ottobre 2005

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[play dead**]
**post modificato dopo la visione in italiano

Esce domani 28 ottobre nelle sale italiane il film La sposa cadavere (Corpse bride) di Tim Burton e Mike Johnson.

Su Lidobloggers: Fuori Concorso potete trovare il mio commento dalla 62ma Mostra del Cinema di Venezia, e ovviamente quelli di Andrea, Clos e Murdamoviez.

Io mi posiziono nettamente tra i (molti) "convinti": Corpse Bride è un film magico e divertentissimo, un vero capolavoro. Non spendo altre inutili parole.

Ora bisogna solo sperare che questa meraviglia superi la prova del doppiaggio (Fabio Boccanera vs. Johnny Depp?), quella (dolente) dell’adattamento delle splendide canzoni, e quelle – più personali – della "seconda visione" e del "fuori festival". Ho pochi dubbi, ma avrò presto modo di verificare.

**Il film supera brillantemente la prova del doppiaggio: bravi tutti, ottimo adattamento, compresa la canzone del pub (la nostra favorita) "Remains of the day". E supera anche le prove della "seconda visione" e del "fuori festival": La sposa cadavere è un film meraviglioso, perfetto, "bello da morire". Andate a vederlo. Subito. Stasera. Domani. Magari nel pomeriggio. Sai mai: potreste voler rientrare subito in sala.

(E se avete una connessione veloce, fate un salto sul sito ufficiale: roba da perderci la testa.)

[clonato]

The descent – Discesa nelle tenebre (The descent)
di Neil Marshall, 2005

"How do you give a lemon an orgasm? You tickle its citrus!"
"Che cosa fanno due agrumi da soli? Si mettono a limonare!"

Si era visto in Dog soldiers, che Marshall ci sa fare. Ci avevano avvertito, molti dei fortunati che l’hanno visto a Venezia, di stringere i denti. E qui non siamo di fronte solo ad un horror bello e spaventoso. The Descent, viaggio verticale, oscuro e rossosangue, in un abisso tutto interiore, è un’esplorazione completa e terrificante delle figure classiche del buio e del chiuso, e delle paure a loro annesse.

Certo, i mostri sono creaturine orripilanti con orecchie a punta, occhi spiritati e urli striduli: ma non c’è un momento in cui questa scelta si dimostri facile o ridicola. Perché quello che ci fa più paura non sono i "vampiri", dopotutto in preda ad una fame atavica. A spaventarci sono queste sei donne, fighe e sportive, che si spezzano le ossa e si fracassano contro le rocce, che prendono il piccone in mano e massacrano il nemico, che si riempiono di sangue, lottano nel sangue, ci fanno il bagno, la lotta, nel sangue, che si uniscono, si tradiscono, si vendicano. A spaventarci è che noi vediamo più di quanto loro non vedano. La nostra focale visiva è quella dei mostri.

L’incipit toglie il fiato: un vero incubo, rappresentato con una lucidità e un’impietosità impressionanti. E il finale non è da meno. Un film crudele e senza tregua, violento e sanguinario, misantropo più che meramente misogino, oscuro, tesissimo e allucinato. Un film che è riuscito a farmi fisicamente tremare, anche dopo la fine dei titoli di coda. Ben più che una conferma.

Al cinema c’era anche Infamous. Che ha gradito.

La città perduta o La città dei bambini perduti (La cité des enfants perdus)
di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, 1995

Il secondo film di Jeunet e Caro, a quattro anni da Delicatessen, è molto meno noto, meno di culto, da noi: infatti il recente dvd italiano ha (inspiegabilmente?) un titolo diverso da quello, più preciso, della prima edizione. Quando non se lo filò nessuno. Ma immeritatamente: perché La cité è un’opera che riconfermava senza molti dubbi il gran talento di due autori cresciuti a pane e animazione, l’uno destinato a sicuro (e strameritato) successo internazionale, l’altro persosi a lavorare con gentaglia come Pitof.

La cité è un film cupo e bizzarro, creativo e "fumettistico" nel senso migliore del termine (ossia quello poetico, non solamente derivativo), forse meno cinico, satirico e incisivo che Delicatessen, ma anche più semplicemente emozionante. Una favola moderna, sghemba e dolcissima, con crudeli professoresse siamesi, un grande gigante gentile, e un piccolo esercito di Dominique Pinon: difficile resistergli.

La tigre e la neve
di Roberto Benigni, 2005

A scanso di equivoci: ve lo dice uno di quelli (metà del mondo) che ha adorato La vita è bella, e che nonostante l’orripilante Pinocchio ancora ci sperava. E invece l’ultimo film di Benigni è una costosetta fregatura, e una delusione ancora maggiore se si pensa che era un esercizio molto più alla portata dell’autore toscano, rispetto al film del 2002.

