dicembre 2005

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[il classificone 2005]

1. Oldboy di Park Chan-Wook
2. La samaritana di Kim Ki-Duk
3. La sposa cadavere di Tim Burton

4. Kung Fusion di Stephen Chow
5. Il castello errante di Howl di Hayao Miyazaki
6. Million dollar baby di Clint Eastwood
7. A history of violence di David Cronenberg
8. Steamboy di Katsuhiro Otomo
9. Niente da nascondere di Michael Haneke

10. King Kong di Peter Jackson
11. Il gusto dell’anguria di Tsai Ming-Liang
12. La fabbrica di cioccolato di Tim Burton
13. Breaking news di Johnnie To
14. Clean di Olivier Assayas
15. Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber
16. Private di Saverio Costanzo
17. The aviator di Martin Scorsese
18. The descent di Neil Marshall
19. Mysterious skin di Gregg Araki
20. La terra dei morti viventi di George Romero
21. L’enfant di Jean-Pierre e Luc Dardenne
22. Tokyo godfathers di Kon Satoshi
23. La guerra dei mondi di Steven Spielberg
24. Un silenzio particolare di Stefano Rulli
25. Una lunga domenica di passioni di Jean-Pierre Jeunet

Sin city di Robert Rodriguez
Guida galattica per autostoppisti di Garth Jennings
La mia vita a Garden State di Zach Braff
Le avventure acquatiche di Steve Zissou di Wes Anderson
Batman begins di Christopher Nolan
Good night, and good luck di George Clooney
Harry Potter e il calice di fuoco di Mike Newell
Manderlay di Lars Von Trier
Spongebob – Il film di Stephen Hillenburg
Romanzo criminale di Michele Placido
Crimen perfecto di Alex de la Iglesia
Tutti i battiti del mio cuore di Jacques Audiard
Dark water di Walter Salles
I fratelli Grimm di Terry Gilliam
La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou
Oliver Twist di Roman Polanski
I guardiani della notte di Timur Bekmambetov
Team America: World Police di Trey Parker
L’arco di Kim Ki-duk
La marcia dei pinguini di Luc Jacquet
Seven swords di Tsui Hark
Saw – L’enigmista di James Wan
La damigella d’onore di Claude Chabrol
Lemony snicket – Una serie di sfortunati eventi di Brad Silberling
Tartarughe sul dorso di Stefano Pasetto
Passaggi di tempo di Gianfranco Cabiddu

Star Wars 3 – La vendetta dei Sith di George Lucas
Ingannevole e il cuore più di ogni cosa di Asia Argento
La vita è un miracolo di Emir Kusturica  
Assault on precint 13 di Jean-Francois Richet
The interpreter di Sidney Pollack
Alexander di Oliver Stone
Super size me di Morgan Spurlock
Sideways di Alexander Payne
Crash – Contatto fisico di Paul Haggis
Sword in the moon di Kim Ui-seok
Broken flowers di Jim Jarmusch
Quo vadis, baby? di Gabriele Salvatores
Cuore sacro di Ferzan Ozpetek
Mr and Mrs Smith di Doug Liman
In good company di Paul Weitz
Constantine di Francis Lawrence
I heart Huckabees di David O. Russel
Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana

Lord of war di Andrew Niccol
Natural city di Min Byung-chun
The iron ladies di Youngyooth Thongkonthun
La fiera della vanità di Mira Nair
Last days di Gus Van Sant
Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti
La febbre di Alessandro d’Alatri
Robots di Chris Wedge
Mary di Abel Ferrara
Dear Wendy di Thomas Vinterberg
Millions di Danny Boyle

Elizabethtown di Cameron Crowe
Shark tale di Bibo Bergeron, Vicky Jenson e Rob Letterman
La morte sospesa di Kevin MacDonald
My summer of love di Pawel Pavlikowsky
Neverland di Marc Forster
La tigre e la neve di Roberto Benigni
Madagascar di Eric Darnell e Eric McGrath

Le avventure di Sharkboy e Lavagirl di Robert Rodriguez
Willard il paranoico di Glen Morgan
La maschera di cera di Jaume Collet-Serra
Returner di Takashi Yamazaki

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NOTE
- nello stilare il classificone mi sono basato sul sistema della connection, quindi sui miei "voti" dati durante l’anno.

- nonostante ciò, qualche "voto" è cambiato con il passare del tempo, e così anche la posizione.

- ho colto l’occasione per dare una ritoccata al classificone 2004, che dopo un anno aveva bisogno di una regolata.



Ci rivediamo nel Gennaio del 2006, sempre qui.


Buon anno, e grazie a tutti!

A dirty shame
di John Waters, 2004

L’ultimo film del regista definito "il Papa del trash" da William Borroughs, uno dei massimi esponenti della controcultura cinematografica degli anni ’70 (ma non solo), è uscito negli Stati Uniti più di un anno fa, riscontrando pareri negativi e/o freddi e/o scandalizzati da parte di critica e pubblico. E nonostante alcuni degli ultimi film di Waters abbiano trovato un qualche tipo di distribuzione in Italia (penso a Pecker, o a A morte Hollywood, opere forse trascurabili), non c’è ancora traccia di A dirty shame nei piani dei distributori italiani.

