives)

di Frank Oz, 2004

Frank Oz ispira simpatia. Un po’ perché abbiamo tutti la sua faccia da ragioniere in testa senza saperlo grazie al suo amico John Landis, un po’ perché è la voce di Yoda e Miss Piggy. Ma soprattutto perché i suoi film sono sempre stati sbagliati, in un modo o nell’altro. Dal kitch canterino della Piccola Bottega ai tonfi ritmici di In & Out.

Certo, sapeva usare il grande Steve Martin (più e più volte suo attore-feticcio) meglio di quanto facesse Carl Reiner, diede persino spessore comico a Eddie Murphy in Bowfinger, e What about Bob? è davvero un gioiellino: familiare, cinico, nevrotico. Ma resta comunque un regista sotterrato dal peso (in The score anche fisico) degli attori scelti, forse amichevolmente forse no, un goliarda schiacciato da una fisionomia attoriale troppo spesso lasciata andare allo scatafascio (vedasi Housesitter) senza binario e senza controllo.

Proprio per questo non si può più dare nemmeno simpatia al regista di La donna perfetta: perché il film, oltre ad essere pedante, interminabile (e sì che dura un’oretta e mezza) e privo di spessore, visto il cast coinvolto è un’occasione perduta per ribadire una seppur discutibile linea di pensiero: Walken bidimensionale, Broderick annoiato, e cosa davvero insopportabile, Bette Midler visibilmente più brava di Nicole Kidman.

Non tiriamo poi in ballo seriamente emancipazione femminista e decadenza del maschio: per quanto si cerchi di illuminarla con una sorpresina finale misogina e inspiegabilmente lirica, la critica sociale più che all’acqua di rose è all’acqua fresca.

Qualche arredo vintage, dei bei titoli di testa e quattro risate non bastano a fare un film. Figuriamoci un bel film.

[chiusa parentesi]

Con il volto sofferente del signor Han e con (finalmente) la visione di Oldboy in una sala cinematografica*, si conclude l’hype incontrollata nei confronti del capolavoro di Park Chan-wook.

*Roma, Cinema Jolly, zona Tiburtina, venerdì pomeriggio. Una dozzina di persone in sala, di cui sei ragazzini di una dozzina d’anni l’uno. Inspiegabilmente – e fortunatamente – zitti e attoniti.

Nel frattempo la gente è andata a vederlo, tra molti consensi (persino un ringraziamento via sms, son gioie!), cinebloggers estasiati, e qualche ovvia stronzata letta in giro.

Amen.

[torno subito]