giugno 2005

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Melinda e Melinda (Melinda and Melinda)
di Woody Allen, 2004



"Melinda had a reputation for being Postmodern in bed"



Il 35esimo (circa?) film di Woody Allen è una doppia storia di donna (meno kieslowskiana di quel che sembra), perché configurata da un lato con i canoni della commedia, dall’altro con quelli del dramma: esercizio di stile che neanche Quenau, ma che dico, neanche Bartezzaghi.



Al di là della riflessione sull’insita drammaticità o comicità della vita sparata un po’ a pera dai soliti intellettuali newyorkesi nella frame story, a Woody, manco a dirlo, interessa più che altro giocare con le trame e con i linguaggi, incastrando amori e disastri, suicidi e risate, con il solito (e ovviamente ottimo) mestiere. Ma visto che da tempo i drammi gli riescono proprio maluccio rispetto alle commedie, durante le richieste lacrime non si fa altro che aspettare quelle quattro battute carine (e mica di più) sperando magari che la bionda (davvero bravissima, e ben utilizzata) Radha Mitchell torni a farci sorridere in fretta.



Fiacchetto, ma che dico, fiacco: cadono in noia le più che ottime speranze sollevate da Anything Else. Ma pare proprio che con il prossimo Match Point si torni a parlare di grande cinema. Sarà vero?

[painful waiting]






La mia vita a Garden State (Garden State)
di Zach Braff, 2004



Scritto e diretto da un attore televisivo (visto nell’ottimo Scrubs), di indubbio talento in entrambi i campi nonostante la faccia da schiaffi, Garden state è un film che partendo dalla consuetissima opposizione città/periferia (la trafficata Los Angeles dell’inizio surreale versus la cittadina natale nel New Jersey) racconta una storia di graduale "guarigione". Ma non da mali provocati appunto dalla fuga, come si è portati a pensare all’inizio, privi di indizi; bensì da mali endogeni e legati a una (davvero spicciola ma a tratti convincente) psicologia familiare.



Braff si dedica alla sua operetta autobiografica tristallegra e quasibizzarra con egocentrismo ammirevole, un po’ perché di sè sa parlare proprio un gran bene, distaccandosene quando c’è il rischio dell’autocollasso, e perché sa dar spazio almeno ad un paio di riusciti personaggi secondari. Che sono la forza del film: Peter Sarsgaard, ad esempio, è migliore di Braff in scena, forse proprio per quel carattere "medicinale" che il suo personaggio ha nella sceneggiatura. Ma è Natalie Portman, bugiarda patologica e ipersensibile, ad essere davvero perfetta: non solo fotogenia, è una grande attrice, capace di emozionare con un solo sguardo.



Viaggio alla riscoperta delle emozioni di un ragazzo che non ne ha mai provata una attraverso la rivalutazione di una condizione familiar-provinciale dapprima guardata dall’alto con cinico distacco, un film semplice semplice, forse banale eppure commovente, abbastanza fighetto e con ruffianotte inflessioni post-hippie (il gioielliere sull’Arca) ma con molte scene davvero emozionanti. Spesso le più potenzialmente stucchevoli, come l’urlo sul baratro, o il tip-tap davanti al fuoco, o il finale terribilmente romantico. Chi vi scrive ci ha buttato la lacrimuccia.



In più ha una bellissima colonna sonora, per cui tutti vanno pazzi: ma quel che conta davvero è la straordinaria sensibilità che lo muove. E che, al di là delle divertenti amenità da eterno adolescente di cui il film è pieno (protagonisti spesso animali, vivi o morti, o coloriti ex-compagni di scuola), una volta finito, lo avrei rivisto ancora una volta. Cosa che ho fatto, puntualmente.



Ingenua la distribuzione italiana: Garden State non è affatto il nome di una cittadina del New Jersey, ma è il New Jersey stesso.