Non che La tigre e la neve non offra degli spunti interessanti, non che non ci siano sequenze riuscite (canguro e cammello; non mi viene in mente altro), non che non ci sia l’impressione che Benigni sappia cosa sta facendo: lo dimostra il ritorno a Roma del finale, che è davvero molto bello, con una gradita sorpresa, i pezzi che si rimettono a posto e una secca e bella inquadratura finale – in contrasto rispetto a certi eccessi visti nelle due – lunghissime – ore precedenti. Un finale che risolleva molto il film, non è da tutti ma non è abbastanza (la chiusa gli era venuta bene persino nel disastro collodiano).

Il problema è un altro, è che un filmetto così è inaccettabile, dopo i film che tutti conosciamo. Un filmetto, lo ribadisco, che non fa ridere e non commuove, realizzato con troppa passione e poca serietà, tiepidino e sostanzialmente inutile. Benigni poi non fa altro che strillare e protendere le mani in avanti, Jean Reno ha le battute migliori ma è imbarazza(nte)(to), e la Braschi recita come se leggesse gli Atti degli Apostoli a messa. Tutta la parte in cui Benigni sostiene in vita la sua amata comatosa nell’ospedale, in mezzo alle bombe che cadono è di una noia mortale.

Oltre che ambiguo: inganni la Croce Rossa per vedere la tua metà mezza morta? Rompi il cazzo ad un povero, povero, povero medico irakeno per salvare solo e solo lei (la beneficenza ovviamente arriva, ma sarà detraibile…)? Rubi le scarpe al souk perché ti si sono rotte le tue e sei senza un euro? Ma scherziamo? Ti barcameni per cercare le bombole da sub per comesichiama mentre la gente muore sotto le esplosioni? E di chi sono quelle bombe? Non saranno di quei ragazzi simpatici ma un po’ nervosi che ti fermano alla frontiera?

Con un egocentrismo che sfiora il delirio d’onnipotenza, il film si autodichiara inno alla poesia. Ma le ferite del presente cauterizzate da quattro sciocchi versi (due rime non fanno una quartina, mister Benigni) non sono argomenti che amiamo sentire da uno che un tempo ideava, graffiava, scioccava e proprio per questo era amato. Ora vive di rendita sul proprio talento assopito, ossessionato da una donna fragile ma poco interessante, e sembra si sia seriamente rincoglionito. Forse dobbiamo dare la colpa a lei?

E poi, chi gliele sceglie quello schifo di locandine?

A bittersweet life (Dalkomhan insaeng)
di Kim Ji-woon, 2005

Sun-woo, mafioso freddo, insonne e fichissimo, fa l’errore di sottovalutare le conseguenze dell’amore, e finisce in amarissimi cazzi: ne segue sanguinosa vendetta.

L’ultimo film del regista di Two sisters, presentato a Cannes quest’anno, ha diviso i cinebloggers come pochi altri. Un vero e proprio celebrity deathmatch: da un lato del ring i vistosi apprezzamenti: Cineblob, Hellbly e gli Spietati. Dall’altro le feroci detrazioni: Ohdaesu, il Topo modesto e Murdamoviez (un breve intervento su Scrive.it). Tocca a me fare l’ago della bilancia: Daljomhan insaeng è un film furioso o solo violento? Formalista o manierista? Supercool o superfighetto? L’ago pende sul sì.

Kim Ji-woon, ce n’eravamo accorti, è un gran bel regista. E il film è uno spettacolo visivo sopra la già curatissima media del cinema popolare coreano: difficile negarlo. Quello che può far innervosire è il pastrocchio citazionista: in una stroncatura questa motivazione ci sta come il cacio sui maccheroni. Kim riesce ad infilare i primissimi piani di Sergio Leone, il montaggio frenetico di Tsui Hark, l’elegia  samurai di Melville, i corridoi vendicativi di Park Chan-wook, il grottesco situazionismo di Tarantino e un finale che viene dritto dritto da A hero never dies di Johnnie To.

Quello che però sorprende è che il materiale è amalgamato ottimamente, che non si sente il peso delle derivazioni, e che le scelte concettuali del film – inusuale e modaiolo al tempo stesso – funzionano alla perfezione. Mostra la corda per altre ragioni, perché all’inizio scricchiola e alla fine stroppia. Ma la parte centrale, con la sepoltura nel fango e il duello nel capannone, è fantastica. E anche il finale – anche se esagerato e compulsivo – è davvero esplosivo.

E così, dopo un po’ di noia e un buon terzo di film in cui ci si chiede dove stia andando a parare, ci si ritrova a fissare inebetiti lo schermo come accadeva le prime volte in cui scoprivamo il cinema coreano, un cinema brillante e moderno, senza troppi peli sulla lingua né remore etico-visive, a volte violentissimo ma insinuante, non sempre bilanciato ma emozionante. Proprio come A bittersweet life.

