ottobre 2005

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Dear wendy
di Thomas Vinterberg, 2005

I "dandies" sono un gruppo di ragazzini che, stanchi della paranoia "americana" che avvolge la loro storicista piazza-città-mondo, si chiudono in una vecchia miniera ad amare e venerare una manciata di pistole-feticci, con tanto di regole iniziatiche e rituali matrimoniali. E va bene che è tutta una metafora, o meglio una sineddoche, ma che diavolo di pratiche di immedesimazione ci sono in campo qui? Chi sono questi eroi imbecilli, che venerano e muoiono per un paradossale principio "pacifista"?

Von Trier scrive una specie di protesi di Dogville (riciclando anche un paio di idee grafiche) ma con ben altri risultati, e dimostra ancora una volta di non avere un briciolo di misura, nè una concezione della differenza tra l’idea morale e la provocazione fine a se stessa, dondolando tra il ridicolo e l’indigesto. A questo punto non sappiamo più se essere così ansioni per l’imminenza di Manderlay

Dal canto suo Vinterberg, che in Festen aveva dimostrato una capacità di turbare gli animi con ben pochi elementi e con una scrittura feroce, qui, sebbene abbia tra le mani un’idea forte, una sceneggiatura "d’autore" e una splendida fotografia (il poco che rimane, insieme alla colonna sonora e al cast: peccato) fa un mezzo disastro, riuscendo solo a infilare strazi come la scena della "pistola traditrice" o le "presentazioni grafiche" dei personaggi, con una noia scricchiolante e arrugginita che rende Dear Wendy insopportabile (e non sgradevole, ahinoi!) dopo una mezz’oretta.

Bubba ho-tep
di Don Coscarelli, 2002

Elvis è vivo, si è scambiato con uno dei suoi tanti sosia, ed ora è nel letto di un’ospizio con l’anca rotta e un cancro al pene. Si ricorda dei vecchi tempi, e attende la morte senza rassegnarsi. Anche JFK è vivo, ma Lindon Johnson l’ha colorato di nero e l’ha relegato nello stesso ospizio. Purtroppo, anche una mummia egizia si è risvegliata e minaccia di succhiare l’anima degli ospiti della casa di riposo. Chi salverà la situazione? "Let’s take care of business…. T.C.B., baby"!

Con una trama del genere, non può che uscire che un "cult-movie". Poi bisogna vedere se il film è all’altezza del ruolo, a prescindere dall’etichetta. Pronta risposta: l’ultimo film del regista della saga di Phantasm, pur essendo sulla carta uno dei film più folli e insensati mai sentiti, ha una strana coerenza interna (semiserio quando rischia di diventare parodistico, finale escluso, persino evocativo e malinconico quando non, più grevemente, divertito) che gli permette di non trasformarsi mai in una cretinata, diventando anzi quello che probabilmente si prefiggeva di essere: un gran divertimento, e una riflessione originale e dolceamara sulla vecchiaia e sulla morte.

Davvero bravo Coscarelli nello sfruttare (molti flashback a parte) un solo set, ed estremamente spoglio. Bruce "Ash" Campbell è insospettatamente enorme, più che nell’imitare Elvis, nell’ interpretarlo (cosa ben diversa), e Ossie Davis, purtroppo scomparso di recente, è semplicemente uno spasso.

Un film ancora da scoprire, più che da recuperare, vista la cecità dei distributori italiani che probabilmente (e/o nonostante il passaggio a Ravenna un anno esatto fa) non sanno nemmeno della sua esistenza: stolti. In Francia esce tra un mese, direttamente in DVD: incrociate le dita.

Tra le tante offerte, la copia inglese del dvd si può acquistare ad un prezzo ridicolo su questo sito.

Tetsuo
di Shinya Tsukamoto, 1988

Il primo lungometraggio di Tsukamoto, e probabilmente il suo capolavoro: un delirante miscuglio di musica industrial, perversioni feticiste, visioni urbane distorte, poetica cyberpunk. Un trattato insuperato sulla civiltà postindustriale, sulla morte della carne e sul trionfo della disorganicità.