Judgement (Simpan)
di Park Chan-wook, 1999



Cortometraggio con cui Park, dopo un paio di film passati inosservati, si fece notare al festival di Clermont-Ferrand, aprendosi la strada all’enorme successo di JSA. E non si fece notare per nulla: in 26 irresistibili minuti (quasi tutti) in bianco e nero, il futuro regista di Oldboy mette già in campo il suo incredibile talento registico, seppur "in piccolo" e a budget minimo. Sia nella direzione degli attori, sia nel ritmo e nella composizione dell’inquadratura, soprattutto se si considera che il film è girato tutto nella stanza di un obitorio.

Judgement mescola sapientemente i piani diegetici (la colonna sonora che si scopre spesso essere uno stereo acceso nella stanza) e gli statuti di realtà (l’atmosfera apocalittica, i filmati di repertorio, la cronaca) in una caustica riflessione sulla condizione umana, fatta però con un umorismo corvino e ghignante che da lui non ci si aspetterebbe: e in scene come quella del riconoscimento, o delle birre conservate nel frigo al posto della testa di un cadavere acefalo, si ride a bocca aperta.

E chi poteva averne già parlato, se non lui?

[svolte epocali]

 

Batman begins, Christopher Nolan 2005

Tre quadratini e mezzoBatman begins

di Christopher Nolan, 2005

Abbiamo amato i batman milleriani e burtoniani di Tim Burton, abbiamo detestato i batman sghembi e plasticosi di Joel Schumacher, e infine abbiamo atteso. L’attesa non è stata vana, perché il film di Nolan, regista del mai dimenticato Memento qui in pausa rinfrescante, pur non avendo la grandezza immaginifica e il genio autoriale dei primi, è diversi grattacieli più alto dei secondi.

Ma il confronto con il passato lascia il tempo che trova, perché BB è un film che va “alle radici del mito” (E.Martini), che ricomincia saggiamente da capo a riconfigurare la mitopoiesi cercando di dimenticare chi, ignorando le svolte epocali degli anni ’80, aveva di nuovo ridotto l’epica cupa del cavaliere oscuro ad una farsa colorata e bidimensionale degna nemmeno dell’ironia di Adam West e soci.

Così, Nolan concentra la sua attenzione soprattutto nella parte, affascinante e cupa, dell’addestramento e dei flashback. Facendo forse l’errore di “tirarla via”, soffermandosi poco su azioni e reazioni, con una fotta riassuntiva da trailer, e sequenze che durano pochi secondi per poi staccare in fretta. Come se avesse fretta di giungere al “sodo esplosivo”. Ma l’immagine della setta destrorsa che sradica le civiltà è azzeccatissima, così come la struttura temporale.

E in una seconda parte che appunto predilige la classica (ma ben congegnata) patina action ai tentativi di riflessione della prima, c’è il tocco più indovinato di Nolan e dello sceneggiatore Goyer: la scelta della nemesi. Non più un “cattivo” uguale per tutti, ma una “paura personalizzata” per ciascuno. Quasi una metafora della customizzazione informativa? E se si pensa che tutto il film gira intorno a una specie di “isotopia della paura”, si capisce anche perché tanta creatività (e un pizzico, ma proprio un pizzico, di visionarietà iconografica) sia stata dedicata alla rappresentazione delle paure collettive (cavalieri oscuri, vermi e ovviamente pipistrelli).

Talentuoso Bale, nonostante il doppiaggio infausto, ma sotterrato dai comprimari: bravissimi il solito Gary Oldman, e in cima a tutti Michael Caine, lo splendido ironico Alfred che desideravamo. Katie Holmes (che personalmente ho sempre trovato deliziosa), anzi la bocca di Katie Holmes, è talmente laterale ed innocua da non risultare nemmeno così fastidiosa.

