settembre 2005

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Viva Zapatero!
di Sabina Guzzanti, 2005

Sentirsi indignati e sentirsi fisicamente male sentendosi dire cose che già si sanno, anche se capita di rado di sentirle tutte insieme, può essere un obiettivo sufficiente? Basta a rendere il documentario della Guzzanti anche un bel film? E’ questione da discutere, e forse le solite categorie servono a poco, un po’ come per l’ultimo Michael Moore, che era un documentario brutto, scorretto e amorale, ma dolorosamente necessario. La risposta, dopo una notte dalla visione e molte riflessioni in merito, è, in tutta sincerità, no.

La Guzzanti, dalla sua, si trattiene almeno dall’eccessiva manipolazione e dalla reality-fiction di Moore, realizzando niente più che un reportage televisivo, mostrando più che altro il suo punto di vista, incazzato e preoccupato, e tendendo inevitabilmente (per sua natura) a ridicolizzare il (già di per sè ridicolo) contraddittorio di chi la volle fuori dal video dopo la prima puntata di Raiot.

Allora, cosa rimane? L’informazione. E qui si esce dall’ambito meramente filmico. Allora, impariamo cose nuove? Ci si aggiorna, più che altro: guardate come stanno in Europa senza di "lui", guardate i loro programmi satirici che alle Iene fanno un centinaio di pippe, e guardate che da un po’ di tempo a questa parte l’Italia è classificata come un paese "partly-free". Se leggete il blog di Beppe Grillo questa cosa la sapete già, se non lo sapete sentirselo dire è una vera mazzata nei denti.

Il peccato più grosso è però che il film non riesce a diventare un essay sulla satira (sarebbe stato più bello e interessante, in tal caso), e se è senz’altro più vicino alla forma-cinema rispetto al Citizen Berlusconi da cui ruba alcuni frammenti, Viva Zapatero! fa l’errore di mescolare troppo spesso una giusta rabbia con una bassa retorica, l’invettiva satirica con una presunzione egocentrica e martire.

Nonostante tutto questo, nonostante il titolo faccia schifo, nonostante non sia un bel film (e nemmeno un film discreto), apprezziamo lo sforzo e consigliamo la visione a naso turato: la Guzzanti fa preziosa informazione "di massa" nell’unico modo che le è possibile, ed è davvero già un bene e un miracolo che sia nelle nostre sale e che possiamo andarlo a vedere e incazzarci con lei.

Quanto è tremendo che io debba scrivere una frase come "è davvero già un bene e un miracolo che sia nelle nostre sale"? Segno dei tempi: siamo nella merda.

Al cinema con me, Andrea, che ne ha parlato (maluccio) qui, e Murdamoviez che non ne parlerà affatto perché non gli è garbato per niente.

Bangkok dangerous
di Danny e Oxide Pang, 1999

Per me che non avevo amato The eye, l’esordio thailandese dei Pang Brothers è stata davvero una bella sorpresa: la storia di due fratelli killer, uno ferito e incazzato con il mondo, l’altro sordomuto e gentile ma gran talento con la pistola. Entrambi con una donna da proteggere e un destino di morte scritto sul corpo. Un noir metropolitano "hongkonghese" in piena regola, in cui i Pang strizzano infatti l’occhio al miglior cinema della loro terra (permettendosi pure una trasferta omicida nell’ex-colonia) ma che non sfigura troppo al cospetto dei modelli, o almeno non sa di stantio o di ricalcatura.

I Pang dimostrano anzi di avere un talento, tecnico ma non solo, non indifferente: esagerano spesso in ideazione (come Kong che va a vendicare il fratello "accompagnato" dal fantasma di quest’ultimo) e in post-produzione (il montaggio, dei registi stessi, è complesso e stratificato), ma è forse questa assenza di "pudore" a rendere bella e/o interessante la loro opera prima: altrimenti, sequenze come quella citata – tra le più belle del film – oppure l’assurdo l’inseguimento "velocizzato" non risulterebbero così ben riuscite.

Così, Bangkok dangerous è sì un film barocco e videoclipparo, ipermontato e ipertrofico, e rumorosissimo – per quanto silenzioso come il suo protagonista – ma anche un film ricercato e curatissimo, nonché appassionante (dopo un po’ di necessaria carburazione) e disperatamente romantico. Gran bel finale.