La città elettrica si avvolge intorno all’uomo soffocandolo e, attraverso l’epifania di un ubermensch duale con talloni di scappamento e un enorme pene a trivella, prepara l’avvento di una nuova apocalisse di metallo e sangue.

Ci vuole fegato, stomaco, resistenza allo shock e volontà ferrea, ma Tetsuo è uno dei film più decisivi e importanti degli ultimi vent’anni.

Festen
di Thomas Vinterberg, 1998

Un feroce e ironico attacco alle istituzioni borghesi, dove il compleanno di un industriale (per di più massone) diventa lo svelamento dei "segreti e bugie" nascosti sotto la facciata pulita delle occasioni mondane e familiari, e, con l’aiuto della lotta di classe (il figlio viene aiutato dall’intero staff dell’hotel dove si svolge il compleanno) diventa l’occasione per mostrare l’ipocrisia di una società che, anche di fronte ai traumi e ai delitti, non smette di mascherarsi con le risate false, le tradizioni svuotate di senso, i meschini balli di gruppo.

Lucidissimo e perturbante, il primo film prodotto sotto le ferree regole del "Dogma 95" di Lars Von Trier e soci (di cui qualche mese fa è stato decretato il funerale) è una "règle du jeu" senza peli sulla lingua che colpisce agli organi vitali: impossibile rimanere freddi durante il primo discorso del figlio al tavolo ("mio padre è una persona molto pulita, si lavava sempre").

Resta comunque l’ipotesi che il Dogma stesso, nella sua forma pura, non sia essenziale all’opera: Festen sarebbe stato un gran bel film anche senza l’esclusione della musica intradiegetica e dell’intervento postproduttivo? (Se lo chiede uno che il Dogma, come concetto, non l’ha mai sopportato, ed è quindi un giudizio di parte.) Ammetto però che in questo caso le "regole" aiutano a sottolineare il caos inesploso sotteso ai triti rituali della nostra società, e quindi per una volta sono ben accette.

Gran lavoro del fotografo Anthony Dot Mantle, uno che con il digitale (28 giorni dopo, Dogville) fa miracoli.

C’è pure un blog il cui titolo ha tratto ispirazione da questo film, peraltro più che meritevole di link. Buona lettura.

Le avventure del ragazzo del palo elettrico (Denchu Kozo no boken)
di Shinya Tsukamoto, 1987

Un ragazzino, deriso da tutti per via del palo elettrico che gli spunta dalla schiena, viene risucchiato nel tempo fino ad un futuro terrificante dominato dalla setta di vampiri Shinsengumi, dove una solitaria ex-professoressa che vive immersa nei propri ricordi (con un album fotografico sempre legato sulla testa) gli chiederà in nome di un’oscura profezia di diventare un eroe e di salvare il pianeta.

Da una bizzarra storia manga-cyberpunk-postatomica con non pochi riferimenti alla storia giapponese recente e non (gli Shinsengumi erano i samurai-poliziotti che difendevano Kyoto nella seconda metà dell’800), mescolando racconto popolare, horror estremo e audaci sperimentazioni visive, Tsukamoto Shinya, in 45 minuti "poverissimi" ma di immensa creatività visiva e narrativa (con paradossi spaziotemporali che si mangiano Terminator a merenda), fa le prove ufficiali per Tetsuo: lo stop-motion assunto a forma d’arte, i corpi che si muovono nello spazio, i corpi stessi che si fondono alle macchine, i fili elettrici e la carne che diventano una cosa sola.

Le radici di un genio, già ben visibili fuori dal terreno: assolutamente imperdibile.

Approfitto per linkare la scheda di enrico ghezzi, quantomai ghezziana, del bel cofanetto Rarovideo all’interno del quale è contenuto Denchu Kozo no boken.