Non è difficile comprenderne la ragione: Waters con questo film ritorna al modo di fare cinema per cui è celebre. Non nella forma, che è lucidata dall’esperienza degli anni ’90 con cast e crew di primo livello, bensì nei temi e nei toni. A dirty shame parte, che parte dalle basi del Crash di Ballard e finisce come una lussuriosa invasione di ultra-corpi-desideranti, è volgare e faceto, con un doppio senso ogni due battute, è liberamente oltraggioso e oltremodo anale, è un film che si tiene sempre e solo sul registro più basso, quello delle pulsioni sessuali e delle pratiche erotiche.

Il risultato è una bella sarabanda erotofila, davvero senza freni: sta al senso del pubblico pudore di ciascuno se andare oltre alle mille provocazioni per vedere quel che c’è sotto. Perché se A dirty shame è semplicista e manicheista, in senso molto watersiano (il bigottismo provinciale di Baltimora sovvertito dalla libertà sessuale e dai "diversi"), non si può negare che – superato qualche shock e qualche risata molto grassa – sia uno spasso incredibile. Grazie a un cast divertito e divertente (il film sarebbe davvero impossibile da doppiare), a situazioni yeuch-pop e weirdo-surrealiste, ad accostamenti assurdi e incontrollati, ai geniali filmati d’archivio a simboleggiare lo status sessuale (à la Gerard Damiano).

Ma se potrebbe sembrare semplicemente come un giochino (mezzo) anarchico fine a se stesso oltre che svicolato da ogni sana struttura cinematografica (sempre detto che sia un male, è forse non lo è), questo è soprattutto un sogno, l’ultimo sogno di un sessantenne che sognava la rivoluzione sessuale e non l’ha mai vista realizzata. E così, portandosi dietro la solita manciata di canzonette della sua infanzia (quelle che sotto sotto parlano proprio sempre di peni e di vagine), Waters trasforma il film in un viaggio lisergico e onirico nella mente di un maniaco sessuale mai pacato, di un poeta della protesi che, per una volta, lascia da parte ogni "sporca vergogna" e guida il suo esercito di infoiati e ninfomani alla conquista del mondo.

E proprio come in tutti i film porno che si rispettino, il finale è proprio quello. Un’eiaculazione digitale, dritta dritta verso il cielo e poi giù fino a colpire, schiaffo spermatico!, i nostri occhi a schermo.

Una notte all’opera (A night at the opera)
di Sam Wood, 1935

Se a Natale si riceve, tra i doni più graditi, un simile oggetto, come resistere alla tentazione di riguardare A night at the opera, uno dei massimi capolavori del cinema comico di tutti i tempi?

Il primo film del periodo MGM dei fratelli Marx, quando Thalberg li portò via dalla Paramount e dalla meravigliosa sgangheratezza del loro capolavoro-flop Duck Soup, imbrigliando – ma solo apparentemente – la loro anarchia giocosa, panica e sovversiva all’interno di una placida storia d’amore, è un film sublime, perfetto: dopo settant’anni ci ritroviamo a ridere come matti per una minuscola cabina stipata di gente indaffarata. Perché la comicità è un’alchimia eterna, e i fratelli Marx ne avevano la formula.

Inutile citare questa e quell’altra scena: ce n’è a quintali. Spero solo di avervi fatto venire voglia di riprenderlo in mano: è il mio regalo di natale. E comunque sia, basta che Groucho apra bocca e io rido.

E tu vivrai nel terrore – L’aldilà
di Lucio Fulci, 1981

Basta leggere un po’ in giro per il web (e non solo) per accorgersi che L’aldilà è probabilmente l’horror più amato dai fan di Fulci. E non solo. Perché è vero che, un quarto di secolo dopo, gli splendidi pupazzi di Germano Natali hanno fatto il loro tempo, così come la base narrativa e iconografica del film. Ma è vero anche che L’aldilà è un film che mostra una libertà espressiva e una spregiudicatezza rappresentativa che ai nostri tempi sarebbero impensabili.

Così il film non è solo capace di finezze visionarie come la splendida scena dell’autostrada deserta, o la fuga – e la morte – di Emily, o il finale mefitico e sospeso nella nebbia, che sono poi le cifre che si contano per elevare questo film sopra la media del suo genere. La sua forza è anche la visione della morte, che viene portata sempre un passo più in là di quanto sia usuale, o sopportabile. Artigiano dal talento sintomatico, Fulci trasporta sullo schermo un vero inferno di sangue, carne e liquidi corporei, inserito che sia nel biancore di una sala obituaria oppure nei sotterranei melmosi di un albergo in rovina. Ed è difficile non distogliere lo sguardo, in alcuni punti.

Il suo esempio, quando è stato seguito, è stato spesso banalizzato, creando molto brutto horror anni ’80. Qui era invece corrosivo e potente, come la lisciva che scioglie i corpi lasciando solo un rimasuglio quasi umano, pronto per l’eterno dolore. Un film che pur mostrando i suoi molti limiti (e non è questione d’età), lo fa con una sincerità e una schiettezza che manca al cinema di genere (non solo italiano, che non esiste quasi più) da troppi anni, e che provoca persino stupore.