Da molto tempo, il film è disponibile in dvd in Italia, in un’edizione più che dignitosa. Lo si trova pure a noleggio, basta un po’ di pazienza. Il doppiaggio italiano non l’ho nemmeno provato. Come al solito Gokachu ne aveva già parlato anni fa.

[amore a seconda vista]

Il post … e il "relativo" ripensamento

Lemony snicket – Una serie di sfortunati eventi, Brad Silberling 2004

Lemony snicket – Una serie di sfortunati eventi (Lemony Snicket’s A series of unfortunate events)
di Brad Silberling, 2004

Prima d’altro, premetto che non sono un lettore dei libri di Daniel Handler: quindi non posso giudicare, come molti hanno fatto, quanto il film renda giustizia al libro, o se il secondo libro sia troppo sacrificato (anche se si vede), o cose simili. E’ tuttavia piuttosto scontato che restringere tre libri in meno di due ore sia un’impresa alquanto rischiosa.

Nonostante ciò il film non mi è risultato affatto sgradito: molto del merito va a scenografie, costumi, colonna sonora e fotografia, che hanno creato in sinergia alcune scene di grande effetto (come la bambina col serpente) e altre molto emozionanti (la casa sul dirupo, la macchina sul binario), ma anche a una costruzione narrativa che, pur tradendo un’eccessiva bibiofilia, lo rende almeno piacevole, o più, e addirittura bellissimo nelle sue battute iniziali.

Certo, i problemi non mancano, anzi ce ne sono a bizzeffe: prima di tutto il ritmo, che dopo un’inizio scoppiettante cala mostruosamente; ancor più grave, i divi che con le loro gigionerie (la loro idea di cinema per ragazzi?) cercano di oscurare le nuove leve: Jim Carrey è insopportabile (ve lo dice uno che lo adora), per non parlare della Streep. Nel frattempo, i due giovani protaonisti fanno il loro buon lavoro: belli e bravi.

Brad Silberling, dopo il piacevolissimo Casper e il tonfo del remake wendersiano, si riconferma buon mestierante, forse nulla più, ma senz’altro autore in potenza: un po’ come Gore Verbinsky. Che sia un Jean-Pierre Jeunet annacquato o un Tim Burton appisolato, comunque ci sa fare.

Emily Browing è un’istigazione al reato penale.

Se devo essere sincera
di Davide Ferrario, 2004

Se guardiamo un film simile con occhi privi di aspettative, possiamo anche dirci soddisfatti: Se devo essere sincera è, per due terzi almeno, simpatico e divertente, con una Littizzetto appiccicata ai suoi cliché ma non troppo fastidiosa, un contorno di buoni caratteristi, una brillante idea gialla a far da contorno.

Se però il regista è Davide Ferrario, apprezzato molto e in più riprese da chi vi scrive, spiace dirlo, ma questo non basta. E non solo: perché quelle continue accellerazioni, molto "a la Ferrario", sono invece qui praticamente inutili e stonano con il materiale "classico". E perché la commedia e il giallo faticano davvero ad amalgamarsi, e per metà film quest’ultimo scompare quasi del tutto. E perché nell’ultima parte il film arranca con fatica verso il finale, molto carino.

Interessante la "variazione torinese" dopo il ben più riuscito Dopo mezzanotte, ma, nonostante le innegabili risate, un po’ ci girano. E poi, perché i film della ITC Movie sembrano fatti con lo stampino, a prescindere dal regista? Meglio recuperare il sottovalutato E allora mambo.

Il film è un adattamento de La collega tatuata di Margherita Oggero: a quando sullo schermo i libri di Andrea G. Pinketts?

La fabbrica di cioccolato (Charlie and the chocolate factory)
di Tim Burton, 2005

Una delle doti maggiori di Tim Burton sta nella capacità di trovare il "potenziale burtoniano" in tutto ciò che racconta. E così, la storia dei cinque biglietti dorati e il viaggio di Charlie e nonno Joe nella fabbrica di dolciumi diventa anche quella di un uomo solitario e "diverso" (con tanto di forbici in mano, alla sua prima apparizione), in fondo mai cresciuto e quasi immortale nella sua statura mitica, rinchiuso nel suo bizzarro e tetramente colorato castello, e diventa quella della sua mancata riconciliazione paterna e della scoperta della sua mortalità.