Bangkok loco (Tawan young wan yoo)
di Pornchai Hongrattanaporn, 2004

Come si può solo concepire una pellicola che è allo stesso tempo un film di arti marziali, un thriller comico e un musical kitsch? Questo conferma la vitalità della cinematografia thailandese che, se pur non produce capolavori (ancora, e almeno per quanto ho visto), ha dalla sua una libertà espressiva che altrove si trova ormai di rado. Bangkok loco è, a tutti gli effetti, una cretinata. Ok. E mettetelo lì, da parte. Però nel concepirlo, l’innominabile regista ha dimostrato con talento e spregiudicatezza che a volte quello che importa è la coerenza tra idee e azione.

E così, dimentichiamo la stupidità del concetto, e ci tuffiamo volentieri in un iperattivo trip demenziale, tra maestri divini e ringostarr infernali, effetti digitali impensabili, piccoli batteristi con tutine da brucelee, canzoni di commovenza infettiva, stregonerie proiettive, prati blu e enormi labbra rosa, aspiranti suicidi illuminati, una tremenda – nel bene – scena di sesso "a tema", e un commissario-panda con un cagnolino dal fiuto incredibile. Divertentissimo l’inseguimento al Luna Park, ma anche la lunga sequenza iniziale, con il bagno di sangue e la fuga nei vicoli, titoli di testa inclusi, è da capogiro. Tanto più se si pensa che Don stava nella stanza accanto.

Ovvio duello terminale bene vs. male esplosivo, e un finale tra i più assurdi immaginabili: che boiata, mio dio, ma che risate.

Il trend di questo film l’ha lanciato Ohdaesu qui. Si attendono altre vittime illustri.

Pee wee’s big adventure
di Tim Burton, 1985

Pee wee Herman è un ometto assurdo e solitario, infantile e sessuofobo, vestito di grigio con un tremendo papillon rosso, che vive immerso nei giocattoli, parla come un bambino scemo e venera la sua bici super-accessoriata (viene rubata, lui la cerca: il plot è tutto qui, l’avete mai sentito?); capace però, dopo un primo acchito quasi sempre disastroso, di attirare le simpatie della gente (nonostante sia impietoso nei confronti della gente del Southwest) e di cambiare la loro vita con la sua indecifrabile e surreale ingenuità.

Reubens, che aveva reso famoso Pee-wee sulla televisione statunitense, chiamò il suo amico Tim Burton a dirigere il film: questo fu il suo primo lungometraggio. E quale materiale migliore per il giovane regista: temi e situazioni "simili" a quelle che porterà avanti per tutta la sua carriera, città colorate con i pastelloni, e un personaggio che più burtoniano non si può.

Difficile amare incondizionatamente il film, e almeno in parte difficile persino sopportarlo: Reubens ha una parlantina che dà ai nervi peggio del Pinocchio di Benigni. Ma il suo Pee-wee è talmente cretino e cattivo che dopo la raggiunta saturazione nervosa arrivano pure le risate: dulcis in fundo, una divertita demolizione degli studi di Hollywood. E la regia di Burton è comunque molto più che "all’altezza", coloratissima e fluida, sorprendente per un’esordiente, e rende miracolosamente piacevole un film che sta in piedi con lo sputo.

Dopo che nel 1991 la polizia sgamò Reubens a masturbarsi in un cinema porno distruggendo la sua carriera e scindendo (dolorosamente, immagino) per sempre Reubens dal suo alter-ego, Burton richiamò Reubens a lavorare con lui. Ce lo ricordiamo tutti, mentre getta dal ponte il suo piccolo figlio-pinguino, a Gotham city.

Tarnation
di Jonathan Caouette, 2003

Mettete insieme le foto di quando eravate bambini, le foto dei vostri genitori e dei vostri nonni, i filmati in super8 di quando eravate piccoli e quelli più recenti, i messaggi della vostra segreteria telefonica, le fototessere, e tutto il materiale che abbia testimoniato la vostra esistenza dalla vostra nascita, e raccontate la vostra storia montando il tutto con il sofware più semplice e intuitivo (e meno professionale) presente sul mercato. Difficilmente otterrete un film.