Dog soldiers
di Neil Marshall, 2002

"What scares you?"
"Spiders. And women. And spider-women."

Il lungometraggio d’esordio del giovane regista uscito poi alla luce con The Descent (nelle sale or ora) ha una dote enorme per questo tipo di horror: l’umiltà e l’attaccamento al puro divertimento. Nonostante i suoi personaggi siano militari in esercitazione nelle Highlands scozzesi, Marshall rifugge insomma possibili letture politiche, lasciando tutto il suo interesse alla paura e (meno) alle psicologie dei personaggi, confezionando un buon prodotto horror, con rapporti interni molto delineati. Il che è già molto per un’opera prima – inglese, per di più.

E mette pure strizza: non da subito, perché cresce a fatica, ma tutta la seconda parte è ottima, e il finale è una bomba. Alcune ristrettezze del budget sono accantonate attraverso i classici sotterfugi (nebbie, fuoricampo, ombre), ma quando si tratta di mostrare i licantropi, Marshall non fa una grinza, e noi alla fin fine lo si ringrazia.

Buona sceneggiatura del regista stesso (costruita intorno a una "sorpresa" che però si intuisce presto), regia mobilissima e nervosa, cast ottimo. Buon successo nei festival di genere, da noi è arrivato solo in dvd.

The League of Gentlemen’s apocalypse
di Steve Bendelack, 2005

"You my friend are f-u-k-t, fucked!"

Premessa essenziale: che diavolo è The League of Gentlemen? Si tratta di una serie televisiva inglese, creata da un omonimo gruppo di comici (Jeremy Dyson, Mark Gatiss, Steve Pemberton, Reece Shearsmith), e in onda sulla BBC dal 1998. Bizzarro show che si rifà al cinema horror prendendo per i fondelli la provincia inglese fatto di sketch costruiti intorno alla location immaginaria di Royston Vasey, i cui personaggi sono interpretati in gran parte dagli ultimi tre Gentlemen, è da noi assolutamente sconosciuto, ma in patria è da sempre oggetto di culto. The League of Gentlemen sta insomma a quest’ultimo decennio come il Flying circus stava agli anni ’70. Con le dovute distinzioni, ma per capirci. Detto questo, il film.

The League of Gentlemen deve essere interrotto: i quattro sono a corto di idee e vogliono "provare strade nuove". A Royston Vasey, collegata al mondo reale tramite un passaggio nei sotterranei di una chiesa retta da un’intrattabile reverenda con il rossetto sui denti (!), si avvicina l’ovvia apocalisse annunciata da due profezie: una tremenda tempesta e la copiosa eiaculazione di una giraffa (!). E così, alcuni dei personaggi della serie, scoperta la propria natura di "macchiette", entrano nel nostro mondo e si ribellano ai loro interpreti, cercando di far cambiar loro idea. E come se non bastasse, uno di essi entra nella sceneggiatura del film (!) che gli autori stanno scrivendo per sostituire League, un fantasy-horror in costume.

Per chi (come me) non ha mai visto lo show televisivo, è difficile comprenderne subito lo spirito e la natura, e impossibile cogliere probabilmente infiniti riferimenti alla serie tv. Ma Apocalypse è indubbiamente divertente fin da subito (la musica thriller che si rivela una suoneria), è sgradevole ("I made a brown fish!"), volgare e scorretto (una tra tutte, la scena del confessionale) ma è realizzato con una cura (visiva, narrativa, fotografica) che non inventa niente di nuovo ma che ha ben poco di televisivo, e soprattutto è carico di un’autoironia (autodistruttiva, visto il massacro finale) che si fa perdonare tutto, dalle parodie di Shining, allo sfottò verso Mr. Bean, ai momenti in cui pare prendersi persino un po’ troppo sul serio.

Paradossale, demenziale e apparentemente sregolato. Ma, sotto sotto, molto raffinato: si capisce dalla solidità con cui è governato questo vero e proprio caos, persino quando i tre mondi collidono, nonché dal talento dei tre attori, e da finezze come quella che chiude, circolarmente, il film. Con un colpo di coda.

Papa Lazarou, che nel Regno Unito è una star, entra nei nostri cuori smaniosi di cult, vomitando una ciocca di capelli.

Già acquistabile online in dvd. Per esempio, su Play.com. Tanto nelle sale italiane ve lo scordate, e per una volta comprendo il perché.
Per saperne di più, consultate la (ricchissima) voce dedicata allo show e al film su Wikipedia.

Niente da nascondere (Caché)
di Michael Haneke, 2005

Data la complessità di questo film e l’impossibilità di dire qualcosa di sensato a proposito di esso a prescindere da alcuni elementi narrativi, avverto che potrebbero esserci degli "spoiler". Mezzi salvati.