Cinzia Monreale con gli occhi bianchi è una presenza orrorifica quasi fatata, ma il meglio lo danno i famelici ragni che si mangiano, non senza una discreta avidità, il faccione di Michele Mirabella.

[I wanna live again...]

Buon natale a tutti.

Masters of horror #1.07
Deer woman
di John Landis, 2005

Vista la ghiotta occasione di ritornare a fare un film con una certa libertà, Landis decide di fare un passo indietro e, scrivendo la sceneggiatura insieme al figlio ventenne, riguarda a Un lupo mannaro americano a Londra. Deer woman infatti non è solamente un film nel cui universo (nel cui "mondo possibile", direbbe Eco, almeno credo) i fatti di Londra sono noti fatti di cronaca – di cui si parla (per i fan è una pacchia) – ma è anche un film che rispetta (o cerca di rispettare) quello stesso spirito mai replicato, quel misto di horror, commedia, e realismo, che era l’anima del film dell’81.

Spostando magari il baricentro di più sul lato comico che su quello orrorifico, che nel celebre film si amalgamavano miracolosamente senza scadere mai nella parodia. Ma il risultato non è mai fastidioso: il respiro televisivo si senta quanto negli altri episodi, ma è girato molto bene; spaventa abbastanza, nonostante le pretese horror siano ribassate; gioca bene sugli stereotipi, coma la coppia di poliziotti black & white, e sul sadismo; mette in scena una donna-cervo dalle sembianze di Cinthia Moura, che scalza la Lowndes di Hooper dalla vetta di "più topa della serie"; e soprattutto fa ridere di brutto.

La sequenza in cui il protagonista, sdraiato sul letto, immagina come siano potuti andare gli eventi e scarta le ipotesi più demenziali, non solo è da mal di pancia, per i tempi comici incredibili e inusuali, ma mostra chiaramente che Landis non si è del tutto rincoglionito come credevamo. Continuiamo a volergli bene, anche perché Deer woman fa venir voglia di una seconda visione praticamente già dopo mezz’oretta.

Jay e Silent Bob… fermate Hollywood! (Jay and Silent Bob strike back)
di Kevin Smith, 2001

Stupido e volgare, ignorante e insensato, dotato della peggiore forma di anarchia cinematografica (quella senza un vero progetto), affronta la parodia con banalità (come le ladre di gioielli che guastano il colpo con una scorreggia), colpisce quasi solo basso e "giocando con la cacca", e soprattutto gira solo intorno a se stesso e al microuniverso dei film di Smith (si capisce qualcosa a patto di averli visti tutti) in un’autoreferenzialità che fa girare la testa.

Ma non per fare l’avvocato del diavolo: io mi sono divertito come un matto. Jay che si immagina l’avvento del nuovo pianeta delle scimmie? La versione perversa di Scooby Doo? Gus Van Sant che sul set di Will Hunting 2 conta distrattamente i soldi? Mark Hamill conciato come un cattivo di Rodriguez con spada laser? Poi, se vogliamo vederci un attacco anarchico all’industria hollywoodiana, via, non prendiamoci in giro: il film è prodotto dalla Miramax, il massimo che fa Smith è sputare nel piatto dove mangia.

I camei continui e a volte micidiali (Wes Craven sul set con Shannen Doherty – mutuo scambio con il cameo di Jay e Bob in Scream 3 – o Carrie Fisher vestita da suora vittima di un tentativo di cunnilingus) sono la dimostrazione che questo è il film che Smith avrebbe sempre desiderato fare, e che per qualche misterioso motivo gli hanno fatto fare. Beh, fortuna sua.

E suvvia, è Natale, siamo tutti più buoni. In fondo, ci siamo sganasciati. In fondo, come Clerks, anche JASBSB è solo un filmetto tra amici. Peccato che sia costato 20 milioni di dollari.

King Kong
di Peter Jackson, 2005

Cima dell’Empire State Building, prime luci del mattino. Kong, mastodontico gorilla portato nella grande mela dalla ybris di un regista senza scrupoli, è stato ferito a morte dagli spari degli aerei. Kong dà un’ultimo sguardo alla sua amata, biondissima, Ann Darrow. Il suo capo si china, gli occhi sono lucidi, il volto si appoggia per l’ultima volta al ferro del grattacielo, e il corpo cade. Poi, l’incontro con un amore normale – dopo una titubanza che sembra lo scoprimento di un tradimento – che ora sembra tanto mostruoso, e la battuta che tutti conosciamo. E’ stata la bella a uccidere la bestia. Ma che meraviglia.