Burton intuisce anche quello che a Mel Stuart, nel precedente tentativo di adattamento (che amo furiosamente, con i suoi limiti), era in parte sfuggito: ovvero la spinta feroce, satirica e corrosiva di Wonka, che in Burton diventa una misantropia ancora più sostanziale. Gli invitati sono accolti da bimbi-burattini in fiamme, e il massacro (seppur acquietato da una rassicurazione finale) è ben più premeditato che non passivo.

E i colpevoli? Sono sì i genitori (blame your mother and your father!, diceva una oompa-song del vecchio film), ma anche i bambini stessi, ingiustificabili per la loro età, rei di aver dimenticato il valore del sogno. Obesità patologica, vizio convulso, competitività maniacale, insistente saccenza: ancora più infernale della già acida visione di Dahl, questo quartetto di bambini cresciuti troppo in fretta e troppo simili ai loro genitori è il quadretto non proprio gentile che Burton ci regala delle nuove generazioni. Con l’ovvia speranza che "i Charlie" nascano come funghi: speranza da un lato soffocata da un sorriso amaro, ma anche abbracciata da una commovente visione "familiare" finale.

Ma il film, il materiale oggettivo al di là del progetto, basta a se stesso. Una pura gioia multisensoriale: la vista allucinata dalle luci coloratissime e accese di Philippe Rousselot, l’udito coccolato dalle musiche del perfetto (per quanto manierato) Danny Elfman e dai geniali – sebbene mal tradotti in italiano – mini-musical degli Oompa-Loompa, soprattutto l’ultimo. Per tacere ovviamente del gusto e dell’olfatto, protagonisti fin dagli splendidi titoli di testa: animati digitalmente, con tanto di tavolette paracadutate.

Qualche dubbio legittimo (il monolite di cioccolata era davvero necessario?) e qualche freno emozionale (perché in fondo chi conosce a memoria il libro e il film di Stuart ha meno "sorprese"), oltre alla certezza che il nuovo, vero, capolavoro di Burton sia "La sposa cadavere", non rallentano l’entusiasmo per un film incredibile e emozionante, che soddisfa la totalità delle nostre papille cinefile e non, senza alcuna decenza, bello fino allo svenimento glicemico.

Spongebob – Il film (The Spongebob Squarepants movie)
di Stephen Hillenburg, 2004

Ci ha messo più di un anno ad arrivare in Italia, il lungometraggio di Spongebob, la spugna gialla creata da Stephen Hillenburg nel 1999. Perché ce ne siamo accorti troppo tardi, e comunque ancora in pochi, che Spongebob è, nonostante l’apparente idiozia e l’evidente targettizzazione verso la prima infanzia, una delle serie "occidentali" di cartoni "per bambini" più divertenti degli ultimi anni. E il film, che si temeva affaticato dall’inadatta lunghezza, è invece persino meglio delle brevi puntate in tv.

Spongebob è una spugna di mare giallognola e dai "calzoncini quadrati", vive in fondo al mare con il suo amico Patrick, stella marina bambinone in bermuda, e lavora in un fast-food. Il film rispetta le premesse della serie, ma grazie alla libertà concessa al regista (visto il successo che macina da anni Spongy in America), si porta molto oltre. E così, tra varie amenità tipiche della serie, il film diventa una specie di strana mescolanza di fiaba tradizionale (un oggetto da recuperare, aiutanti, oppositori, oggetti magici, insomma ci siamo capiti) e di fantascienza anni ’50, con lo strabiliante plancton, villain di turno, che vuole conquistare il mondo passando – pensate un po’ – attraverso la colonizzazione alimentare dei fast-food.