Nonostante alcune verbosità della sceneggiatura e l’impressione di un Batman un po’ troppo idealista e decisamente troppo poco carogna, e i cui dilemmi sono limitati a un irrisolto complesso di colpa più che a una vera e irrimediabile crisi d’identità, questi e altri (anche sopracitati) difettucci non inficiano quello che è un lavoro con i fiocchi. Con un finale che, a scapito di timori del penultimo minuto, impara sapientemente la lezione dell’uomoragno di Raimi.

Ecco, magari è da prendersi con cura e senza esagerare (attribuzioni autoriali ed elogi sconsiderati). Ma ci si diverte davvero, e parecchio.

The killer (Die xue shuang xiong)

di John Woo, 1989

"Them Hong Kong movies came out, every nigga gotta have a forty-five. And they don’t want one, they want two, cause nigga want to be ‘the killer’. What they don’t know, and that movie don’t tell you is a .45 has a serious fuckin’ jammin’ problem. I always try and steer a customer towards a 9-millimeter. Damn near the same weapon, don’t have half the jammin’ problems.  But some niggas out there, you can’t tell them anything. They want a .45. ‘The killer’ had a .45, they want a .45." (Samuel L. Jackson, Jackie Brown)

Sembra davvero inutile fare un post su un film come questo, ma lo faccio. Prima di tutto per coerenza, e poi perché mi rendo conto che forse c’è ancora gente che non conosce il John Woo hongkonghese, gente che non ha mai visto The Killer, pietra miliare e pietra tombale. Che cosa aspettate? Il dvd della BIM si trova ovunque e a pochi euri.

Un altro di quei pochi film che mi fecero innamorare del cinema Hong Kong, tanti anni fa. D’accordo, forse Bullet in the head è più bello (ed è il suo vero capolavoro), Hard Boiled è più divertente, e gli A better tomorrow (1 e 2) sono più smargiassi: ma niente da fare, qui non ci si confronta con un semplice film, ma con la statura del mito. Per me per la prima volta in cantonese (evitate se potete il tremendo doppiaggio italiano), il film è pura commozione, così com’è puro melò.

Quest’ulteriore, ennesima visione, mi ha causato una riflessione che forse tutti voi avevate già fatto: amicizia virile, sì, certo, come sempre. Soprattutto tra i due protagonisti e i rispettivi mentori. Ma il rapporto tra i due protagonisti non vi sembra attraversato da un’evidente tensione omosessuale? Foss’anche, ben venga: invece di spegnere la pulsante fiamma di sangue che incendia il film, rende più speciale l’attaccamento puramente "morale" del killer alla cantante, e trasforma The killer in una disperata e nichilista, astratta ma caldissima, storia d’amore. E morte.

Birdcage inn (Paran daemun)

di Kim Ki-duk, 1998

Mentre un ristretto (per via della distribuzione) pubblico italiano scopre la bellezza di Samaria in sala, e mentre una nutrita cerchia di cinebloggers (che non linko per invidia) espone le sue opinioni a proposito dell’ultima fatica di Kim The bow, io, rimasto a bocca asciutta su entrambe le esperienze, faccio un passo indietro e recupero uno dei suoi primi film. Per essere esatti, il terzo.

Kim mostra già una fissazione su alcune immagini che saranno caratteristiche del suo cinema successivo (come l’acqua, i pesci, i quadri di Schiele, e via dicendo) e su motivi narrativi poi ripresi (come la prostituzione, ma non solo). Birdcage Inn è una storia di annullamento e rivalsa del sè, e al contempo racconto di un’amicizia basata su alcuni passaggi sottolineati (ostilità, distacco, emulazione, attaccamento).

Vicenda che porta infine ad una riconciliazione. Che non è solo duale ma anche sociale: la ricostituzione di uno sfatto nucleo familiare. Ma come spesso accade nel suo cinema, la catarsi finale avviene anche (o solo) attraverso l’accettazione del misto di pochezza e di poesia che è proprio dell’essere umano, e attraverso l’empatia verso inaudite formae amoris.