E prima c’era il duello tra Kong, più Donkey che King, contro tre T-Rex, sulle liane. Allegra buffonata, ma che faceva venire la pelle d’oca. E prima ancora, l’incontro con un muro alto venti metri, dietro la nebbia, che terrorizza come e più di un horror. E prima ancora, prima di tutto, un balletto colorato e inusuale, con l’immagine di una città le cui devastazioni della depressione sono cancellate dalla voce di Al Jonson. Questo King Kong è davvero pieno di emozioni, di stimoli, di idee. Ripensiamoci, a Guillermin, e consideriamo quanto fosse difficile.

King Kong ha però un sacco e una sporta di problemi. Alcuni sono provocati dall’abbassamento del grandeur visionario del regista a canoni più appetibili e meramente spettacolari, come l’inseguimento con i brontosauri che, più imbranati non si può, si spiattellano l’uno sull’altro: che noia. O quei personaggi marginali – marinai, perlopiù – tagliati con l’accetta e che sembrano usciti da una carta spessa e porosa. Quella che "se ci appoggi la penna l’inchiostro si spande", come diceva Bisio. Altri, dalla sensazione di maniera: non ci garba il Jackson jacksoniano, quello fissato con i paesaggismi e con gli step-frame, che qui non c’entrano niente e non funzionano.

Però King kong è anche e soprattutto un film di tre ore che diverte, emoziona e conquista come quasi nessun altro film uscito quest’anno. Un film di tre ore che non vorresti finisse, tre ore che rivedresti il giorno dopo, o la sera stessa: hai detto niente. Un film che sa far convivere un modo ammiccante ("Fay è impegnata in un film con la Rko" – "Cooper, eh? Lo immaginavo") con un recupero quasi totale di un’avventura pura e splendidamente naif. Miracolo. Un film che dopo alcune banalità sa riprendersi, anche con artifici semplici: come quando la colonna sonora diventa cupa e terribile nella magnifica sequenza degli abissi della terra. Dove qualche personaggio di passaggio viene divorato da mostri – tra cui una specie che siamo convinti essere enormi cazzi coi denti.

Fossero solo queste cose, queste sensazioni a fior di pelle date dal recupero totale dell’esperienza del grande schermo – perché è qui, nello splendore della sala, l’unico posto dove il Kong può davvero diventare King – a rendere l’ultimo film di Jackson un baraccone grandissimo e bellissimo: ma la cosa che sorprende di più non è la passione virogosa, fantastica, visionaria dell’ex ciccione neozelandese, che pur piace. Le cose che funzionano meglio sono proprio quelle in cui chiunque altro sarebbe caduto. Altro che da un grattacielo, dalle nuvole. E cioè, i momenti intimi, le ironie comedy, le schermaglie amorose. La scena in cui Ann fa divertire Kong con le sue mossette da avanspettacolo è da vedere e rivedere, così come la commozione di quell’ultima scena, la prima che ho citato, che tira fuori persino una lacrima. Era l’ultima cosa che pensavamo di tirar fuori, una lacrima, quella sera.

Tacendo colpevolmente su un cast bizzarro e non del tutto ben confezionato, Naomi Watts ci regala invece una nuova definizione per il sostantivo perfezione.

La rabbia giovane (Badlands)
di Terrence Malick, 1973

"My mother died of pneumonia when I was just a kid. My father kept their wedding cake in the freezer for ten whole years. After the funeral he gave it to the yard man. He tried to act cheerful but he could never be consoled by the little stranger he found in his house. Then one day hoping to begin a new life from all his memories he moved us from Texas to Fort Dupree, South Dakota."

Holly che abbraccia il cane, che suona il clarinetto nel giardino, che si chiude la camicetta e dice "è tutto qui?". Kit che guida, che uccide, che scappa. Due spari in una cantina, "che dici, li avrò presi?". Perché l’hai fatto, Kit? "Forse ho sempre voluto essere un criminale. Al mondo c’è di tutto".

La fuga verso la morte di uno spree-killer nichilista senza saperlo, e della sua bellissima amante bambina, attraverso le "terre maligne" degli Stati Uniti, ambientata in un decennio che dello splendore colorato del sogno americano dei fifties hanno solo la voce di Nat King Cole, l’immagine dei divi ("mi taglio la testa se non si atteggia a James Dean"), e il sogno di grandi città lontane. Qui è la periferia del mondo, dove i cani muoiono ai bordi delle strade e dove ci si deve attaccare a quel poco amore che si ha: "meglio una settimana con uno che mi sa amare come sono, che una vita in solitudine".

Film quieto eppure rivoluzionario, cristallino eppure inquietante, lucido e commovente: uno dei film più straordinari del coraggioso e indipendente cinema americano di quegli anni, vero cuore pulsante della New Hollywood e – insieme a Gangster story di Penn – modello essenziale e forse mai raggiunto per le generazioni successive.

Colonna sonora, tra Erik Satie e la "Musica Poetica" di Carl Orff, degna di un loop lungo una vita.