Non è l’unico amo che Hillenburg butta al mondo degli adulti, come il re Nettuno distratto dai suoi compiti a causa della calvizie, o la clamorosa sbronza di Spongebob (di gelato, si intende), o la bettola (la sequenza migliore, forse) in cui è vietato far scoppiare bolle di sapone. Ma forse è quando è liberamente assurdo o semplicemente stupido che il film di Spongebob è davvero irresistibile. E succede spesso (la macchina-sandwich, i due benzinai, la scena dei teschi, o il numero musical, e via dicendo). Perde magari qualche colpo quando tira fuori la "carne umana", quando insomma Spongebob e Patrick si ritrovano sulla terraferma, in balia della crudeltà dell’uomo: ma passa poco per tornare alle trovate geniali, perché un David Hasseloff motoscafato non potremmo mai rimpiangerlo.

E’ possibile che chi non abbia visto mai una puntata di Spongebob trovi questo film inetto e cretino, perché necessita una rara sospensione di incredulità e una predisposizione particolare e allenata. Ma non escludo il contrario: vi consiglio di tuffarvi senza freni nelle acque di Bikini Bottom. Postreste rimanere fulminati.

Frankenweenie
di Tim Burton, 1984

Cortometraggio prodotto dalla Disney, dove Burton aveva lavorato come animatore, nasconde sotto la patina "disneyana" (l’integrità familiare, i buffi animali, l’happy end) tutto ciò che in futuro contraddistinguerà il mondo-Burton: l’odio verso gli adulti e il rispetto del diverso, le case tutte uguali e l’impronta dark che si nasconde dietro l’apparente normalità della provincia americana. Più alcune cose poi riprese pari pari, come la popolazione che insegue il cane-mostro per linciarlo, come in Edward Scissorhands.

Divertentissimo e appassionato omaggio ai classici immortali del cinema horror, Frankenweenie è un vero gioiello, un piccolo capolavoro che nonostante la durata e la relativa povertà di mezzi, non sfigura di fronte alle opere più mature di Burton.

In Italia uscì accoppiato a Nightmare Before Christmas (chi vi scrive, a quei tempi davvero giovanissimo, amò più questo che quello), e ora si può trovare nell’edizione speciale dvd (italiana) del suddetto film. Da acquistare a tutti i costi.

[post in attesa]




La morte corre sul fiume (The night of the hunter)
di Charles Laughton, 1955



Opera prima (e unica) di un grande attore, è un film che mescola una struttura che viene direttamente dal mondo della fiaba (la linearità e gli incontri nella fuga sul fiume, Barbablù, Pollicino e l’orco), una visione cupa e agghiacciante del profondo sud invasato dalla grande depressione, e una messa in scena di incredibile bellezza, in cui ogni inquadratura ha una rilevanza simbolica pregnante, anche grazie all’immortale fotografia di Stanley Cortez.



Uno dei massimi capolavori della settima arte, analizzato, studiato e adorato da molti, ma troppo, troppo spesso dimenticato. Da recuperare nella smagliante (per qualità dell’immagine, extra nulli) edizione dvd italiana.

36th chamber of shaolin (Shao Lin san shi liu fang)
di Liu Chia-Liang, 1978

Cos’è la 36esima "stanza"? Nel progetto di San Ta, monaco per vendetta, è quella che permetterà l’apertura dell’arte del combattimento ai non-iniziati, alla gente comune, così che anch’essi possano usufruire della saggezza degli shaolin per difendersi dai soprusi e dalle angherie dei potenti di turno.

Racconto "rivoluzionario" di un’apertura sociale delle arti marziali fuori dalle mura chiuse dei templi (dove li mettiamo gli shaolin che danzano a teatro?) o mero pretesto per mostrare una sequela di combattimenti? Opterei per la seconda ipotesi, in alcuni casi davvero evidente. Ma se vi piace il kung fu troverete comunque pane per i vostri denti: duelli meravigliosi, un bastone tripartito di bambù, e sopra tutto un Gordon Liu (per intenderci: "folle" in Kill Bill, Pai Mei in Kill Bill 2) assolutamente incredibile. In casi simili, può bastare per mettersi ad urlare dalla gioia.

Per il resto, è inevitabile linkare l’imprescindibile MurdaMoviez. Lui ne sa a pacchi.