Birdcage Inn è un film intenso e doloroso, seppure attraversato da uno strano filo ironico che lo rende disperato e tenero al tempo stesso. Ma senza mai essere grottesco, né squallido nel suo mostrare lo squallore del mondo. E nonostante lo stile di Kim sia molto grezzo rispetto alle magnifiche prove che seguiranno (ma qui non si sa se si debba prescidere dal formato), il suo è già uno sguardo estremamente maturo. E di lancinante bellezza visiva.

La vita è un miracolo (Zivot je cudo)

di Emir Kusturica, 2004

Nell’ultimo suo film, Kusturica se la prende comoda e fa le cose facili: in pratica, rifà se stesso all’infinito, ma conservando fortunatamente quello sguardo poetico che in lui sa da sempre dosare il dramma con la farsa, gli ottoni sfrenati con le bombe, gli eccessi nervosi del "popolo yugoslavo" con una poetica dell’assurdo che ha pochi rivali (e molti referenti). 

Insomma, anche qui c’è tutto Kusturica: animali a frotte, piccole perversioni, la No Smoking Orchestra, qualche volo onirico, e altre decine di cose. Maniera? Forse. Noia? A tratti. Ma forse solo perché Underground e Gatto nero gatto bianco sono davvero su un altro pianeta, e Zivot je cudo assomiglia loro un po’ troppo per non deludere. In senso relativo.

Ma trovargli un difetto che sia davvero assolutamente tale è difficile. Mettiamola così: è davvero troppo lungo. E forse inutilmente, se si pensa alla semplicità della trama: metà film sono elementi contenitivi e pleonastici, materia puramente antinarrativa. Ma è materia che ci piace e che ci diverte da impazzire, e quindi soprassediamo.

Sword in the moon (Cheongpung myeongwol)
di Kim Ui-seok, 2003



Ho visto due wuxiapian coreani, genere preso in prestito dai pargoli di Seoul dalla ricca cinematografia hongkonghese. Il primo è Bichunmoo, ed era mediocre. Il secondo è appunto Sword in the moon, che condivide manco a dirlo con il film di Kim Young-jun i medesimi difetti, ma in generale è un film decisamente più piacevole e più riuscito.



Estremamente confuso e forse troppo stringato, incapace di dare cuore ai personaggi nel poco tempo a disposizione, il film ha però, soprattutto nella seconda parte, un bel respiro epico, corredato da un’ottima confezione. Dopo mezz’ora di cling e clang è possibile ritrovarsi a pensare ad altro, ma con un po’ di immersione il film si dimostra capace di tenere il passo con talento e senza tante menatine fighette, senza annoiare troppo e senza emozionare affatto. Acqua fresca che passa e va, ma si può vedere.



I combattimenti in step-framing non possono non ricordare Ashes of time, ma qui c’è una concretezza altra, violenta sanguigna e barbara, che meglio si collega alla (flebile) riflessione sulla Storia, rilasciando ipotesi (consce?) sulla presente divisione coreana (dell’uomo coreano?), e ancora più sottili su un’epica dell’omosessualità che ha ben altri antenati ma che non stona affatto.



Choi Min-soo, a scapito del nome e della provenienza, è identico a Tony Leung Ka-fai, il che non è proprio un bene. Kim Bo-kyeong è bellissima, e basta, e avanza. Jo Jae-hyeon è un tipaccio.

Mysterious skin
di Gregg Araki, 2004



Con una maturità inaspettata, con senso del pudore e una delicatezza rarissima viste le tematiche affrontate, il regista di Doom generation costruisce una doppia storia: la prima una rimozione, la seconda uno sfogo, ma entrambe dettate dall’insopportabilità dell’accettazione del trauma stesso. Le due vicende umane, condizionate tanto dall’ambiente sociale quanto da quello familiare, si incrociano attraverso un uso perfetto del montaggio parallelo, fino a combaciare, l’una nell’esorcismo dell’incubo rimosso e l’altra nell’esercizio della rivalsa sui propri incubi manifesti.



