dicembre 2005

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Harry a pezzi (Deconstructing Harry)
di Woody Allen, 1997

"Citandosi addosso", Allen costruisce un film molto complesso e stratificato, un saggio autoreferenziale e "autodecostruzionista" sulla vita e sull’arte. E se si pensa a quanti sono i riferimenti alla vita di Allen, gli strati diventano tre: Ken, Harry, Woody, fino ad estremi davvero impensabili. Le Melinde è meglio che si nascondano.

Harry a Pezzi
non è l’ultimo bel film di Allen, ma è di sicuro l’ultimo suo film ad osare (come il montaggio che riflette lo stato scisso del protagonista), l’ultimo suo film davvero coraggioso, oltre che l’ultimo spavaldamente autobiografico e autocritico. Rendere coeso un film così progettualmente frammentato (anche per la quantità di racconti-gag presenti a ridosso del frame) è già di per sè un mezzo miracolo. Con le solite decine di chicche pronte per un quoting: il dialogo tra Kirstie Alley e Woody Allen meriterebbe di essere riportato parola per parola.

La storia è un omaggio al sempre amato Bergman, quello di Smultronstället, con il protagonista – novello Isak Borg – che si reca a ritirare una menzion d’onore nella sua vecchia scuola. Ma con un figlio rapito, una puttana e un malato di cuore. Nemmeno De André.

Broken flowers
di Jim Jarmusch, 2005

Jarmusch, ho avuto forse già l’occasione di accennarlo, non mi ha mai convinto fino in fondo. Colpa mia: avrò probabilmente visto i suoi film meno riusciti. Tuttavia, coltivavo molte speranze nel suo ultimo film, il nono in venticinque anni, per il bel trailer che l’ha preceduto, per i premi vinti a Cannes. Mica per niente. Sarà destino? Il film è anche interessante, sicuramente carino, ma già il fatto che io stia usando la parola "carino" vuol dire molto.

Il progetto è molto bello, una di quelle cose che fa un gran bene all’addormentato cinema nordamericano: prendere un plot che calzerebbe a pennello su una commedia americana (la ricerca del figlio e lo scavo nel proprio passato) e girarlo con uno stile leggero ma decisamente controcorrente, rallentando tutto fino allo sfinimento, facendo cautela a fermarsi il più possibile per cogliere lo straordinario valore di un gesto, di uno sguardo, di un’espressione, di un fatto. Tutto bene. A meno che non lo si faccia per nascondere la pochezza delle cose da dire. Il dubbio rimane.

Broken flowers è comunque un film che dopo un inizio poco convincente cresce molto, e sa essere sensibile, sagace, sofferto, sornione come il suo protagonista o imbarazzato come le sue donne, un film scritto – si direbbe – in punta di penna, con un bel finale tronco e molto più che aperto. Proprio per quello danno fastidio certi didascalismi (sì, Don Giovanni, abbiamo capito), alcune ingenuità della sceneggiatura (l’amico detective webbofilo), qualche forzatura. Bill Murray, dalla sua, ha un’espressione sola, ma gli vogliamo bene lo stesso.

Dà un po’ fastidio dare del "carino" a un film così sottilmente ambizioso. E se alla fine lo si consiglia, e anch’io lo consiglio senza pensarci troppo, mi permetto di incrociare le dita dietro la schiena.

Con me al cinema, lunedì pomeriggio (ho atteso, eh) anche Rob di "The Critic" (che ne ha parlato ed è d’accordo) e Andrea di "Alcinemanonsimangia" (che è a riposo ma è d’accordo pure lui).

Mr. & Mrs. Smith
di Doug Liman, 2005

"Any last words?"
"The new curtains are hideous."

Una delle cose migliori che possono accadere guardando un film che ci si aspetta essere orrendo è che questo non lo sia. Il ribaltamento dell’aspettativa, insomma. Fatta una dovuta premessa: questo è un film riciclato, rimasticato, di seconda mano, una specie di incrocio tra i conflitti black-comedy di War of the roses e, soprattutto, gli equivoci action di True Lies. Un film nato vecchio e con il respiro corto.

