giugno 2005

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Toy story 2

di John Lasseter, 1999

Recuperata una falla mostruosa e imperdonabile, dopo anni e anni di rimandi (in)giustificati dalla solita pigrizia e da una certa sfiducia: ma perché, poi?.

Sono estasiato. Un briciolo sotto il precedente capolavoro di Lasseter A Bug’s Life, ma comunque a livelli eccellenti, sia per quanto riguarda l’impareggiabile tecnica, sia per lo sviluppo dei personaggi, portati ben oltre il (già buon, ma minore) Toy Story. Ma non c’è che dire, su questo la Pixar è una garanzia.

La sequenza del "riparatore" (il vecchietto di Geri’s Game) è puro genio, e quella virtuosistica del check-in anticipa quella (più elaborata, ma simile) delle porte in Monster’s, Inc. Per non parlare del reparto delle Barbie.

Irresistibile.

[1919-1928]

Sin city

di Robert Rodriguez e Frank Miller, 2004

"The valkyrie at my side is shouting and laughing with the pure, hateful, bloodthirsty joy of the slaughter… and so am I."

Sin city è esattamente, niente di meno e niente di più, quello che ci si aspettava dopo aver visto (e rivisto, e rivisto) il teaser, mesi fa: non un adattamento cinematografico, ma traduzione filmica di uno dei più straordinari graphic novel mai scritti. Prese tre storie (più alcune parti) degli omonimi fumetti di Frank Miller (chiamato saggiamente e prudentemente alla co-regia), Rodriguez le riproduce con fedeltà filologica unica e straordinaria, che rende il film un "progetto" a sè stante e nuovissimo, nel suo genere.

Rodriguez ha compiuto un mezzo miracolo e ha dimostrato un discreto coraggio. Il miracolo è quello di essere riuscito, pur nella priorità evidente data alla cura nella riproduzione, a "profondizzare" la tecnologia, a dare una nuova dimensione a materiale bidimensionale, a far respirare luoghi e personaggi evitando il rischio di una fredda, anche se amorevole, riproduzione. I personaggi sono perfetti e altrettanto perfettamente "rifatti", ma non sono sterili: il film riesce a "vivere", e non solo a sopravvivere, grazie anche a ottime scelte di casting (enorme Rourke). Una vera manna per i fan.

Il coraggio di Rodriguez è stato invece quello di tenersi le sue libertà, produttive e linguistiche: le prime per la rinomata cocciutaggine di uno degli auteurs più assoluti del cinema americano contemporaneo (a prescindere da risultati altalenanti) per il modo in cui configura intorno a sè (a "casa sua") tutti gli aspetti della produzione (dal pre al post) dei suoi film. Le seconde per la scelta di mantenere la voce fuori campo continua e ridondante (che può irritare un cinefilo, non un purista) e di adottare un ritmo personalissimo, non sempre esplosivo ma spesso caldo e avvolgente, che rischia di annoiare un pubblico "standard" ma che meglio si addice alle storie che racconta.

L’unico demerito, e non propriamente irrilevante, del film, è quello già citato in apertura, non andare oltre le aspettative: è sì un bellissimo film, e probabilmente un’opera per alcuni versi rivoluzionaria, ma è talmente legato ai linguaggi di provenienza (con un po’ di paura di volarsene via) che stenta ad emozionare, e tantomeno a "straziare le budella" come chi vi scrive si aspettava.

Sin city è inoltre stato realizzato in un’ottica di nicchia, per iniziati: un film ad hoc "per gli appassionati". Ma creato da un appassionato stesso, il che giova non poco all’impressionante risultato finale. Tanto meglio, un po’ di gente riscoprirà le tavole di Miller: ma non mi sorprende che altri possano rimanere interdetti, o annoiati, o disgustati.

Robert Rodriguez ha in ogni caso compiuto un percorso unico (e si spera ascendente) nell’utilizzo estetico e narrativo della tecnologia digitale, e con Sin city ha realizzato il suo miglior film.

"Worth dying for.

Worth
killing for.

Worth going to hell for.

Amen."