Questa non-analisi si vuole programmaticamente e provocatoriamente fredda su materiale caldo proprio quanto le note di ghiaccio dell’opera danzano silenziosamente sui corpi dei personaggi, sulla città di Parigi, sulla Storia. Dunque, l’ultimo film di Michael Haneke si costruisce su tre percorsi narrativi.

Il primo è un mistery: il giornalista televisivo Georges Laurent riceve delle videocassette che riprendono l’esterno della sua casa; indaga per sapere chi e cosa ci sia nascosto dietro. Agli occhi dello spettatore, non lo scoprirà. Il secondo è una vicenda familiare: il figlio dei Laurent sparisce; i genitori pensano ad un collegamento tra il rapimento con le videocassette, ma il ragazzo era solo nascosto per gelosia nei confronti della madre, che crede adultera. Agli occhi dello spettatore, si sbaglia. Il terzo e più rilevante è un dramma personale che traccia una linea concreta e Storica tra il passato e il presente, sia da un punto di vista personale (l’errore fatto da Georges nell’infanzia e poi nascosto – consciamente alla moglie, inconsciamente nell’inutile negazione del sensodicolpa – che condiziona la vita di un altro uomo) sia collettivo (la guerra franco-algerina e lo schermo che sullo sfondo racconta della guerra in Iraq e della crisi mediorientale). Agli occhi dello spettatore, inermi, si risolve in improvvisa tragedia e in una catarsi solo verbale, una condanna legata alla potenza del marchio morale.

Tracciate queste linee essenziali del film e distintene le parti, si possono individuare nel film due opposizioni fondamentali. La prima è diegesi esterna / diegesi interna: data fin dalla prima inquadratura, è la continua confusione – e tensione quasi insostenibile – tra ciò che vediamo sullo schermo, ciò che vede il protagonista in soggettiva, e ciò che il protagonista vede – e modifica, con il telecomando – sullo schermo della sua televisione. La seconda, strettamente conseguente, è la – ben più risaputa – vero / falso. O meglio, manipolazione del vero: determinante la scena in cui il programma televisivo di Laurent viene creato – montato, letteralmente – di fronte agli occhi dello spettatore. Ma non solo.

Ne consegue che Caché, straordinaria (ora possiamo dirlo) opera teorica, metateorica, e allo stesso tempo fisica e metafisica, è un film sul vero e sul falso, sullo sguardo e sugli schermi, e quindi un trattato a-cinefilo sul cinema stesso. E ne conseguono talune e talaltre ipotesi sui vari misteri del film; ma subito schiacciate dalla potenza del linguaggio, che si crede assente ed invece è composito e strabiliante, steso come un pensiero lockiano sul piano bianco dello schermo e reso corpovivente nonostante – limiti, questi, ma dichiarati – la decisa glacialità, l’assenza di un termine ultimo, il nulla esplicativo, l’esautorazione dell’emozione. Se non per quell’urlo – nostro – soffocato dallo shock e dal colore del sangue, in una stanza vuota e attraverso lo sguardo di chi, di non sappiamo più chi.

Per definizione, in ogni problema in cui si presentino dei dati e delle ipotesi, si prevede una soluzione. Ebbene, parte del fascino di questo asciutto e bellissimo film è proprio l’assenza di tale soluzione. O almeno, così crediamo. Oppure possiamo pensare e credere che "agli occhi dello spettatore" sia stata negata, sia stata nascosta, proprio quella verità che abbiamo aspettato invano; che quel trauma, zampata implacabile di un autore geniale quanto bellamente sadico, sia un flashback negato e quindi privo di veridicità; che quel bambino ci abbia preso in pieno, su sua madre; che in quella "camera fissa" finale, su cui scorrono i titoli di coda, accada qualcosa che ci è sfuggito. Sarà la frustrazione dell’attimo, o l’autoconvinzione, ma io ci ho visto qualcosa – che non so spiegare e di sicuro non mi aiuta ad uscirne.

E la cosa che sembra – sembra solo – più rilevante: il mistero delle videocassette. Possiamo credere che dietro a quella telecamera, a spiare i personaggi, non ci sia – metafisicamente – nessuno? Ma è davvero metafisica, se siamo noi, noi spettatori, costretti e piegati alla coercizione visiva di Haneke, ai suoi imprescindibili infiniti piani-sequenza, a spiare la famiglia Laurent?

Le avventure di Sharkboy e Lavagirl in 3-D (The Adventures of Sharkboy and Lavagirl in 3-D)
di Robert Rodriguez, 2005

Il cinema di Robert Rodriguez si dipana su due binari separati ma in realtà complementari: il primo è quello che ha portato dalla bella trilogia tex-mex ai pregevolissimi risultati di Sin City. Il secondo è il "suo" cinema per ragazzi, che Rodriguez coltiva nei ritagli di tempo divertendosi a smanettare sull’Avid che tiene in cantina.