A history of violence
di David Cronenberg, 2005

Tre disclaimer.
Primo è che ci sono degli spoiler, ma come nel caso dell’ultimo Haneke, mi è risultato impossibile prescinderne. Quindi, se non l’avete visto, leggete a vostro rischio, e anticommercialmente vi sconsiglio di farlo.
Secondo
è che questo post è lunghissimo, insopportabilmente lungo, ma ha avuto una nascita scontrosa e difficile. Se la natura del mio blog e la mia pazienza lo concedessero, lo modificherei ogni giorno. Ho scritto tanto, ma ci sarebbero molte altre cose da dire.
Terzo: se non avete voglia di leggere questo post, sappiate che questo film è una bomba, uno dei migliori film dell’anno. Andate e vedetevelo.

Corro al cinema il venerdì pomeriggio, al secondo se non al primo spettacolo disponibile: un film che ho atteso, quest’anno, quanto pochissimi altri. Chiaro che poi uno non debba nemmeno aspettare di essere definito prevenuto che già lo pensa di se stesso. Insomma, per farla chiara: l’accoglienza per l’ultimo Cronenberg è stata altrove freddina, eppure A history of violence mi sembra davvero un film di grande, imponente, statura: che sia io a vederci male, accecato dalla passione per il regista canadese? Buona cosa è cercare di analizzare il film in modo forse semplicistico ma efficace, ossia attraverso tre possibili livelli di lettura di una delle due parole-chiave del titolo: violence.

Prima di tutto, A history of violence è una storia personale – ma senza i classici "movimenti" del racconto morale – ed è la storia di un uomo che ha ucciso, e che per preservare la flebile e falsa identità che faticosamente si è creato per dimenticare il suo essere "natural born killer", uccide ancora. In questa chiave il film è durissimo e coerente: la storia di Tom diventa il bivio di un sacrificio d’amore, per sè e per la propria famiglia, un dilemma sanabile solo con la violenza stessa: bisogna "sporcare" per sempre la bambagia creata per difendere i propri cari da quel mondo la cui violenza Tom ha visto in faccia, e uccidere ancora. E’ questione di sopravvivenza: la decisione è di intraprendere questa strada, di rinunciare alla propria "nuova vita", ai propri "privilegi". Tutte cose che, tra l’altro, negli occhi lucidi e umani del mostruoso William Hurt sono meno che insensate. E non escludiamo sia lo stesso per noi, che guardiamo a questa "normalità" con un certo scherno: noi lo capiamo dall’inizio, che è tutta una bugia.

La consapevolezza è quindi che la violenza è ineliminabile, profonda, e radicata nell’animo di ciascuno: per questo motivo l’uomo che torna a casa alla fine, con le carte della sua schizofrenia sociale ben scoperte e con gli occhi umidi di lacrime, non è più il padre amoroso, ma Joey, il killer che Tom si era dimenticato di essere. Quella non è più, nemmeno, la sua famiglia: la moglie ha imparato che anche la sua sessualità – adolescenziale e pudica – era una menzogna per se stessa, così come il figlio ha rinunciato a nascondere la sua repressione sotto l’atteggiamento calmo e intelligente, esplodendo. E risultando, si nota, più umano e "simpatico" a noi spettatori in questa veste "violenta".

Ma lo splendido finale "aperto" e silenzioso va considerato davvero, pur se sconvolgente, tremendo e abissale, come puramente negativo? Vero che la riconsitutizione familiare è ormai impossibile, perché l’orrore del mondo è entrato tra le pareti della casa oscurando le luci, ha scurito i volti e reso dubbiosi gli sguardi, rendendo impossibile anche solo guardarsi negli occhi. Ma almeno c’è ancora la speranza dell’innocenza che è poi ignoranza (la figlia che apparecchia la tavola per il papà, quella stessa figlia tenuta all’oscuro del mondo: "non esistono i mostri!"), almeno si è smesso di basare tutto sulle bugie, almeno ci si può dire la verità, ora. E la verità è che il mondo è così, un luogo di dolore illuminato da piccole, ridicole ma umane, seconde occasioni.

Il secondo livello è forse quello meno esplicito e forse meno rilevante, per quanto sia un valore aggiunto non indifferente del film: quello della metafora sull’America. Non politica o anti-Bush come si può pensare senza aver visto il film: la provincia calma e addormentata (come dipinta dall’amico poliziotto in una serie di poche ma azzeccatissime battute) in cui gran parte del film è ambientato rispetta di fatto tutti i canoni della colorata e tranquilla beatitudine sotto a cui battevano il malessere e i vermi del cinema di Lynch e di altri autori.

La violenza che scaturisce è quindi quella di una nazione che non ha ancora imparato a fare i conti con i propri demoni, una nazione che ha una centenaria "storia di violenza alle spalle", una nazione che sovente esplode, e che crea attraverso i media – e la cosa è rilevante nella prima parte, anche se poi passa in secondo piano in seguito – il mito "tutto western" dell’uomo normale che diventa vendicatore o punitore. Scordandosi poi che le news vanno e vengono, e che due colpi di pistola non cancelleranno mai la voglia insensata di morte – e la smania scopofila di omicidi – che scorre nelle vene, e nei cavi elettrici, del popolo americano. Proprio lì, già dal mattino, a colazione, dentro nella tazza di latte e cereali.