[in the meanwhile]

Ieri 16 settembre, dopo un lancio pubblicitario confuso e incerto, è uscito nelle sale italiane Good night, and good luck, seconda prova dell’attore George Clooney dietro la macchina da presa, presentato qualche settimana fa alla Mostra del Cinema di Venezia, in Concorso.

Il film, forse un po’ accademico, è però coraggiosamente indipendente, raffinato e intelligente, ben scritto e splendidamente interpretato da tutti il cast: il protagonista David Strathairn ha vinto una sacrosanta Coppa Volpi. Merita davvero.

Qualche (mia, e non solo) parola in più qui, su Lidobloggers.

[nientepopodimeno]
Approfitto del post aperto per un paio di segnalazioni.

La prima è per i bolognesi: la selezione di film "veneziani", oltre a quelle ricchissime di Milano e Roma, sarà anche nella città rossa. Impossibile non segnalare, tra le altre, le proiezioni del nuovo capolavoro di Park Chan-wook, Lady Vendetta (martedì 20), e il folgorante e bizzarro Takeshi’s di Takeshi Kitano (mercoledì 21). Fossi in voi, non mancherei. Altre info e proiezioni, a questo link.

Ultima segnalazione, anticipatissima in stile Gokachu, per la trasmissione televisiva di un classico davvero imperdibile: A touch of zen – La fanciulla cavaliere errante di King Hu. Alle 23:50 di venerdì 23: programmate i vostri VCR.

Clean
di Olivier Assayas, 2004

Clean è il racconto di una maturità raggiunta con la sofferenza. Non è certo il racconto di "una che ce la fa", ma piuttosto il percorso aperto di una donna che si sacrifica e (forse) vince, contro se stessa e gli altri, contro la maldicenza dei gossip, contro i buchi e il metadone, contro tutto.

Svolto tutto intorno alla magistrale interpretazione di Maggie Cheung, Clean ha in realtà una doppia articolazione: da una parte il desiderio, poi necessità, di una donna di essere madre, che diventa bisogno, poi necessità, di essere "pulita"; dall’altra la rassegnazione alla morte di una madre e il contrastante e imperterrito bisogno di perdono da parte di un uomo che, anche lui, torna nuovamente ad essere padre.

Un racconto di serenità ricercata, di una fuga dalla droga che prima è la via obbligata per riavere il proprio figlio, e solo in un secondo momento sentita: niente moralucce da due soldi, quindi, ma una storia profondamente morale, e che ci porta comunque solo alla fine della ricerca, e non alla sua realizzazione. E oltre a questo, un "roadless road movie" a cavallo tra quattro città-nazioni (Parigi, Londra, Vancouver, Los Angeles), fotografate con affetto e cinismo dallo stesso Eric Gautier di Irma Vep, fino a quel canto, alla realizzazione (forse) del proprio sogno, all’uscire fuori a respirare l’aria "pulita" di L.A.

Nick Nolte, sornione e bofonchiante, è al solito monumentale, ma Maggie Cheung è semplicemente incredibile, e lo è in tutte e tre le lingue che padroneggia nel film (francese, inglese, cantonese: è un’idiozia vederlo doppiato), tra elementi autobiografici (la fine della relazione con Assayas), lacrime e sorrisi, e una vena autodistruttiva scritta sul volto e nella voce che va pian piano trasformandosi in maternità, sotto i nostri occhi, e come un miracolo, in lacrime. Immensa, Maggie.

Formidabile, va detto, anche la regia di Assayas (pezzi da novanta: le focali corte nella splendida sequenza della sala da biliardo, o il piano-sequenza in cui Emily scende nel garage del ristorante a impasticcarsi), e davvero strepitosa la colonna sonora: molta farina del sacco di Brian Eno, oltre alla bellissima canzone che David Roback (che appare alla fine) ha scritto per la voce di Maggie Cheung: vi sfido a non commuovervi.

Shaun of the dead, Edgar Wright 2004

Shaun of the dead (L’alba dei morti dementi)
di Edgar Wright, 2004

C’è uno strano paese in Europa dove un film altrove applaudito e amato da pubblico e critica non solo viene stupidamente ignorato per le sale dai distributori per finire direttamente sugli scaffali delle videoteche (peraltro con un bel dvd, ricchissimo di extra), ma guardate che razza di titolo idiota gli viene affibiato. Allora perché non “Se mi uccidi ti mangio”? Perché non “La mia grossa grassa carneficina zombie”? E che ne dite di “Zombie bastardo”? I dementi, qui, non sono certo i morti: benvenuti in Italia, Signore e Signori.