Skarkboy e Lavagirl è una specie di spin-off della trilogia di Spy Kids, e Rodriguez ha l’occasione di sdoganare definitivamente il suo amatissimo quanto inutile 3-D vintage già sfoggiato in Game over. Ma più che altro il film si rifà alla Storia Infinita di Ende, con tanto di mondi creati dall’immaginazione del protagonista, nuvoloni neri ("arriva l’oscurità!", ma scherziamo?) a distruggerli e con loro l’immaginazione/innocenza dei bambini, e una regina di ghiaccio con tanto di amuleto che odora di plagio.

Questa è l’idea di cinema per ragazzi che può avere un tizio che ha chiamato i suoi figli Rebel, Rocket e Racer Max: rumoroso e tamarro ma anche stupido e terribilmente noioso, tutto colorato, caramelloso e dolciastro ma esteticamente orrendo fin dall’impatto iniziale persino per gli appassionati di green-screen, perché sembra fatto con gli scarti tecnologici di Sin city.

Banana split giganti su fiumi di latte e piogge di cervelli ("brainstorm", e non è il solo gioco di parole idiota): talmente naif da essere divertente? Nemmeno poi tanto, se non avete dieci anni e per hobby non collezionate robottini e giocate alla Ps2. In tal caso è il film per voi e per i vostri pupetti. Ma sinceramente, ‘sticazzi.

D’altronde, cosa ci si può aspettare da un film "scritto da" un bambino di sette anni?

Romanzo criminale
di Michele Placido, 2005

Molti, anzi tutti, hanno già visto e parlato di Romanzo criminale. Non resta molto da dire, se non qualche sparsa considerazione e un giudizio di merito. Che è, irrimediabilmente e al di là dei pregiudizi negativi (ma quelli stupidi, quelli di chi non ha mai visto un film di Placido), molto positivo. Romanzo criminale è un film che emoziona e colpisce, più politico di quanto sembri e più "vivo" di quanto ci si aspettasse da un adattamento "bibliofilo", che funziona per tutta il suo interminabile durata, e almeno più di quanto si poteva chiedere.

Con mano fluida e senza rinunciare ad un cliché che sia uno, con taglio forse televisivo ma con respiro decisamente cinematografico, con mezz’occhio a Scorsese e un occhio e mezzo al cinema civile di Rosi e Damiani, Placido dipinge l’affresco corale di una peggio gioventù (Rulli e Petraglia alla sceneggiatura sono presenti in ogni fessura del film) che si fotte la città di Roma, Mantide Religiosa di imponenti palazzi e stretti vicoli, per poi farsi divorare a sua volta, in un usuale e oliatissimo meccanismo di ascesa-e-caduta.

Molti hanno sottolineato come il ritmo scemi dopo una prima mezz’ora mozzafiato, dopo la rapida ascesa della banda tra le strade di Roma. Io ho preferito invece l’inevitabile e lunghissima caduta, segnata più dalla disperazione e dall’inevitabilità che non dal ritmo delle (ben scelte) canzonette, con i delinquenti, affascinanti ma mai semplificati o santificati, che vengono trascinati nel baratro insieme a tutto quello che sta loro intorno.

Cast impressionante, nessuno escluso, almeno all’interno della banda. Favino, Rossi Stuart, Santamaria: lo sapevamo che erano bravi, e qui sono all’altezza del loro talento. Ottime anche le scelte di contorno, con i due sorprendenti fratelli Buffoni: Fassari (il migliore in campo, insieme a Favino) e Er Patata. Accorsi è se stesso, è sotto la media sua e degli altri attori, ma fa il suo porco lavoro e si fa sopportare.

Infine: Romanzo criminale è un film politico e di intrattenimento, e potrebbe bastarci. Ma è anche un film sul destino e sul caso (per cui giustifichiamo volentieri la criticatissima sequenza bolognese), ed è soprattutto la storia di una triplice malasorte. Il romanzo di tre ragazzi marchiati da un presagio di morte scritto sulla sabbia, come il sudario del Gesù bambino di Caravaggio.

8 donne e un mistero (8 femmes)
di François Ozon, 2002

Operetta coloratissima che guarda al passato del cinema francese (e non solo), Otto donne è uno strano noir al femminile in cui Ozon, come già aveva fatto (meglio) Resnais prima di lui, inserisce un musical bizzarro e revisionista, per cui i personaggi cominciano a cantare classici della musica d’oltralpe, decontestualizzati e illuminati innaturalmente.

Il gioco è entusiasmante all’inizio, ma lo resta solo fino ad un certo punto. E quando diventa risaputo rimangono comunque i decor voluttuosi, la fotografia pastellata, e le straordinarie performances delle "otto donne". Una più brava del’altra, a voi la scelta: noi qui si adora la Huppert.

