agosto 2005

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[tra poche ore]







(clicca l’immagine)

Kiki – Consegne a domicilio (Kiki’s delivery service) (Majo no takkyûbin)
di Hayao Miyazaki, 1989



Dunque, come tutti sanno e come si è già avuta l’occasione di dire da queste parti, l’orientofilia di Marco Muller ha dato un gustoso frutto: e così il prossimo venerdì 9 settembre a Venezia uno dei più grandi registi viventi (in senso assoluto, che diavolo) riceverà il Leone d’oro per la sua carriera, costellata di tantissimi capolavori. Era tempo per me di vedere Kiki, uno dei suoi primi lungometraggi, e uno dei più visti, perché curiosamente distribuito worldwide dalla Disney, ma anche uno dei meno amati dai seguagi di Miyazaki.



Ma solo in senso relativo: la storia della piccola maga che va via di casa per svolgere il suo tirocinio di un anno, e impara il valore del lavoro, del sacrificio e dell’amicizia, metafora dell’adolescenza e del passaggio all’età adulta sullo sfondo del contrasto tra l’intimità della provincia e il caos della grande città, è appassionante e universale, non teme il confronto con i modelli, e regala molte emozioni, e almeno una sequenza da brividi e lacrime: quella finale in cui Kiki recupera i poteri e salva il suo amichetto dalla morte.



L’edizione dvd italiana è ottima, con centinaia di splendidi storyboard, ma per quanto il doppiaggio sia ben fatto aggiunge frasi "simpatiche" e da "grillo parlante" in bocca a Jiji, l’adorabile gatto parlante di Kiki, e copre alcuni dei tipici silenzi del maestro con un audio spesso posticcio. Meglio in giapponese, come al solito.



Il post, che si apre con una buona novella, si chiude purtroppo con una pessima, una scoperta fatta per caso ricercando il titolo originale su imdb. In poche parole, anche Miyazaki è stato colpito dalla febbre del nipporemake, e presto (nel 2006) ci toccherà sopportare il rifacimento statunitense e "live action" di questo film. Che dio ce la mandi buona.

[il Papa ha incontrato la Fallaci]



Ma chi se ne frega.

[amore a seconda vista]







E una niagara di lacrime.

[north by northwest]



Il mio blog ha, per la prima volta nella sua lunga storia, un logo. Nato da una lunga chat su un celebre Instant Messenger, da un eterno capolavoro della settima arte trasmesso in tv, e da una pulsante esigenza grafica.



La bellissima creatura che sovrasta i post è opera dell’operoso e garbato Darkripper, il blogger tenutario del coloratissimo (pur se nerosubianco) mondo di Sestaluna. Sono graditi (anche al suddetto, suppongo) complimenti, critiche, osservazioni e insulti.



Approfitto dell’insolito post per avvertire i lettori che anche quest’anno sarò alla Mostra del Cinema di Venezia, campeggiando e approfittando per quanto possibile della mia ancor giovin età. Non vi assicuro aggiornamenti dal rumoroso e caotico baraccone del Lido, ma farò il possibile per darvi un segno di vita.



E corre voce che ci sia in ballo un blog-progettino collettivo, di sicuro gustoso: vi terrò aggiornati. Buon maledetto ritorno nelle città anche a voi.

Madagascar

di Eric Darnell e Eric McGrath, 2005

Va bene che le anteprime estive sono per definizione delle fregature, ma a Madagascar qualche pensiero di speranza l’avevamo dedicato. E invece no. E non è più una questione relativa di confronto tra Pixar e Dreamworks (tanto che poi quest’ultima tra un po’ mi sa che chiude, ed è come sparare sulla croce rossa). La questione è drammaticamente assoluta: Madagascar è un disastro.

Perché dopo Gli Incredibili e, se vogliamo proprio guardare da ambo i lati della disputa Shrek 2, per citarne due, non si può concepire che un film di animazione realizzato con una tale perizia tecnica (perché graficamente, solo in potenza, è favoloso) sia così noioso. E lo è, tremendamente per tutta la prima parte e sufficientemente nella seconda.