Per questo Jonathan Caouette è stato formidabile, così come lo è il suo Tarnation: perché ha trasformato un’autobiografia spezzettata e autoprodotta nella propria stanza con pochi dollari e un computer in un film straordinario, che rivoluziona in potenza gli statuti di produzione e di realizzazione del cinema, persino quelli "indie" a cui Tarnation appartiene dalla sua "resa pubblica", anche vista la presenza di Van Sant e John Cameron Mitchell a fare da numi tutelari (ma solo ex post).

Tarnation, viaggio all’interno di una psiche cresciuta nell’assenza di figure genitoriali, segnata dalle molestie ma orgogliosa della propria diversità, è un’autoanalisi coraggiosa e profonda che intreccia la riflessione dell’autore sulla propria sessualità con il rapporto dello stesso con la madre Renee, ex baby-modella vittima di una vita di elettroshock e ricoveri ospedalieri, con la sua voglia di fuggire che si trasforma poi in voglia di tornare alle radici e cercare, quanto possibile, le risposte alla domanda essenziale: cosa mi ha portato ad essere quello che sono e sono stato, nel bene e nel male.

Tenerissimo e scioccante al tempo stesso, travolgente e audace nella rappresentazione estetica proprio grazie alla libertà con cui è stato prodotto, con una splendida colonna sonora, Tarnation è un esempio fertile per il cinema contemporaneo, un punto di partenza finora unico, ma anche semplicemente uno struggente e bellissimo racconto di formazione, di fuga, di paura, d’amore.

Accolto ovunque con entusiasmo, dopo il passaggio al Biografilm di Bologna lo vedremo ancora in Italia solo a Mikado piacendo. Eh, siamo anche un po’ stufi di aspettare.

Vivamente consigliato il commento di Topo Modesto, e quello di Paola Romagnani su Cinemavvenire.

My best friend’s birthday
di Quentin Tarantino, 1987

Quello che avrebbe dovuto essere il primo film di Quentin Tarantino è in realtà quello che ne rimane dopo la distruzione in un incendio dell’ultimo rullo. Rimangono una quarantina scarsa di minuti assolutamente "tarantinani". E stavolta il termine passa facilmente.

L’idea portante della vicenda, in realtà assai confusa, è la stessa alla base di Una vita al massimo, scritto successivamente da Tarantino e diretto (purtroppo?) da Tony Scott: Clarence (qui lo stesso gigioneggiante Tarantino – mentre il nome diventerà quello del protagonista di True Romance) regala al suo miglior amico Mickey, deluso in amore, la prostituta Misty per il suo compleanno.

Sarebbe troppo ingentile demolire il suo primo non-film perché, nonostante il risultato di anni di lavorazione sia alquanto grezzo e under-underground, e non si sappia dove voglia andare a parare, si intravedono già delle ottime idee di regia (il piano-sequenza circolare intorno al tavolo da biliardo, Misty che prova le posizioni con cui presentarsi a Mickey) e soprattutto molti spunti che successivamente diventeranno pervasivi nel suo cinema successivo: le ossessioni musicali (come la musica surf e rockabilly) e soprattutto quelle cinematografiche: qui "Vestito per uccidere" di De Palma, protagonista di un lungo dialogo, ma anche la blaxpoitation, con il protettore vendicativo che entra in scena urlando "Your ass is grass and I’m your lawnmower!".

Più che altro, un oggetto interessante su un piano filologico. Ma a tratti molto divertente, soprattutto per merito (ovviamente) dei dialoghi spassosi e delle situazioni grottesche: come Clarence che tira di coca durante una diretta radiofonica (su radio K-Billy, peraltro!) o il kung fu con uno scopettone come arma, il dialogo in cui Clarence e Misty si accordano sul prezzo ("I’m not a whore, I’m a call-girl") o quello con il barista su Elvis Presley e Marlon Brando: "I’m not a fag, but If I had to fuck a guy… you know, if I had, if my life depended on it… I’d fuck Elvis".