E’ abbastanza per divertirsi, e spesso parecchio, con il suo gioco di incastri e menzogne, una rivelazione al minuto e una sorpresa al secondo. Forse non mantiene le promesse dell’ambizione intellettuale che molti hanno visto e adorato, e che è probabilmente alla base del progetto, ma ad un livello più superficiale, ma sì, si difende con gli artigli.

I guardiani della notte (Nochnoy dozor)
di Timur Bekmambetov, 2004

Il bene contro il male, la luce contro il buio, il loro "dinamismo tao" (in ogni luce c’è il buio, eccetera) e il loro equilibrio: masticando tradizione russa, vampirismo esteuropeo, suggestioni eurocentriche e cinema mainstream occidentale, Bekmambetov sputa il primo vero cinema "di massa" della nuova madre russia, il primo simil-bluckbuster ad uscire dalle ceneri dell’ex unione sovietica.

E per quanto si debba scrollare di dosso un po’ di quelle polveri, perché è appunto già tutto visto e rimasticato, tra Tokien e David Goyer, cupe vampe dark e lucide sporcizie videoclippiche, il risultato è tutt’altro che impolverato. Anzi, è sorprendente, soprattutto visti i soldi (pochini) investiti nell’evento. E il successo, probabilmente meritato, mostra che c’era bisogno, domanda, impellenza.

Nochnoy dozor è infatti uno spettacolo di fronte a cui è difficile restare indifferenti, confuso e incasinatissimo ma sempre assolutamente coerente con il macrocosmo creato intorno ai personaggi dal giovane scrittore Sergei Lukyanenko. Tanto rumore per qualcosa, quindi: un sacco di buone trovate (gli specchi, le torce, la donna-civetta), e una manciata di sequenze da antologia che farebbero impallidire Len Wiseman. Ci si muove a fatica, è vero, ma ci si muove velocissimi, a volte frastornati e il più delle volte ammirati dalla capacità di prendere così tante traiettore narrative e riuscire a portarle tutte a termine.

Potrà irritare gli amanti duri-e-puri del cinema d’autore, perché è comunque un movimentato e rumoroso, e perché, diamine, è la terra di Eisenstein e Tarkovsky. Ma Nochnoy è anche l’apertura (intellettuale e commerciale) a un nuovo modo di fare cinema (colà), di cui siamo curiosi, molto curiosi, di vedere gli sviluppi. A partire dal secondo (2006) e dal terzo (2007) capitolo dell’affascinante trilogia dei dozor.

La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud)
di Eric Rohmer, 1969

Le alterne vicende e le estenuanti conversazioni di quattro personaggi, due cattolici e due atei, che si intersecano in pochi giorni nella piccola cittadina di Clermont, dominata dalla sua imponente cattedrale gotica. Una proposta rifiutata e una presa di posizione, e la doppia verità che si nasconde tra di esse, e tra queste due donne, e tra queste due notti speculari. Sotto alle proprie certezze, spazzate via nel finale, l’unico equilibrio possibile è la menzogna. Una doppia bugia.

Un film di parole e sguardi, un’opera da camera (da letto) che si trasforma in un conte moral turbato e maliconico, caldissimo nonostante i cappotti e la condensa, universale nonostante la circoscrizione delle circostanze.

Ci vuole un po’ di pazienza, attenzione e soprattutto molto spirito critico (e autocritico), per amare Ma nuit chez Maud. Perché è un film che nell’apparente semplicità sfida i nervi, e perché pur parlando con un linguaggio "alto" e adatto ai temi, citando Pascal come fosse acqua fresca, cosa ormai rara al cinema, parla delle nostre contraddizioni morali quotidiane, del rapporto tra religione e coscienza. E lo fa con uno sguardo impietoso, secco, attualissimo.

[ oggi ]


The twilight samurai (Tasogare Seibei)
di Yôji Yamada, 2002

"Uccidere un uomo richiede ferocia e un calmo disprezzo della propria vita. E adesso non provo nessuna di queste due cose."

Il film dell’ultrasettantenne Yamada, celebre per l’infinita saga di Tora-san, sembra essere la cosa più lontana da un chambara eiga: Seibei è sì un samurai, e sì un eccezionale spadaccino, ma non è niente più che un piccolo burocrate, per di più di infima casta, per di più vedovo e con madre e due figlie a carico. Così, è costretto a tornare a casa al tramonto (da cui il suo soprannome Tasogare, "crepuscolo") per badare a quel che resta della sua famiglia, rinunciando a quello che gli altri vedono come la vera vita.

Eppure dalla vita di Seibei, che sente i cambiamenti in atto – dovremmo essere all’inizio della restaurazione Meiji – non vivendoli nemmeno in modo tangente, dalla sua vita marginale ma esemplare quanto e più di una tradizionale storia epica di riscossa, scaturisce la vera etica del samurai, sempre caratterizzata dall’acceso contrastro tra la volontà e il potere, tra l’etica e la politica. E alla fine, il momento eroico non sarà quello della riscossa violenta, sottratto all’epos e riempito di sconforto per l’antietica costrizione, bensì il ritorno a casa, alla felicità raggiunta con il sacrificio e con l’umiltà.