Brutta giornata per l’impiegato 29enne Shaun: il suo coinquilino e migliore amico Ed è una larva e mina l’ordine casalingo, il lavoro è frustrante e il suo patrigno è odioso, la ragazza decide di lasciarlo perché è stufa di passare le sue serate al Winchester Pub con Shaun e Ed, e come se non bastasse ci si mettono pure i morti viventi. Raccontato così sembra un qualsiasi patetico horroraccio di serie Z degli anni ’80, ma non lo è. Anche se forse così nasce, come un gioco tra amici cinefili cresciuti a pane e Romero, che sognavano fin da ragazzini di fare uno zombie movie. Ma quello che conta è il risultato.

E il risultato, che non è affatto – il rischio c’era – uno sterile spoof della trilogia romeriana, è sorprendente: Wright e il protagonista e co-sceneggiatore Simon Pegg (già creatori di una serie chiamata Spaced, da noi sconosciuta) hanno creato un ibrido divertentissimo che mescola una commedia brillante tipicamente british (l’understatement britannico è ritratto come uno stato di pre-zombismo) ad un horror “purista” e citazionista che prende a piene mani, a volte scherzando ma mai mancando di rispetto, da Carpenter, Landis, oltre che ovviamente da Romero. Senza staccare forzatamente i due toni o insistendo su uno o sull’altro, ma fondendoli in un’amalgama miracolosa.

Spassoso, intelligente e senza un attimo di tregua, il film basa la sua forza su un’ottima sceneggiatura che anticipa circolarmente nella parte più “comedy” l’incubo a venire (tutti gli avventori ricompariranno poi “zombificati”, ogni frase detta avrà un tornaconto negli eventi), su un senso di partecipazione sul set (dove erano tutti amici e compari) che per una volta non trasforma tutto in goliardata idiota, e sull’idea geniale di ambientare tutta la vicenda nei sobborghi residenziali e non nei “centri turistici”: ve li immaginate gli zombi a Borgo Panigale?

Impossibile resistere alla parlata cockney di Pegg e del formidabile Nick Frost: caldamente consigliata la lingua originale.

Team america: World police
di Trey Parker, 2004



Un film di burattini, con tanto di fili, nello stesso anno del molto meno noto Strings: ma se gli autori sono Trey Parker e Matt Stone, il risultato è ben diverso. La regola alla base è la stessa che regolava l’irriverente cartoon di Parker e Stone, South Park: la totale assenza di pudore, che rende il film il prodotto di una mente eternamente adolescente, e senza freni. Una fellatio per dimostrare la propria fedeltà al capo, l’improperio jesus titty-fuckin’ christ, un "discorso finale" che parla di pussies, dicks e assholes sono gli esempi più calzanti.



Ma l’obiettivo principale del film è chiaro e serio, ed è il cinema industrial-patriottico di Jerry Brukheimer e Michael Bay: frasi a effetto ("Terrorize this!"), personaggi che nel bel mezzo dell’azione (persino durante un attacco aereo) si scambiano confidenze e chiarimenti melodrammatici, e c’è persino una canzone malinconica che si chiama "Pearl Harbour sucked". D’altro canto, grazie all’impressionante lavoro dei tecnici (gli scenografi hanno creato intere città di "case di bambole" secondo "l’idea che gli americani hanno" di quelle città, vedasi Parigi), il film non è una povera sciocchezza, bensì il risultato di uno studio acido ma acuto sui cliché e gli stilemi del cinema action americano contemporaneo. Ovviamente, dati entrambi ai pesci.