Sì, ok, ci sono i pinguini, che sono carini, divertenti e acidi. Ma perché relegarli stupidamente a personaggi di secondo piano per dar spazio a quattro animali inetti che ricalcano manie e ossessioni ombelicali di nessun interesse, giuste proprio per cose come "l’orgoglio newyorchese", "l’amicizia virile" e simili amenità?

Almeno rispetto a Shark Tale (spiace dirlo, questo è persino peggio) la Dreamworks ha scelto un target, che è però quello dei bambini e dei decerebrati. Speravamo che sapessero far di più che strapparci un sorrisetto con un mini-lemure ricalcato sul ben più geniale gatto con gli stivali di Shrek 2. Nel naufragio si salvano, oltre ai suddetti pinguini ("coccolosi, soldati, coccolosi!"), le scene dei trip felini e il cocktail d’acqua salata, e poco altro. Poco, troppo poco altro.

Il doppiaggio italiano non è nemmeno male, soprattutto Ale e Franz, insospettabilmente bravi. Ma l’adattamento ci riserva le solite perle, al di là della canzone dei lemuri ("I like the way you move it") che tradotta si rivela oscena, c’è persino una citazione da Zelig. Oh, flài. Almeno al cinema, possiamo smettere di guardare la tv? L’arte e il (buon) lavoro di centinaia di animatori trasformato in una puntata di Studio Aperto.

[i film che non ti stanchi mai di rivedere]

Il post, qui

Gothika

di Mathieu Kassovitz (e Thom Oliphant), 2003

Se il regista dell’epocale (nel bene e nel male) La Haine doveva andare negli States a fare il regista con un film simile, tanto valeva stare in Francia a fare I fiumi di porpora. Che non era uno splendore, ma sempre meglio di questo scempio.

L’idea che Kassovitz ha del "modo americano" è uno stupro continuo ai danni degli antecedenti, un utilizzo kitsch quanto inutile del digitale, una regia che non sa distinguere tra virtuosismo e masturbazione, una storia senza capo né coda (né interesse, né spaventi). Il tutto ambientato in un paese in cui nessuno, ma proprio nessuno, fa bene il suo lavoro per un minuto che sia uno, dalla guardia del manicomio allo sceriffo agli psichiatri.

Ma davvero in America la giustizia funziona con indulgenze plenarie invece che con giusti processi? Non per svelare il finale (è ben poca cosa) ma che diavolo ci fanno la Halle Berry e Penelope Cruz (entrambe deludenti) tutte sorridenti in giro per la strada "un anno dopo", se sono pur sempre due assassine?

"La logica è sopravvalutata", dice la Berry nel tipico slancio violento del finale, ma questa non può essere una dichiarazione d’intenti, né la base teorica di un progetto. Tantomeno una giustificazione.

Dragon inn o Dragon gate inn (Long men ke zhen)

di King Hu, 1966

Uno dei film più noti di uno dei più celebrati registi della vecchia scuola di Hong Kong è un insolito wuxiapian dal respiro western, la storia di una sosta e di un assedio, una vicenda di onore e vendetta in cui si inserisce la figura misteriosa e sorridente al tempo stesso del protagonista, mercenario pronto a scoprirsi al servizio di un’idealismo storico, contro i soprusi e la coercizione violenta.

Aperto da un incipit didascalico e chiuso da un interminabile duello (impari, ma il fine giustifica i mezzi) contro un terribile biondissimo villain, il film è un susseguirsi di combattimenti (splendido quello che per primo vede protagonista la ragazza) ed attese, voli impensabili e arguzie dialettiche, il tutto al servizio di uno spettacolo che va al di là del pallido divertimento (rappresentando anche uno struggimento etico e sacrificale), ma, diamine!, appassiona e non fa sentire affatto la sua età.

Più d’una, forse sintomatiche (ma chissà), le sensazioni di un’ispirazione leoniana.

Il proprietario della locanda si chiama Wu Ming, e hai detto niente.

Il film, oltre ad essere stato remakato nel 1992 niente meno che da Tsui Hark e Ching Siu-Tung, è il "protagonista" del penultimo film di Tsai Ming-Liang, "Goodbye, Dragon Inn", ambientato in un cinema dove si proietta il film stesso. Il v.u.b. non l’ha ancora visto, ma lo farà al più presto.