Con ferrea coerenza, c’è pochissimo rotear di spade, perché gli interessi in gioco sono ben altri. C’è però uno scontro d’onore in riva al fiume, bellissimo, e soprattutto l’interminabile e strabiliante duello finale: preparato da un dialogo che è la chiave di lettura di tutto il film (oltre che malinconico passaggio di testimone) e caratterizzato da piani lunghissimi e chiaroscuri, è un pezzo da maestro, geniale per il modo con cui il duello stesso si nasconde, negandosi alla vista, dietro le ombre e nel fuoricampo.

Girato con uno stile pianissimo, compassato, di sublime perfezione, costruito intorno a sequenze ben distinte e quasi sempre determinanti (scene-madri i due "rifiuti", l’uno di sposarsi, l’altro di uccidere) e narrato dalla voce di una delle figlie, ormai anziana, sulla tomba del padre, The Twilight Samurai è un film complesso e prezioso, un gioiello testamentario che ha conquistato l’Academy giapponese (ben 13 Japan Academy Awards), quella americana (candidato straniero nel 2004, battuto da Arcand) e il pubblico del Far East Festival di Udine (Audience award nel 2004), e che in Italia non è nemmeno uscito nelle sale.

Però, almeno è disponibile da non molto in Italia, in DVD a pochi euro, grazie alla provvidenziale Dolmen. Si può acquistare, tra gli altri, su Thrauma.

Consigliata la lettura del bellissimo articolo di Vincenzo Sangiorgio su Cinemavvenire, e quello del sempre ottimo Stefano Locati su Asiaexpress.

[revisionismo]

Note
di solito non scrivo niente in questo tipo di post, ma faccio un’eccezione, perché:

- l’ho visto per la prima volta nella versione uncut, e quindi si può tranquillamente e puristicamente dire che è stata questa la mia prima vera visione;
- questa volta mi sono concentrato più sulle dialettiche padre-figlio che non su quelle sado-maso, trovandole persino, se possibile, più riuscite;
- il vecchio post, giovanerrimo, fa schifo;
- il finale continua a lasciarmi esterrefatto, ammirato e confuso, e so che alla gente piace discuterne e litigarci su;
- voglio sottolineare la bellezza dello screenshot che ho scelto;
- è un film eccezionale, e come tale merita eccezioni.

1/2 mensch
di Sogo Ishii, 1986

Una discarica di tonnellate di metallo non-più-urlante lasciato là e abbandonato, rifiuto vomitato dalla nostra civiltà. All’improvviso una goccia di sangue scende dalle lamiere, cadendo a terra. Con questa immagine si apre 1/2 mensch, formidabile "documentario" sugli Einstürzende Neubauten, girato dal futuro regista di Electric dragon 80.000v e Gojoe, in occasione del tour nipponico del gruppo berlinese. Ed è un immagine che coglie subito e alla perfezione, oltre che l’anima che muove un simile progetto – l’interesse di Ishii, simile a quello di Tsukamoto, per la civiltà industriale – anche l’anima stessa della band tedesca: ridare sangue, pulsazioni, vita, all’inorganico e all’immateriale.

Più cinetrip che backstage, più videoart che videoclip. E poi, gli Einstürzende Neubauten. Da possedere, ad ogni costo.
 
Ora, io certe cose, si sa, le mastico poco, e quindi, detta la mia, ho invitato un gradito ospite: Gas, brillante semiologo, appassionato musicologo, e illuminante scrittore.
Insomma, per una volta, passo il testimone.




Tra due e trecento parole i due amanti si lasciano a porconi; x esce sbattendo la porta, volutamente. Il riflesso percussivo dello stipite obnubila la funzione di chiusura. È rumore, ben più significativo di un’onomatopea. Il linguaggio arranca quando ci si vuole avvicinare: il rumore è sempre più forte; se fossi uno di quelli che usano espressioni del tipo “eterno femminino” (d’ora in poi: EF), direi che va drit… ma non uso certe espressioni punto stimolanti per voi freak.
La violenza, dal canto suo (y), va ponderata: senza il calcolo, potrebbe rischiare di non fare del male davvero. Sarebbe uno spreco di intelligenza.
I dati del problema: (i) le operazioni; (ii) quel che può capitare a tiro in una società industriale, dal trapano alla forbicina per i peli del naso al martello pneumatico ai musicisti; (iii) nella musica industriale ogni pre-testo oggettifero (ogni oggetto che capita di vedere in un cantiere o in una fabbrica dismessa) diventa testo; (iv) nella musica industriale i musicisti vanno annoverati – termine ad uso dei servizi di sport – tra gli strumenti, e se non lo fanno – cioè se non diventano violenza ponderata – che vadano a suonare rockabilly – e non facciano finta di essere manco mezzi uomini né caporali.
Questo audiovisivo cerca e trova un piano di traduzione – unico corteggiamento possibile – tra se stesso, il cinema e la musica. Visto col jeune-cinefilo che sbava è poi un’autentica soddisfazione (espressione EF). Abbiamo sbavato insieme. Il corteggiamento è riuscito.
(La porta andrà su di un palco giappo-cino a fare del rumore, legalizzata dalla società industriale a scassarsi.)