Anche grazie alle performance degli attori, tutti bravissimi (più il magnifico Joseph Gordon Levitt che un Brady Corbet un po’ soffocato dai cliché – mentre Michelle Trachtenberg è una  valida dimostrazione teologica), Araki confeziona un film che non è solo un’elegia della memoria e una bizzara storia d’amore in assenza, ma un’opera profondamente tragica sulle radici della solitudine, della provincia e più in generale del mondo contemporaneo.



Non tutto è all’altezza della prima straordinaria mezz’ora, con quei flash a volte strazianti perché solo immaginabili e a volte dolcissimi nel loro mostrare una forma amoris inaccettabile eppure paradossalmente dolcissima. Ma il film non perde comunque quasi mai d’interesse, appassiona e commuove fino alla fine, ed è pieno di sequenze indimenticabili (come quella del Vermeer), spesso forti come un gancio sul mento.



E così come l’incipit visionario, davvero da antologia, nonostante alcune critiche è davvero bello anche il finale, oltremisura esplicativo eppure ugualmente poetico e struggente. In quell’abbraccio sempre più lontano, nel caldo buio dello "sparire", Brian e Neil non saranno più soli.

[remainders]



Esce oggi nelle sale italiane Samaria del regista coreano Kim Ki-duk, con il (corretto) titolo italiano di La Samaritana. Se l’avete già visto sicuramente lo amate o poco meno, e non potrete perdervi l’occasione di vederlo in sala, sperando in una buona (e integra, visto il tema) edizione italiana. Se siete fan di Kim ma non l’avete visto, non perdertevelo per nulla al mondo. Se invece di Kim avete visto solo Ferro 3, beh, sappiate che Samaria è a quei (altissimi) livelli, e forse anche un briciolo più bello.



Insomma, un capolavoro. Siamo lieti di accoglierlo tra le nostre braccia e ancora una volta nei nostri cuori.



Il mio post su Samaria è qui.



Oggi esce nelle sale anche My summer of love, di cui si è parlato qualche giorno fa: lasciate pure perdere.



Infine, anche se non uso parlare mai della programmazione televisiva, oggi faccio un’eccezione.



Stanotte dalle 1.35 (circa) su Raitre, all’interno di Fuori Orario, verrà trasmesso Bright Future di Kiyoshi Kurosawa. Se non vado errato, è il primo film del bravissimo regista giapponese ad esser visto in italia, festival esclusi. Malgrado l’ora tarda, è un’ocassione più unica che rara per avvicinarsi al suo cinema meditativo e affascinante.



Il mio post su Bright future è qui.

Last life in the universe (Ruang rak noi nid mahasan)
di Pen-Ek Ratanaruang, 2003



E’ importante premettere che il film di Ratanaruang è innegabilmente bello. Un protagonista con lo charme di Tadanabu Asano, una bellezza come Sinitta Boonyasak, la splendida fotografia del maestro Christopher Doyle, una storia che con pacato e maturo senso del dramma intenerisce, sconforta e infine commuove. In più, un bel ritmo dilatato che permette di avvicinarsi ai due personaggi con una quiete sommessa talvolta travolta da visioni (la scena del frutto e dell’incidente, quella – meravigliosa – dei libri volanti), una sottile ironia che pervade tutto il film, e un gran finale tronco.



Eppure, forse per idiosincrasia nei confronti della lingua thai (e del doppiaggio) aggiunta alla confusione dovuta alla mescolanza con il giapponese, forse per la solita scomodità fisica (modo di stare seduti, cose così) che attanaglia certe mie visioni unita alla qualità medio-bassa del "formato", o forse perché non capisco cosa ci trovino di così spassoso i fan nelle citazioni miikiane, perché il nipponismo del film è evidentissimo ma funziona molto meglio in altri momenti rispetto alle situazioni yakuza eiga semiparodistiche.