E quindi, ricollegandoci a questo, la terza accezione di violence può essere quella (spesso azzardata ma mai casuale in un simile contesto) metalinguistica. In questo senso, la rappresentazione della violenza, e l’etica della sua rappresentazione. La violenza è ritratta dal regista in modo molto preciso e matematico, secco ed estremamente "sanguigno". Cronenberg prende le distanze da ogni tipo di estetizzazione, evitando in tutti i modi di sottolineare il valore del "gesto" (omicida, o semplicemente violento), ma puntando lo sguardo sulle conseguenze, sui corpi sventrati o aperti dai colpi di pistola, sugli occhi terrorizzati di fronte all’orrore della violenza stessa. Ci vuole un bel coraggio, con i tempi che – nel bene e nel male – corrono.

Per dirne una: la bambina-testimone dell’incipit, quanto assomiglia alla piccola figlia della prima vittima di Uma Thurman nel primo Kill Bill? Eppure gli sviluppi sono ben altri, e ben altro è lo sguardo. Ancora: senza soffermarsi morbosamente, ma sconvolgendo con un fuoricampo come pochi riescono ancora a fare. Così, il film di Cronenberg è, tra le righe, anche un atto politico e coraggioso di riconquista della dimensione più tragica e più "materica" della violenza, da troppo tempo – secondo questa prospettiva – preda di epigoni del grottesco tarantiniano (lungi da me condannare Kill Bill: qui si parla di trend) e di violenzucce bidimensionali e "giocose". Non c’è nulla da ridere nella violenza: se non vi siete divertiti con A history of violence, forse l’ultima cosa che Cronenberg avrebbe voluto da voi è farvi divertire.

Quanto detto può servire a riflettere su quanto il film sia complesso e stratificato, ma è abbastanza per spiegare perché sia "un film di grande, imponente, statura"? Probabilmente sì, almeno in parte e almeno per quanto mi riguarda. Ma forse bisogna semplicemente riadattare e moderare – non in senso qualitativo – le proprie aspettative: A history of violence non è un "thriller" – così come ci è stato presentato – bensì un film chirurgico e riflessivo. Anche se sa giocare in grande stile con i generi e i loro stilemi (il western, il noir, il melodramma). E non è un film del tutto cronenberghiano, cosa che può far imbestialire molti fan, ma la sua chiarezza di intenti e la difficoltà di un fraintendimento non ci rendono inviso questo "nuovo corso" del suo cinema, che taglia comunque il cuore con un’accetta, e ancora lascia il cervello al proprio posto.

Al di sopra, infine, in superficie, una mise en scene incredibile: un attaccamento stranissimo eppure "caldo" ai primi piani dei personaggi, un incipit incredibile in pianosequenza che ricorda i quadri di Hopper, molti spunti "grafici" che comunque non scadono mai nella stilizzazione (trattandosi dell’adattamento di un graphic novel, tanto di cappello). Tutto intorno, una storia dagli sviluppi complessi interpretata da attori formidabili – comprimari da applausi, ma anche Mortensen è perfetto – e una manciata di scene, tra cui le (due) scene di sesso, che si impiantano nella memoria come tatuate a fuoco.

Una bomba.

Willard il paranoico (Willard)
di Glen Morgan, 2003

Evviva, evviva! Avevamo cercato di evitare in ogni modo i più brutti film del 2005, tenendo la categoria ristretta a una serie di voci, alcune prevedibili, altre delusioni. Ma con Willard ci siamo cascati, e a un passo dallo scadere dell’anno. Un po’ ci voleva.

Esordio alla regia dello sceneggiatore dell’orribile The one che ancora si ciba degli script di X-Files, e spuntato nelle sale italiane quest’estate senza che nessuno se ne accorgesse, Willard (perché "il paranoico"? Willard non è affatto paranoico!) è il remake di un film da noi misconosciuto del 1971, ed è un film inutile, noioso, spocchioso, banale, ridicolo, insomma davvero brutto, uno dei più brutti film da me visti del 2005. Non ho altro da aggiungere su questo argomento, spero di essermi spiegato bene.

Crispin Glover ce la mette tutta, ma per noi è e resta George McFly, e basta.

The longest nite (Aau dut)
di Patrick Yau, 1997

A detta di molti, una delle migliori produzioni della Milkyway di Johnnie To – che qui è produttore, ma se il nome nei titoli viene per ultimo e ben separato dai precedenti, ci sarà un motivo – è una breve ma significativa caccia all’uomo dagli echi hitchcockiani, con Tony Leung prima severo poliziotto torturatore e corrotto, poi vittima di una trappola preparata con dovizia di particolari da qualcuno che lo vuole incastrare e/o vedere morto. Dall’altra parte – ? – della barricata, il solito splendido Lau Ching Wan, qui con testa rasata e palletta rimbalzante, e i due protagonisti sono "come quella palletta: dove andiamo e cosa facciamo non lo decidiamo noi".