Love on delivery o King of destruction (Po huai zhi wang)

di Lee Lik-chi (e Stephen Chow), 1994

Questo film, con Stephen Chow protagonista insieme alla sua solita "corte dei miracoli", pur essendo per molti versi minore e non avendo la verve dei lavori migliori e successivi di Chow, condivide però con quelli la poetica di fondo e la struttura narrativa, già chiara, quella della rivincita dei reietti attraverso l’apprendimento delle arti marziali (per essere molto, molto sintetici).

Sì, perché al di là della semplicità della trama e di certe ingenuità, quello che conta è che Chow è sullo schermo, ed è, con il suo solito e incredibile egocentrismo, irresistibile: appare come Terminator per poi rivelarsi un povero cameriere troppo buono e ingenuo, è bistrattato da tutti fino a limiti quasi fantozziani. Almeno fino alla rivalsa finale.

Non si ride quanto in God of cookery o From Beijing with love, ma si ride comunque parecchio. E come al solito, sotto sotto c’è del genio, basta cercarlo: come nella scena in cui Christy Cheung viene inseguita da un’orda di uomini infoiati con la maschera di Garfield (sic!), e soprattutto l’incontro sul ring (oltre alla sua assurda "preparazione"), la cui tattica vincente è voltare le spalle all’avversario mentre lo sparring partner lo distrae lanciando oggetti in aria.

Da sbellicarsi l’apparizione divina di Jackie Cheung nel ruolo di se stesso (un po’ come Jackie Chan in King of comedy). La Cheung non raggiunge nei nostri cuori altre muse di Chow (come l’omonima Cecilia, o Vicky Zhao), ma è davvero molto carina. 

La terra dei morti viventi (Land of the dead)
di George A. Romero, 2005



Un arretrato: ho visto il film quasi un mese fa, è dura essere lucidi. Ma qualche riga è doverosa.



Era difficile per Romero riprendere in mano i suoi zombie dopo la celebre trilogia: uno dei film più decisivi degli anni ’60, il capolavoro assoluto del genere, e un terzo capitolo ancora più estremo e spaventoso. Ancora più difficile, dopo le riletture minori ma interessanti di Snyder, Boyle e Anderson (solo per citare le filiazioni più dirette). Quasi impossibile dopo il declino l’ascesa e conseguente cannibalizzazione dell’horror nipponico.



Eppure, Romero ce l’ha fatta: ha ridato vita a un genere, l’horror americano, ormai morto e sepolto (per molti a causa delle goliardate teoriche di Wes Craven, per qualcuno a causa di una realtà che supera in orrore la fantasia in pellicola), e l’ha fatto con situazioni e facce da serie B che sono come aria fresca: soltanto Romero e forse Carpenter avrebbero potuto concepire un film simile (che, non per niente, è spesso molto "carpenteriano"). Ma l’ha fatto soprattutto con un arma che, visto il pessimo trailer, sembrava perduta: la coerenza.



Così, al di là degli spaventi (che ci sono, in buona quantità), il film ha un grande valore per il modo in cui si inserisce con miracolosa arguzia all’interno dei percorsi dell’autore, che non smette di voler parlare degli Stati Uniti, della decadenza del sogno americano, e soprattutto di una società bene che maschera con l’isolamento una forza sommersa e violenta pronta ad esplodere dai suoi confini, quella degli emerginati e degli allontanati, evoluti in fretta fino all’autocoscienza, e affamati di vendetta.



Romero riesce comunque a non essere didascalico o moralista, e alle scelte politiche e a uno stile ridotto all’osso aggiunge la ribadita purezza del suo sguardo visionario, con sequenze come quella (splendida) del guado del fiume, o quella (tra le più significative) in cui i furiosi walkers imparano a non fidarsi del luminescente inganno degli ultimi uomini barricati e sopravvissuti, avanzando implacabilmente verso il loro banchetto di morte.



E poi c’è Tom Savini zombizzato, che fa sempre la sua porca figura.

Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro)
di Hayao Miyazaki, 1988



In attesa di vedere (probabilmente attraverso uno schermo, purtroppo) il Leone d’Oro alla Carriera nelle mani del più grande animatore vivente, recupero un paio di suoi film la cui visione ho per tanto (troppo, direi) tempo rimandato.



Due bambine vanno a vivere vicino ad una foresta, accompagnate da una saggia vecchina e da un padre con la testa fra le nuvole. Più un fratello che un vero genitore: fa il bagno e gioca con le figlie, ma in realtà sono loro a badare a lui, mentre la mamma è in ospedale in un paese vicino. My neighbour Totoro, quarto lungometraggio di Miyazaki, è un’opera magica e commovente che, come al solito, pur essendo "ad altezza bambino" e di fruizione praticamente universale (anche perché basato su linguaggi non verbali), non è affatto infantile né stupido, né considera tali gli spettatori.



E’ anzi un canto di pace dell’uomo con la natura che ribadisce la superiorità dell’innocenza dello sguardo del fanciullo, capace di scorgere la vita che pulsa nella natura, in cui la poetica di Miyazaki emerge più lontano del solito dalla cattiveria dell’uomo civilizzato, e anche da meccanismi narrativi classici: per gran parte del film non "succede" nulla, e i personaggi sono "protetti" da una natura amica e rasserenata. E Totoro, personaggio buffo e bizzarro che "è" la foresta, aiuta a superare la paura della morte con la forza della fantasia. Con la forza di un albero che cresce sotto gli occhi attoniti e sognanti delle due bimbe. Con la forza di un volo aggrappati alla pancia di Totoro.



I due rispettivi (e silenziosi) incontri delle due protagoniste con Totoro sono pura e vibrante poesia, da antologia del cinema tout court.

[the returner]



Pur con un ritmo probabilmente decelerato almeno fino a settembre, e in attesa di un post arretrato e procrastinato all’infinito (si tratta dell’ultimo bellissimo film di Romero), il blog riapre.



E mentre il v.u.b. scopriva che a Narnia gli animali parlano solo se li sai sentire, che Via del Campo fa davvero piangere e non se n’era mai accorto, che sui giovani d’oggi forse aveva ragione Manuel Agnelli, e che la Sicilia da lui esplorata in fretta ma con passione è forse il paradiso terrestre (o meglio), nei cinema sono usciti due film di cui da queste parti si è già parlato. E se n’era parlato bene.



Il primo è Breaking News, è uscito il 5 Agosto, ed è il primo film di Johnnie To ad essere distribuito in Italia. Ovviamente se lo trovate ancora in giro, lo consiglio più che vivamente, un po’ perché vale la pena di scoprire (finalmente anche noi) l’Autore hongkonghese che è tra gli ultimi pochi baluardi di un cinema mitico che forse non c’è più, un po’ perché questo è, tra i suoi lavori recenti, uno dei più riusciti. Attendendo Election, che uscirà in Autunno. fate un salto al multisala: non dovrete nemmeno spegnere il cervello come al solito.



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Il secondo film, uscito ieri 12 Agosto con un inspiegabile mese d’anticipo rispetto a quanto preannunciato, e con un lancio peggio che suicida (praticamente inesistente, senza contare la ridicola data d’uscita) è la Guida galattica per autostoppisti, attesissima riduzione cinematografica ad opera di Garth Jennings del primo capitolo dell’omonima saga letteraria del compianto Douglas Adams, visto in anteprima al primo Biografilm Festival di Bologna. E se i libri di Adams sono insuperabili, il film possiede una inaspettata e apprezzabile coerenza con il testo d’origine ed è comunque un vero spasso, con alcune trovate (soprattutto di adattamento) davvero geniali. Provare per credere. Su, andate al cinema: almeno fa fresco.



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Il 5 Agosto, oltre a Breaking News, la tremenda spinta orientofila ferragostina ha fatto uscire pure (chissà dove) Silver Hawk (di cui in giro si legge peste e corna) e il giapponese Returner di Takashi Yamazaki, visto lo scorso Gennaio al Future Film Festival di Bologna. Oltre ad essere proprio brutto, il film è stato pure trattato in sede di montaggio come il fondo di barile che è. Se volete andate pure, ma poi non dite che non vi avevo avvertito.


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