Eppure, dicevo, per una o per tutte queste ragioni, forse indipendenti dal film, ho fatto davvero una gran fatica a vederlo tutto di un fiato. Però alla fine ce l’ho fatta, e riguardando alcune foto di scena e captures (cercando la locandina, capita sempre) mi rendo conto che forse ho sbagliato io, e che quindi, presto o tardi, gli darò una seconda chance. Per, finalmente, conquistarmi.

100 days with Mr. Arrogant (Naesarang ssagaji)
di Shin Dong-yeob, 2004



My sassy girl era un gran bel film, e un enorme successo: non è una buona ragione per creare ancora "deviazioni" ad anni di distanza. Ma pare proprio che la falsariga sia un procedimento molto comune in Corea. E dove non lo è, d’altronde? Però un personaggio che dice "vuoi morire?" (‘ch’bullé?) ogni 5 minuti, l’arrogant del titolo, una specie di versione maschile di Jun Ji-hyun, è davvero irritante. Come se non bastasse, pare che i debiti si contino anche altrove.



Ma finché 100 days si tiene sul registro della commediola stupida e schifosetta da preadolescenti (cacca e caccole), in fondo qualche risata la strappa (io moltissime, ma è una questione di perversioni), e la storia è interessante (una versione comica di Bad guy?) anche se con un ritmo improponibile. Il problema vero è quando arriva il teen-romanticismo puro, cioè alla fine dei 100 giorni. Perché il film senza gag stupidotti non sta più in piedi, e diventa persino fastidioso. Finale circolare compreso.



Inutile dire che gli attori non sono all’altezza, e Shin si rivela all’esordio regista di scarso interesse. Cosa strana, questo film non se lo vuole remakare nessuno.

Breaking news (Dai si gein)
di Johnnie To, 2004



Ciascuno dei più recenti film di Johnnie To ha i suoi detrattori, e ciascuno di loro ha le sue ragioni: freddezza per PTU, indecisione per Running on karma, inconsistenza per Throw down, assoluta vacuità per Yesterday once more. Al di là del fatto che io non riesca ad essere detrattore di alcuno dei precedenti (a parte l’ultimo, ovviamente), facendo pure la figura di quello che si mangia tutto quel che To mette in tavola (e fieramente!), Breaking news è forse tra i più bistrattati. Eppure è un film nevralgico e appassionante, intelligente e originale, e girato come dio comanda.



Il problema nasce proprio dal quell’incipit diventato ormai famoso: un appostamento che diventa sparatoria, in sette minuti (circa) senza stacchi, uno dei piani-sequenza più incredibili visti sullo schermo negli ultimi anni, che oltre ad essere di complessità quasi impensabile, ribalta con la sua forma traballante il recente statuto di piano-sequenza digitale, e allo stesso tempo le convenzioni (soprattutto ritmiche) del genere action, per di più scegliendosi un set difficile e "chiuso", una strada a senso unico. E’ normale che poi il film viva all’ombra di una scelta così radicale.



Ma lungi dall’essere meramente estetica: tutto il film è poi incentrato su questa ricerca sull’immediatezza e la "contemporalità" dell’azione, che si riflette sul tema principale, quello dell’invadenza dei media, e soprattutto della manipolazione della verità. Vedere per credere non ha più senso, e così l’assedio, da normale "canone noir" di lunga tradizione (non solo hongkonghese), diventa una guerra che si combatte su due livelli: quello delle armi, la vita e la morte (per cui si parteggia con i PTU) e quello dell’immagine, la verità e la menzogna (per cui non si può non simpatizzare con i "cattivi").



Breaking news è ricco, robusto e corale, con spazio per la morale e la dignità, e con un bellissimo triangolo di morte nel finale, è un film che può deludere solo alcuni fan molto accaniti di To, perché forse sembrano perdersi per strada quei preziosi e mai troppo citati "tempi marginali" (ma la sequenza del doppio pranzo è però in queste corde): però l’attenzione non è affatto abdicata al semplice e vacuo divertimento, semplicemente è spostata altrove.