Tuttavia: la commedia romantica degli equivoci, giocandosela con la parte più prettamente d’azione, riesce stranamente ad avere un evidente sopravvento, e altrettanto stranamente funziona che è una meraviglia. Si vede dalla prima inquadratura – fissa, nello studio del consulente matrimoniale – che Liman, ex esordiente parzialmente sputtanatosi col tempo, ha le idee abbastanza chiare su ciò che gli interessa davvero. Poi Liman se la diverte, e la coppia Pitt-Jolie, fica a dismisura, se la diverte ancora di più. A tratti, ci divertiamo pure noi.

Il risultato è quindi piacevole e senza eccessive pretese, capace persino di prendere in giro le manie dei blockbuster (i due M:I in primo piano), con una freschezza quasi parodica e in ogni caso autoironica. Peccato però che verso la fine il film diventi lui stesso quello su cui si era proposto di scherzare, arrivandosi – ahimé, inevitabilmente – a prendersi troppo sul serio e ad annoiare con le solite esplosioni, il solito poco credibile duellone rumoroso, il solito happy end.

Constantine
di Francis Lawrence, 2005

Ci sono molti nodi da sciogliere su un film come Constantine. Il primo può essere quello – sempre in grande spolvero – del rapporto con il testo di provenienza. Che ne è del John Constantine di Alan Moore e/o di Jamie Delano? Personalmente conosco poco entrambi, ma tanto da poter rispondere: poco. Non è nemmeno una questione di adattamento: si sa, qui i fan di Hellblazer hanno fatto i sit-in, incazzati marci. Figuriamoci i detrattori.

Altro nodo, cruciale: vogliamo davvero vedere un film che vorremmo amaro e cupo (e che riesce a tratti ad esserlo, perché per natura – almeno! – poco conciliante) diventare una non proprio sottile campagna antifumo? John è un uomo che cerca la strada per il paradiso con l’egoismo, è, e deve essere, sgradevole. Insomma, John si è scelto la sua dannazione, perché negargliela? Perché tempestare gli spettatori smokers con messaggi che dir subliminali sarebbe ridicolo usando – persino – un cartello à la Fumar Mata? La politically correctness è capace di baratri di banalità. Tanto che alla fine sembra che il diavolo gli faccia un favore, a lasciare John sulla terra. Ma su. Redenzione? No, grazie.

Ma forse bisogna andare lontano da tutto ciò, pur non potendo. E così, Constantine, preso di per sè, dimenticando quanto sia poco sopportabile quanto detto (e altro che non ho voglia di discernere), e facendo finta che un disadattatissimo (e moro) John Keanu Neo Reeves Constantine non dica cose come "the world behind the world", Constantine, si diceva, non è poi così malaccio. In fondo ci si diverte e non poco, ci sono un Peter Lucifero Stormare e un Tilda Gabriele Swinton formidabili, molte scene ben riuscite, tanti begli effettazzi, un sacco di plagi abbastanza evidenti da essere scambiati per omaggi, un ritmo invidiabile nonostante il caos generato dall’eccesso di sceneggiatura, e Rachel Weitz.

Lawrence è il regista di una serie di orrendi videoclip, e si vede: ma il suo stile leccatissimo e ipertrofico si adatta discretamente al mondo creato intorno a John. Che forse non è quello di Hellblazer, o non è quello che si sperava fosse, ma che almeno è dipinto bene. D’altronde, si sa, il diavolo…

Si può perdonare. Poteva andare molto peggio.