Un gioco al massacro – in tutti i sensi – che parte come un normale noir hongkonghese ma violentissimo e visivamente sorprendente, prosegue come un imponente duello virile a due – con i soliti splendidi tempi morti della fucina di To: vedasi il dialogo nella cella – arriva al finale passando per una citazione di Welles che diventa quasi metafisica nel suo svolgimento per poi concludersi con un finale tanto scioccante e nichilista quanto quello di un’altro film di Yau per To (Expect the unexpected), non altrettanto coinvolgente per chi scrive, ma comunque durissimo e dalle serie implicazioni teoriche.

Bello da matti.

The face of another (Tanin no kao)
di Hiroshi Teshigahara, 1966

…è passata più di una settimana dall’ormai storico "cineforum snob" di (alcuni) cineblogger bolognesi, e a una tale distanza mi è difficile parlare di Tanin no kao diversamente o tantomeno meglio di quanto già fatto da lui, oppure da lui, o di quello che lui e lui avrebbero potuto dire, quindi non mi resta che aggiungermi al coro degli irrefrenabili entusiasmi, quelli rari di chi si trova davanti a un film mai conosciuto né sentito nominare, di un autore forse spesso accennato ma perlopiù dimenticato, un film di quasi quarant’anni fa ma che anticipa in modo impressionante ossessioni dei decenni successivi, quali l’identità flebile e malleabile del cinema postmoderno, come non rimanere insomma di sasso davanti a un Tatsuya Nakadai che non solo se ne va a spasso bendato come un Claude Rains qualunque, ma che poi si fa impiantare una maschera-faccia-maschera, con conseguente ovvio delirio di identità, quando John Woo non aveva ancora fatto un film e Sam Raimi andava ancora alle elementari, il tutto immerso in un’atmosfera glaciale e inquietante, tra studi medici biancominimali e chiaroscuri espressionisti, un ritmo ipnotico e urla postsurrealiste?

Una mano di plastica che cade e ricade nell’acqua, mentre nelle strade c’è un esercito di uomini, e donne, senza più un volto. Byutifuru.

[per solutori più che abili]


Update:

Update:
Il film era "The Longest Nite" di Patrick Yau.
Il vincitore preferisce restare anonimo.

Masters of horror, #1.06
Homecoming
di Joe Dante, 2005

Masters of horror sforna, quasi a metà stagione, quella che è e probabilmente resterà, la sua vetta. Il breve episodio di Joe Dante è infatti un film acuto, commovente, splendido, che da reminiscenze horror ormai classiche (gli zombi di Romero in prima linea) impartisce una lezione di cinema e di politica (e di politica al cinema) con le armi, a lui ben note, del sarcasmo e della satira.

Ferocemente eversivo e tremendamente divertente, Homecoming è un film sul presente e sull’orrore del presente, agghiacciante e sorridente al tempo stesso, un caustico pamphlet mascherato da cinema di genere, capace di dire cose giuste quanto elementari, pure con uno stile che usa il modo e il contesto (televisivo) in cui è inserito per per un attacco alla stessa forza conservatrice dei mass media, alla televisione e ai suoi linguaggi, alla blanda retorica che invade ormai la classe politica (e chi sta dietro – e chi sta davanti – agli schermi).

Dante si conferma ancora una volta come uno degli autori più intelligenti e innovativi tra i registi "postmoderni", capace di miscelare una visione ghignante e corrosiva della società americana con il dramma profondo dei sopravvissuti e dei caduti, provocando con intelligenza e toccando il cuore con sensibilità: lacrime a fiotti per la scena dello zombie accolto da una coperta e dall’amore paterno, mentre tutto intorno a loro c’è l’incomprensione e l’ignoranza, la paura e il cinismo dei politicanti, le tattiche elettorali, i campi di raccoglimento.

Un piccolo capolavoro di cui sentivamo il bisogno.

The iron ladies (Satree lek)
di Youngyooth Thongkonthun, 2000

Quattro pallavolisti gay (più un transessuale, nonché drag-queen), messi ai margini della società e del mondo dello sport, decidono con l’aiuto di una coach lesbica e di un capitano carino e talentuoso ma dubbioso, di mettere insieme una squadra di pallavolo per sfidare gli "uomini veri" e dimostrare il loro valore, in campo e nella vita.

Uno dei pochissimi film thailandesi arrivati nelle sale italiane (con l’ausilio del Gender Bender di Bologna) è in effetti abbastanza masticabile: da commedia sportiva, segue tutti ma proprio tutti i cliché della commedia sportiva, e ne ribadisce esplicitamente anche le modalità retoriche, gli stereotipi casistici, i sorrisi e le lacrimucce. Nonostante ciò, non è così male come può sembrare, grazie alla verve dei protagonisti, a una regia che scarta i tempi morti, a alcuni eccessi programmatici (come il sogno di Jung verso la fine).

Ci si aspettava forse di più, vuoi perché è un film molto chiacchierato e poco visto, vuoi per la curiosità che suscita l’ormai espanso cinema thai, ma Satree lek è un film lieve come una bolla di sapone, chiaro negli intenti e sincero nelle intenzioni (soprattutto perché la storia – vera – è quanto di più esemplare si possa trovare in una società fortemente fallocentrica), insomma fresco e piacevole. Niente di che, ma ci si diverte. I titoli di coda mostrano i veri pallavolisti, ed è quasi uno shock.