Nelle sale italiane dal 5 Agosto 2005.



Sì, avete letto bene Breaking news esce in Italia. Ed è il primo film di Johnnie To, dopo il DVD di The Mission, ad uscire in sala in Italia. Ovviamente in una data ridicola, ma è già qualcosa.

My summer of love
di Pawel Pawlikovsky, 2004



E’ davvero un dispiacere vedere un regista che butta via un buon soggetto con una sceneggiatura atroce che nasconde l’imbarazzo sotto l’improvvisazione, l’incertezza sotto la "pausa artistica". Altrettanto uno che rovina un progetto fotografico interessante, basato sul contrasto tra la città "sotto" – postindustriale, cupa, abbandonata, polverosa – e la natura "sopra" – lucente e sensuale, in cui la superiorità "nietzschiana" è riuscire a trovarla, a vederla, a goderne – con una regia inetta capace solo di fare continui zoommettini, forse anche qui per nascondere qualcosa. Una certa indecisione? O incapacità?.



Peccato davvero, perché stavolta non è solamente un brutto film, ma è davvero un’occasione sprecata. Sprecate le due attrici di travolgente ma inconscia bravura (soprattutto Emily Blunt, bellezza feroce – quasi una sosia di Keira Knightley) e sprecata la delicatezza onesta spalmata sulla pellicola, volendone fare, in buona fede ma solo in teoria, un’inno alla libertà e un urletto di rivolta contro gli integralismi e il soffocamento sociale. Tutto molto british quindi, e per questo è sprecato il ritratto cinico e violento di Paddy Considine dell’englishman impazzito dalla perdita del baricentro e dedito a un culto improvviso e parossistico.



E come se non bastasse è doppiato da schifo come pochi film recenti (manomissioni cartoon a parte), e per tutto il film non vedi l’ora di uscire a fumarti una sigaretta (o a chiacchierare, se non fumi), perché ti stai proprio irritando. Oh, gosh.



Nelle sale italiane dal 17 giugno 2005.



Ma il 17 giugno esce anche La Samaritana di Kim Ki-duk, che è un capolavoro. Il post linkato è stato scritto molti Kim Ki-duk fa, ma confermo: il suo secondo più bello dopo Bad guy, un gradino sopra Ferro 3. Quindi se andate a vedere My summer of love vuol dire che proprio ve la cercate. E comunque se cercate ragazze seminude e brividi saffici, ehi!, ci sono anche nella Samaritana. Sì sì.

La promessa (The pledge)
di Sean Penn, 2001



Dal libro di Friedrich Dürrenmatt, Penn trae un film bello e straziante, compresso tra la tipicità geografica delle nevi del Nevada e il "paesaggio della mente" di un poliziotto in pensione che "ha fatto una promessa e intende mantenerla", un uomo vincolato ad un legame sacro e religioso che si trasforma in disperazione e follia.



Un film disperato ed implacabile, con un’attenzione per i personaggi e un respiro inusuale che ricordano la New Hollywood e che hanno comunque pochi simili nel cinema americano recente: Penn mostra ancora un grande talento, sempre sul posto anche quando si "scade" (in senso buono, vista la robustezza del plot) nel semplice meccanismo giallo o thrilling, sia quando si permette uno sguardo visionario sul mondo (l’inizio/fine, la fabbrica di tacchini), oppure cinico e impietoso sulla provincia americana.



Impressionante il cast fatto di straordinari frammenti recitativi (Del Toro, Rourke, Redgrave), ma Nicholson sovrasta tutti, "da sotto" e in sottrazione, reggendo e dando anima a tutto il film. Consigliata quindi la visione in lingua originale per sfuggire al solito irritante digrignare di Giannini.