Ridere per ridere (The Kentucky Fried movie)
di John Landis, 1977

"The popcorn you are eating has been pissed in. More at eleven."

Il secondo film di Landis, scritto da Jim Abrahams e dai due fratelli Zucker (il "Kentucky Fried Theatre"), è un’irriverente e incontrollata satira della televisione americana, della zapping-mania e del cinema di genere. Fatto con due soldi ma terribilmente innovatore (e un enorme successo ai suoi tempi), è uno dei prototipi, se non il prototipo, del cinema demenziale americano. Che sfocerà poi se vogliamo in cose migliori, e in veri (o mezzi) capolavori, ma questi ultimi partono direttamente da qui: Animal House e The Blues Brothers per il regista, Airplane! e Top secret! per gli sceneggiatori.

Mezz’ora all’inizio e altrettanto alla fine di sketch sanamente volgari, scorrettissimi, e illuminatamente idioti: finte trasmissioni (tra cui un contenitore mattutino con un gorilla impazzito e astrologhe fiocinate), una manciata di incredibili telegiornali-lampo, finte pubblicità (assolutamente geniali il monopoly ispirato all’omicidio di Dallas e lo spot degli "amici della morte"), e soprattutto trailer fittizi che prendono bonariamente in giro il cinema "exploitation" di quegli anni: un erotico post-deepthroat, un catastrofico "a la Irwin Allen" con Donald Sutherland nel ruolo del cameriere imbranato (!), un ghetto-blaxpoitation Coffy-style ma con protagonista un rabbino.

In mezzo a tutto questo pandemonio, un lungo spoof dei film di Bruce Lee con Evan Kim nel ruolo dell’eroico protagonista che, nella sua mezz’ora circa, rallenta decisamente il ritmo e fa sentire un po’ troppo il peso degli anni, o almeno più del resto. Nonostante ciò, il malvagio dottor Klahn con la mano intercambiabile e i microfoni sparsi per la stanza fanno ancora tenere stretta la pancia con le mani.

La sequenza del cinema "feel-around", dove maschere inespressive fanno "sentire" il film agli spettatori, ha fatto scuola, ma le risate più incontrollate (per quanto mi riguarda) vengono dal finto talk-show "Grandi avventure", con la giraffa impazzita che diventa un fonendoscopio, dal folle "Giorno in pretura", e dal finale in cui i tre autori, in guisa di fonici, spiano infoiatissimi dallo schermo della tv una coppietta che fa sesso davanti al telegiornale.

Landis ci ha pure riprovato qualche anno dopo prima con l’aiuto di Joe Dante e altri, ma era un periodaccio (per i fatti di Twilight zone), e il risultato fu Donne amazzoni sulla luna, che, per quanto spassoso, non era all’altezza dei nomi coinvolti, nè tantomeno del suo illustre predecessore.

L’edizione italiana non è facile da rintracciare, ma è acquistabile da IBS. Se siete anglofoni, potete comprarlo a un prezzo davvero imbarazzante su Play.com.

La damigella d’onore (La demoiselle d’honneur)
di Claude Chabrol, 2004

"Cambia zona!"

Chabrol adatta un romanzo di Ruth Rendell, la stessa autrice del bellissimo La cérémonie: il risultato è un melodramma raffreddato e asettico, la storia di un amore inevitabile e folle, un noir tenuto sotterraneo come l’appartamento di Senta e bisbigliato come le piccole bugie di Philippe, girato con cura certosina, e costruito con grande intelligenza su schegge di sceneggiatura che vagano impazzite nella prima parte, per poi tornare a ricomporsi fino alla perfetta circolarità del finale.

Niente di cui innamorarsi perdutamente (tranne di Laura Smet, figlia di Johnny Hallyday: brava, bella e inquietante), ma comunque un buon film, una bella boccata d’aria che turba senza bisogno di urlare o strafare, che sa parlare dei rapporti tra uomini e donne (e del potere del denaro, presente in modo quasi ossessivo) tenendo anche in tensione i nervi, con molte inaspettati pennellate di ironia (come l’incontro con il barbone al parco), e che lascia un piacevole sapore amaro (e romantico) in bocca.

Benoît Magimel ha due espressioni: disinvolto e perplesso.