Team america è la quintessenza dello spirito anarchico di Parker e Stone, perché nessuno è risparmiato: dalle forze di polizia internazionali ("we have no I.n.t.e.l.l.i.g.e.n.c.e.!") agli attori "liberal" come Tim Robbins e Sean Penn (che qui guidano il Film Actors Guild, e visto l’acronimo la battutaccia è inevitabile), dai terroristi islamici (o meglio, alla loro immagine codificata: non dicono altro che "jihad", "muhammad", e altri versacci) a Michael Moore. Nella demolizione generale si fa quasi il tifo per l’egocentrico e spietato dittatore nordcoreano King Jong Il, sorta di irresistibile Eric Cartman potente e incattivito, a cui è dedicata persino una canzone strappalacrime.



Resta il dubbio che sotto un attacco così deliberato all’establishment hollywoodiano si nasconda un po’ di invidia, perché non tutto funziona come dovrebbe, soprattutto una volta scoperte le carte, e che l’accesa satira politica sia appunto aquietata dall’odio nei confronti della mecca del cinema (o forse da esigenze produttive?).



Se vi pare di non gradire, ed è più che comprensibile, lasciate perdere. Ma, accettate le regole del gioco, ci si diverte da impazzire. Basti pensare alla scena di sesso (che inizia come la tipica scopata blockbuster, per poi trasformarsi in un porno esplicito tra Barbie e Ken), alla vomitata interminabile del protagonista, e al trattamento impietoso che viene riservato a Matt Damon.

[in the meanwhile]



E’ consuetudine per me segnalare su questo blog i film usciti nelle sale di cui, per un motivo o per l’altro, ho già parlato in passato, per la tendenza consolidata a non "ripetere" i post. Dunque, durante la mia assenza veneziana (il cui resoconto è nel post precedente) ci sono state ben due date di uscita. Insomma, come ormai da tempo a questa parte, due venerdì.





Dal 2 settembre è nei cinema Seven swords: il film d’apertura della 62ma Mostra del Cinema di Venezia è, a parer mio e a dispetto di molte critiche massacranti, un gran bel wuxia, ricco, carnale e violento. Niente di cui innamorarsi perdutamente, non è certo lo Tsui Hark di The blade, è lungo e confuso, ma è ampiamente soddisfacente.



Il breve commento "a caldo" sul film è qui, su lidobloggers.



Nella stessa data è uscito Madagascar, ma potete fare a meno, è forse il punto più basso della Dreamworks animation.

Il post è qui.





Il 9 settembre è invece (finalmente) uscito in Italia Il castello errante di Howl, presentato a Venezia un anno fa (!) e da me visto al Future Film Festival di Bologna 2005. E’ piaciuto a tutti (e ci mancherebbe), ma secondo molti fan del Maestro Miyazaki è un film minore. Non sentirete ciò da queste parti: è un altro capolavoro.

Uscite immediatamente di casa e andate a vederlo.



Il post è qui.

Monte Schienarotta
The End of a Festival







La 62ma mostra di Venezia è così giunta al termine, tra premi annunciati (argento a Garrel), ingiudicabili (oro a Ang Lee, che apprezzo ma il cui film – nella foto – non ho visto), inconcepibili (il premio della giuria a Ferrara, a mia opinione deludente), contentini italici (la Volpi alla Mezzogiorno, rubata a Lee Young-ae), e meritati trionfi (la Volpi al bravissimo Strathairn).



Park Chan-wook, Stanley Kwan e ovviamente Takeshi Kitano, purtroppo a bocca asciutta.



Dal 31 agosto all’8 settembre al Lido, ho visto una trentina di film. Potrei averne visti molti di più: e se da una parte c’è stato un certosino lavoro di "selezione" (ho evitato molte sicure fregature), non nascondo un arrabbiato biasimo per il trattamento riservato quest’anno agli accreditati "cinema" (i culturali, insomma, "noartri"), per i quali vedere un film (tranne la retrospettiva, splendida ma spesso deserta) era spesso un autentico massacro psicologico. E non solo, grazie a case di produzione che dettano legge e maschere sull’orlo di una crisi di nervi. Come se non bastassero i metal detector.



Le proiezioni in orario sono gradite, ma non sono tutto: ci vuole rispetto per chi ha semplicemente passione, perché siamo anche noi a tirare avanti la baracca.



Detto questo, c’è stata l’occasione di vedere una manciata di gran bei film, qualche sòla, tanta medietà che poco disturba, e molte piacevoli sorprese. Park (in concorso) e Burton (fuori concorso), come previsto, i migliori, enormi. Il mio giudizio, per quanto visto, è tutto sommato positivo, nonostante gli ultimi giorni, in cui l’interesse e le energie se ne sono andate a farsi benedire.