The taste of tea (Cha no aji)

di Katsuhito Ishii, 2004

Una bambina tormentata da un "sè gigante", il fratello innamorato timido e sognatore, una madre animatrice come il nonno sempre "accordato", uno zio mixerista malinconico, un padre ipnotizzatore taumaturgo. E poi, uno yakuza con un talento sprecato per il baseball, un solitario e fluido ballerino sulle rive di un fiume, una disegnatrice adultera e vendicativa, Anna Tsuchiya e Tadanobu Asano, e molto altro.

Descritto così sembra un anime tenero e folle, o uno come tanti altri. E invece Ishii, che di anime ne sa qualcosa, confeziona un lento e avvolgente elogio dell’infanzia, raccontando con sapiente leggerezza le vicende di una famiglia cresciuta e istruita nella fantasia (la creazione del cartoon come marchio di famiglia, l’uso terapeutico e allucinatorio dell’ipnosi), la loro conseguente impossibilità di crescere (e di morire?), e i loro fantasmi digitali, geniali e mai troppo minacciosi.

Un po’ troppo programmaticamente diluito, ma sono due ore e mezza a cui ci si abbandona volentieri: The taste of tea è un bellissimo film, commovente, dolcissimo e divertente. In una parola, magico.

Presentato alla Quinzaine de Realisateurs di Cannes 2004, nell’ultimo anno il film ha raccolto premi un po’ ovunque. E ovviamente, non è prevista alcuna uscita italiana.

[che lo sforzo sia con voi]

Lo sforzo di andare a votare. Qualsiasi cosa vogliate votare.

Forbidden city cop (Daai laap mat taam 008)

di Stephen Chow e Vincent Kok, 1996

Stephen Chow fa per la seconda volta la parodia di James Bond (stesse silhouette nei titoli – con Chow che lecca la tipica bond-ballerina – stesso tema musicale, il protagonista che si chiama Ling Ling Fat, ovvero 008). Ma questa volta invece dell’action ci mette di mezzo il wuxiapian, e i risultati sono persino migliori, e comunque più complessi, rispetto al precedente From Beijing with love.

E l’idea è ancor più corrosiva se si pensa al contrasto tra personaggio e contesto, sia storico che cinematografico: in opposizione ad un cinema che tende ad elogiare la tradizione (i mitici lottatori volanti e il rigore religioso delle arti del combattimento) contro la modernità, qui i combattenti fanno subito una brutta fine mentre la spunta Ling Ling Fat, imbranato nelle arti marziali ma intelligente e strambo inventore di aggeggi, in una rivincita dell’apollineo che è molto più destruens della semplice parodia.

Ovviamente, oltre a una forma smagliante (grazie anche alle buone coreografie), in primo piano c’è la comicità geniale e demeziale del comico Chow. E non solo, anche una struttura originalissima che parte come un wuxia, che dopo un’ora si finge commedia romantica, per poi tornare daccapo. Dopo aver preso letteralmente per i fondelli lo spettatore.

E in mezzo, un film divertente fino al mal di pancia, pieno di colpi da maestro comico: l’entrata in scena rotolante, il combattimento in cui Ling Ling Fat sconfigge un nemico grazie ad un enorme magnete, il cappellone nero, la scena in cui Chow non riesce a smettere di ridere per giorni (cosa che funziona di rado, qui fa ridere fino alle lacrime), fino al culmine geniale: la spiegazione dell’inghippo costruito ai danni della prostituta Gum Tso (Carmen Lee, meravigliosamente bella), tra surreali dissertazioni metafilmiche e la consegna (sic) di un award per il suddetto inghippo.

Ancora grezzo per alcuni versi, non irresistibile dal primo minuto, e con meccanismi ancora da rodare. Ma i difetti si contano in fretta: già strapieno di quelli che saranno le sue ossessioni future (la schermaglia amorosa - qui molto meno cinica che in futuro -, o la "evoluzione" finale dell’eroe da forze altre – qui l’elettricità), Forbidden city cop è un ottimo assaggio del vero genio di Chow.