Gerry

di Gus Van Sant, 2002

"Fuck the thing!"

Film con cui Gus Van Sant ruppe (definitivamente?) con il suo cinema precedente e con quello mainstream, a partire (per stessa dichiarazione dell’autore e con un sentito rigraziamento nei titoli di coda) dall’incontro con il cinema di Béla Tarr, Gerry è, tra gli ultimi tre titoli del regista americano, quello che forse più si avvicina, per ricerca stilistica e immersione metafisica, al cinema del regista ungherese: tra piani splendidi e spietati che durano interminabili minuti, c’è persino l’infinito carrello laterale su due primi piani, come in Werkmeinster Harmoniak.

Aperto e chiuso da uno schermo blu elettrico che ricorda l’indicibile cecità di Jarman, Gerry è un film antispettacolare e antinarrativo, profondamente beckettiano, che stralcia tutte le regole spaziotemporali del cinema americano diluendosi insieme ai personaggi con una fluidità tragica e in qualche modo crudele. Orgogliosamente invendibile eppure emozionantissimo, se si ha la pazienza e il coraggio di farsi rapire e portar via.

Disamina sulla perdita degli epicentri culturali o sullo smarrimento dell’identità, il film mantiene una buona dose di mistero sui temi che lo muovono, ma traspare un’inquietudine cosmica che va oltre le poche parole pronunciate. E resta, in ogni caso, o se preferite, una gioia per gli occhi che ha pochi eguali nel recente cinema statunitense.

Una perla, purtroppo invisibile dalle nostre parti.

Ne parlarono anche:

CinemaDeserto, Gokachu, e ilfidanzatodivivi (su grazie, davvero).

Per gli anglofoni, è rintracciabile su internet a pochi euro.

The eagle shooting heroes (Sediu yinghung tsun tsi dung sing sai tsau)

di Jeff Lau, 1993

Ve lo immaginate un film con Jackie Cheung, Leslie Cheung, Maggie Cheung, Carina Lau, Tony Leung (anzi, due: Chiu-wai e Ka-fai) e Brigitte Lin? Certo che ve lo immaginate, è Ashes of time. Ma non solo.

The eagle shooting heroes è infatti letteralmente l’altra faccia di Ashes of time: laddove Wong Kar-wai compie un’opera serissima, quasi riassuntiva e implosiva sui canoni del genere, il geniale Jeff Lau di A chinese odyssey fa esplodere quegli stessi linguaggi dall’interno. Con lo stesso cast, lo stesso romanzo di partenza, e lo stesso set. E Wong come produttore.

Operazione quasi teorica e comunque unica, in cui però la teoria passa in secondo piano rispetto al divertimento, davvero incredibile: cortigiane ricattate con millepiedi ammaestrati, la testa senza corpo di un effeminato Tony Leung e l’altro Tony Leung che fa la mossa della rana (sì, proprio la stessa di Kung Fusion), Jackie Cheung con smanie suicide, stivali alati e mostri pavidi e dispettosi, Brigitte Lin con le mani scariche e Maggie Cheung a 29 anni.

Un film strabordante.

Quo vadis, baby?

di Gabriele Salvatores, 2005

Forse per leggere Quo Vadis, Baby? bisognerebbe partire dalla fine. Perché è da quel finale fisso, geniale e implacabile, che si capisce l’uso che Salvatores fa del noir, e del mystery: in poche parole, non c’è niente da capire e niente da scoprire, nessuna sorpresa, nessuna "verità nascosta", no lies beneath. La vita è tutta lì: semmai c’è ancora da capire il perché, e il percome.

Ecco, mentre la regia si concentra sul come, la protagonista, per deformazione professionale, ricerca il cosa. Una lotta tra sogetto e oggetto senza vincitori, perché la verità è un dono che è dato solo a noi spettatori. Noi che amiamo il cinema e siamo disposti (a differenza della protagonista) ad aspettare la fine di un film per leggerla, la verità.