Stentiamo a credere che la bellissima Kokkorn Benjathikoon sia un uomo, ma è così.

[I ain't dead yet, motherfucker!]

Addio, Ritchie.

L’enfant, Jean-Pierre e Luc Dardenne 2005

L’enfant – Una storia d’amore (L’enfant)
di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2005

L’ultimo film dei Dardenne, punta di diamante del cinema belga, non ha vinto la Palma d’Oro a Cannes 2005 per niente. I due registi confermano ancora una volta la purezza (la stessa di Sonia, nello scoprirsi madre) e la potenza del loro sguardo, continuando dopo il bellissimo La Promesse e lo splendido Rosetta a “stare incollati al volto e al collo dei personaggi”, e raccontando questa volta una strana storia d’amore in assenza, tra un ragazzo che impara a prescindere dall’oggettivizzazione del mondo (dove tutto ha un prezzo, tutto è merce), e la ragazza che gli insegna – suo malgrado – la sofferenza, l’amore, e il senso della vita.

La sequenza della “consegna”, fino alla scioccante parola “venduto” e la corsa all’ospedale, è tra le cose più forti e dolorose mai viste nel cinema due fratelli. Ma, fedeli alla loro linea di pensiero, pur lasciando a se stesse queste pedine antropologiche, non impediscono mai – anzi, fanno in modo – che ci sia per loro, esseri umani fino in fondo, spazio per un cambio di rotta, per una redenzione totale anche se improvvisa e strabordante come l’incontro – silenzioso, straziante, dolcissimo – che chiude il film.

Il loro è un cinema che non parla davvero del disagio, ma lo usa, il degrado, per acuire la portata delle scelte dei loro personaggi. Un cinema morale e umanista ma realista, consapevole della bruttezza del mondo ma altrettanto della bellezza che si nasconde tra le pieghe di un sorriso o di un pianto, di un dolore o di un perdono. Un cinema prezioso.

Masters of horror #1.05
Chocolate
di Mick Garris, 2005

Diciamocelo: Mick Garris ha creato Masters of horror per potercisi infilare in mezzo, lui che "master" proprio non è. E’ la pecora nera, si capisce. Quando mai una serie ha 13 episodi, a parte la numerologia horror? Poi, autodefinirsi "master" dopo schifezzuole come Critters 2 o bestemmie quali il tv-Shining autorizzato è davvero un po’ eccessivo. E’ talmente furbo che quasi ci sta simpatico. Se non fosse che se la racconta e se la ride, tutto da solo: Chocolate è tratto da un suo racconto. Pazzesco.

L’episodio di Garris, che Violetta ha definito "una versione maiala di Strange Days", non è nemmeno da condannare: non un filmaccio orribile, solo una sciocchezza ininfluente. Non sarebbe nemmeno male come idea l’amore nato da una condivisione sensoriale – e quello che ne è poi – ma tra cioccolatini proustiani e soggettive a distanza, botte ormonali e varie efferatezze – quel tizio però lo avremmo ucciso anche noi, e in quel modo: i suoi quadri fanno schifo – si rischia di toccare il fondo, e lo si sfiora. Aggiungasi piattume sconcertante.

O forse è solo Henry Thomas che mi fa impressione.

Assault on precint 13
di Jean-François Richet, 2005

E’ accaduto, di recente, almeno una volta. L’anno scorso: il film era L’alba dei morti viventi di Snyder. L’annuncio gridava vendetta al cielo, mentre i risultati erano positivamente sorprendenti. Ora, se proprio dobbiamo dirlo, qualche sbandata il francese la prende, e come rifacimento di Distretto 13 era forse un dito meglio – sempre per rimanere in Europa – l’unofficial remake Nido di vespe.

Però Assault è un film che colpisce nel segno in quello che si era preposto di essere: un b-movie che sembra un a-movie che sembra un b-movie. James DeMonaco, responsabile di un paio di porcherie come Jack e Il Negoziatore, sposta parzialmente il baricentro dell’azione all’esterno dell’edificio, costruendo inoltre un "nuovo" nemico, aggiornato ai tempi. Le ombre invisibili dei cattivi non fanno più paura, quello che fa paura sono le brutte sorprese. L’idea è buona, e soprattutto funzionale.

Chiaramente si perde mordente sul piano horrorifico e soprattutto si perde ogni respiro metafisico. Ma non essendo nemmeno avvicinabile all’opera seconda di Carpenter da cui è tratto, poco importa: Assault è un action tesissimo, ben girato e ben interpretato, con qualche personaggio azzeccato e qualche altro meno, alcune banalità – soprattutto nei dialoghi – ma anche una bella (e graditissima) faccia tosta nel trattare (male) i personaggi, senza badare tanto a correttezza, consequenzialità, amor proprio. Come la scena di Maria Bello (bella e brava) e Gabriel Byrne (diabolicamente noioso), sotto la neve: non ve la scorderete facilmente, almeno fino al mattino dopo.

Drea de Matteo è bruttina, truccatissima, rauca, ninfomane. Adorabile.