Ho deciso di non dare qui voti in "quadratini" o "pallette", perché so che le mie visioni sono condizionate dal clima festivaliero: ci sarà tempo di farlo all’eventuale uscita italiana, sulla connection.

Ogni mia (spesso breve) opinione sui film visti al Festival è in ogni caso contenuta nel blog collettivo di cui ormai tutti parlano, ovvero LidoBloggers: A Wild Bunch In Venice, e lì resteranno a futura memoria.



Colgo l’occasione per ringraziare i compagni di tenda e di visione: Andrea e la sua faccia quando incontrò Miike, Infamous e il suo "bàccaroh!", Ohdaesu e i suoi occhi lucidi all’incontro con Park, Rob e la sua epifania "coreanamente" sventagliata, Clos e le nostre accese discussioni dell’ultim’ora, e ovviamente Sunekosuri.



Impossibile non citare anche gli "altri" compagni di merende del Festival, ovvero gli autarchici e irresistibili FedeMc e Francesco di Secondavisione: sul loro blog trovate un’altra tonnellata di articoli, molti dei quali scritti prima che diventassero schiavi dell’elio.



Colleghi, amici, è stato davvero bello, e senza di voi non sarebbe stata la stessa cosa.



Segue, ad uso personale e riassuntivo, in rigoroso ordine di catalogo, redatta con una punta di malinconia, la lista dei film visti.
Hasta luego.







Concorso

João BOTELHO O Fatalista Portogallo/Francia 99’

George CLOONEY Good Night, and Good Luck. Usa 90’

Abel FERRARA Mary Italia/Usa 83’

Aleksey GERMAN JR Garpastum Russia 114’

Terry GILLIAM The Brothers Grimm Gran Bretagna 120’

Takeshi KITANO Takeshi’s Giappone 108′

Stanley KWAN Changhen ge Cina/Hong Kong 120’

PARK Chan-wook Chin-jeol-han Geum-ja-ssi (Sympathy for Lady Vengeance) Corea 112’



Fuori concorso

Stuart GORDON  Edmond Usa 90’

Mike JOHNSON, Tim BURTON Tim Burton’s Corpse Bride Gran Bretagna 75’

Andrew LAU, Alan MAK Initial D Hong Kong 108’

MIIKE Takashi Yokai Daisenso Giappone 124’

NOMURA Tetsuya Final Fantasy VII: Advent Children Giappone 90’

TSUI Hark Seven Swords Cina/Hong Kong 144’



Orizzonti

Matthew BARNEY Drawing Restraint 9 Usa 150’ (la prima metà)

Lirio FERREIRA Arido Movie Brasile 115’

LI Yu Hongyan (Au fil de l’eau) Cina/Francia 93’

NING Ying Wu qiong dong Cina 90’

Liev SCHREIBER Everything Is Illuminated Usa 102’


Storia segreta del cinema cinese

Yeban gesheng (Canto a mezzanotte – parte I, 1937) di Maxu Weibang

Xiaocheng zhi chun (Primavera in una piccola città, 1947) di Fei Mu

Zhonglie tu (Ritratto di patrioti e martiri, 1975) di King Hu


Storia segreta del cinema giapponese

Enoken no ganbari senjutsu (Enoken e la strategia della perseveranza, 1939) di Nakagawa Nobuo

Nihon kyokaku den (La leggenda dei cavalieri giapponesi moderni, 1964) di Makino Masahiro

Okami to buta to ningen (Lupi, maiali e uomini, 1964) di Fukasaku Kinji

Gendai yakuza – Hitokiri yota (Yakuza moderni: il killer fuorilegge, 1972) di Fukasaku Kinji



Storia segreta del cinema italiano / 2

Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava (versione restaurata)



Giornate degli autori

13 (Tzameti) di Gela Babluani

Naboer di Pål Sletaune



Settimana della critica

Brick (La Roba) di Rian Johnson, USA



Sic e GDA

Giacomo l’idealista di Alberto Lattuada, Italia