La questione della prevedibilità quasi imbarazzante del plot, forse, e dico forse, è tutta qui: come è ovvio che la realtà sia quella che è senza abbellimenti, che il dolore vada affrontato e poi lasciato alle spalle come nella vita vera, così è ovvio che A sia Andrea sin dal primo momento in cui appare sullo schermo, o almeno da quella sua entrata in scena troppo, troppo trasparente. Calcolando anche che è la sua uscita è il titolo del film: una leggerezza inspiegabile in altro modo. Stesso discorso per il padre, comunque.

Quo vadis, baby? non si può dire comunque del tutto soddisfacente, almeno in senso relativo, visto il precedente splendido lavoro del regista milanese. Non che non abbia tutte le carte in regola: è diretto anche bene, e fotografato (dal solito Italo Petriccione) in un bel digitale che ha il rarissimo merito di non mostrarsi tale. Ma non lascia niente, e per buona parte non sa di molto. La sua psicologia è un po’ risaputa, da letteratura di serie B (ma senza il coraggio di essere davvero genere) e a differenza della protagonista Angela Baraldi, bravissima, Claudia Zanella è insopportabile ogni volta che apre bocca. E purtroppo la apre spessissimo, nonostante sia un cadavere su uno schermo.

Però Salvatores sa almeno cogliere i tratti dei suoi personaggi con uno sguardo, per una volta, non solo affettivo, e riesce a scavare abbastanza a fondo. Non è poco. Consideriamolo piuttosto un film di passaggio, piacevole e abbastanza insinuante, e almeno privo delle insopportabili cazzate di Amnesia. Facciamo che sia, nonostante le (compiute) ambizioni sperimentali, un medio film di transizione.

[BiograFilmFestival 2005]

Guida galattica per autostoppisti (The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy)

di Garth Jennings, 2005

L’omonimo libro di Douglas Adams è uno degli oggetti più interessanti e bizzarri della letteratura popolare contemporanea: innamorato (ma irrispettosamente) dei linguaggi della science-ficion, infarcito di controcultura satirica con più di un’attacco pythoniano alle istituzioni burocratiche inglesi, ricchissimo e irresistibile. Ma nonostante Adams avesse scritto una sceneggiatura per lo schermo prima di morire (e nonostante il libro fosse nato come serie Tv), non si era ancora riusciti ad approdare sullo schermo.

E non si capisce perché, visti i risultati: Jennings (responsabile di uno dei videclip più geniali degli ultimi anni), rappresentando un mondo molto simile a quello immaginato da Adams senza dover modificare granché del libro, realizza un’opera davvero divertentissima. Forse non all’altezza del libro, ma cosa importa: ci si immerge nella vicenda con appagante leggerezza e senza un attimo di respiro, con tocchi visionari degni del miglior Gilliam (quasi un tacito nume tutelare, visto anche l’umorismo british), ed una rappresentazione insperabilmente perfetta della guida stessa: gli inserimenti delle "voci" dell’enciclopedia galattica non sono mai forzati, e la sua visualizzazione grafica, degna di Bozzetto, è perfetta. E il testone di Marv, robot depresso, è bellissimo.

La cosa migliore per me, che ho letto anni fa buona parte della saga (quattro libri di cui questo film "è" solo il primo) e che dopo una strana rimozione non rammentavo granché dei singoli eventi, è stata riavere in mente quasi tutti i passaggi, e goderne in modo viscerale. E comunque sempre con le lacrime agli occhi dalle risate. Ma sono sicuro che anche i non-iniziati si divertiranno da morire.

Da applausi a scena aperta la scena del capodoglio.

Nelle sale italiane dal 16 settembre 2005.

Irma Vep

di Olivier Assayas, 1996

"Porqui Chinoise??"

In attesa di vedere Clean, l’ultimo film del regista francese in questi giorni nelle sale italiane, ho recuperato questo curioso esperimento di metacinema spiccatamente truffautiano, in cui un regista alter-ego di Assayas (interpretato - una mania - da Jean-Pierre Léaud) si trova a dirigere un assurdo remake dei Vampires di Feuillade con protagonista un’attrice cinese. E non una a caso.

Irma Vep è una riflessione a tutto campo sul presente e sul futuro prossimo del cinema (d’autore? europeo?): e se il futuro è visto con acido pessimismo nella figura del sostituto (luciferino) Lou Castel, il presente è il ritratto dell’indecisione sulla strada da percorrere: il recupero orgoglioso degli archetipi narrativi del muto e il remake come forma maligna di morte-del-cinema, l’allargamento dei confini ai nuovi linguaggi e le mode passeggere – l’oriente e John Woo - come reazione critica alla esplicitata "ombelicalità" del cinema francese.

Ma lo sguardo cinico di Assayas non funziona solo come malinconico ripensamento cinefilo ed autocritico (il personaggio del regista è un mezzo matto incompreso e finisce in clinica), ma anche quando si concentra sui personaggi, quando ci gira attorno con lo sguardo in spalla e senza stacchi, quando li fa parlare (e sovraparlare) e improvvisare, in un’atmosfera sospesa tra commedia e dramma, in cui le risate sono per noi e il dramma è, forse, quello di una cultura senza più sbocchi. Morire sì, ma con un ghignante sorriso sulla faccia.

Bene bene, ho cercato di scrivere di Irma Vep senza nominare Maggie Cheung. Ora lo posso fare? Maggie Cheung, Maggie Cheung, Maggie Cheung. Sperduta e bellissima, confusa e affascinante. Ma sempre, semplicemente, divina.

[remainder]

Esce oggi nelle sale italiane Steamboy di Katsuhiro Otomo (regista di Akira), il film di chiusura di Venezia 2004.

E’ bellissimo, davvero bellissimo. Andate a vederlo, assolutamente.

[…anche se pare (via Gokachu) che la versione italiana sia 22 minuti (!) più corta di quella originale…]

Ah, ecco il mio post. E buona visione.

Star Wars – Episodio 3 – La vendetta dei Sith (Star Wars: Episode III – Revenge of the Sith)

di George Lucas, 2005

Un disclaimer, come si suol dire, subito: il terzo episodio della saga non è all’altezza dei "successivi", non ne possiede la lucidità e lo spessore mitopoietico, o anche il semplice divertimento (o la scaltrezza). Inoltre, cosa ancor peggiore, diluisce dove dovrebbe stringere e taglia corto dove dovrebbe sottolineareTuttavia, non è proprio tutto da buttare. Anzi.

Il film dura due ore e venti, circa? La prima ora e un quarto circa è, minuto più minuto meno e con rare eccezioni (come l’inquadratura iniziale, idea di piano-sequenza nell’era digitale), da buttare. Un giocattolone rumoroso e noiosissimo, con il peggior cattivo che si potesse creare (il malaticcio generale Grievous, ovviamente), dialoghi risibili e imbarazzanti, interni televisivi ed esterni da videogame di bassa lega. Il tutto condito da un’impatto grafico che toglie il fiato, è chiaro: ma se è tutto lì, il roboare diventa davvero fastidioso.

Poi Anakin guarda fuori dal suo appartamento, e con lui Padme, in quella che forse è l’unica scena di stasi del film. Dagli occhi di lui esce una lacrima, da questo momento il film si innalza e resta altissimo quasi fino alla fine (perché nel finale ci ricasca, in un paio di porcherie), e diventa il ritratto cupissimo e disperato di una discesa nel male. Sequenze come lo sterminio dei Jedi (la migliore del film) o la fine dello scontro tra Obi-Wan e Anakin ("eri mio fratello!") sono assolutamente all’altezza della saga "classica", fanno dimenticare la solita recente (ed ancora esistente) bidimensionalità lucassiana, e sanno, finalmente, commuovere.

Dispiace dividere un film a metà, sembra una decisione arbitraria e semplicistica, ma io l’ho visto così: quasi due film separati. E forse questo non è un parere distaccato e analitico, perché qui conta anche l’emozione: e non c’è nulla da fare, l’emozione c’è stata, e a fiotti. Ma non essendo un fan posso ammettere che, suvvia, si poteva fare molto meglio.

Insomma, Episodio 3 è un mezzo-gran-film, se si ha la pazienza di sopportare l’altra metà.