La niña santa
di Lucrecia Martel, 2004

Secondo film dell’argentina Martel, prodotto sotto l’egida iberica dei fratelli Almodòvar, racconta delle vicende di alcuni personaggi nella cornice di un hotel termal-turistico invecchiato e decaduto. Mentre Helena – che gestisce l’albergo – cerca di ricostruire con il dottor Jano la sua vita sentimentale e sessuale dopo il divorzio, la figlia Amalia (nomen, omen), illuminata dalla strettissima dottrina cattolica a cui è sottoposta, decide di redimere l’anima dello stesso Jano dopo che l’uomo, nella folla, ha appoggiato il suo sesso al di lei fondoschiena. Come se non bastasse, una compagna di Amelia scopre di nascosto da tutti le gioie del sesso – non tradizionale – con il fratellastro cugino.

La possibile morbosità di un tale incrocio di vicende è tenuta lontana da una regia fredda e precisissima, fotografata in modo sublime, eppure molto accorata e vicinissima al pathos dei suoi personaggi, alla loro smania di perdono, o di peccato, o di salvezza (terrena). E dopo aver scoccato qualche freccia acida in direzione della confusione tra etica e morale cattolica – l’insegnante che cerca invano da settimane di insegnare alle ragazze il significato della chiamata, trovando un muro di incomprensione che si trasforma, a volte in ebetudine, a volte in disprezzo – la Martel conclude nel modo più disperato, inevitabile e frustrante possibile.

Con la consapevolezza cioè che il perdono della purezza di Amalia vale poco in una comunità-società alla ricerca dello scandalo a tutti i costi, della pecora nera da cacciare dal gregge, del capro espiatorio su cui travisare la trave che copre il proprio occhio. Perché se Jano è un personaggio sgradevole e incapace di controllare le sue "emozioni" di fronte alla bellezza di Amalia, egli è altresì l’unico a cui viene data, proprio dall’abbraccio casto e dalla perseveranza della giovane, una speranza.

Il film della Martel solleva questi e ben altri interrogativi, e il suo è un cinema maturo e adulto, sensibile e complesso, molto sottile ma a volte fuorviante e poco chiaro nel mostrare questo conflitto tra sacro e profano, tra desiderio e salvezza, tra malizia e santità. Ma La niña santa è anche il volto e il corpo immaturo di María Alche, la cui bellezza inusuale, improvvisa e ambigua dà a molte situazioni o scene, altrimenti risapute o banali, un incredibile vigore fotogenico.

[post aplazado]



Causa raffreddore allergico fulminante non ho nessuna voglia di scrivere il post previsto per oggi, e quindi considerate pure questo bellissimo snapshot un’ardua prova per il vostro talento cinefilo e/o mnemonico. Questo post contiene inoltre un indizio che facilita la soluzione. Il vincitore (se ci sarà) verrà premiato con un’inutile dedica nell’ormai attesissimo (…) post. A domani?

Shark skin man and Peach hip girl (Samehada otoko to Momojiri onna)
di Katsuhito Ishii, 1998

Dal regista di un film intelligente, poetico e delicato come The taste of tea, non mi aspettavo un esordio così fumettistico e ricercatamente cazzone. Certo, Katsuhito Ishii è un animatore e un pubblicitario, quindi insomma, ci si capisce. Nonostante ciò, i ritmi di Ishii non sono poi così diversi dal film del 2004 (una lentezza sorniona – qui barbaramente aggredita dal rock e dalla violenza), e Shark skin man and Peach hip girl è, alla fine, nonostante sia un’opera preparatoria, una bella scoperta.

SSMAPHG racconta la fuga di una donna (ovviamente fichissima, sotto il look quattrocchi: è Sie Kohinata) dalle angherie del viscido e perverso zio che le dà lavoro in un albergo, e quella di un "disertore" (persino più fico di lei) dai membri della sua gang yakuza. Questi ultimi sono la forza – grafica e narrativa – del film: un branco di personaggi assurdi che sembrano usciti da un Guy Ritchie centrifugato, come il boss con la faccia da impiegato, se non fosse per il cappotto di pelle pieno di terribili pugnali.

Moltissimi cool-ismi, un po’ di violenza stilizzata, un bel massacro finale, abiti sgargianti e dialoghi surreali: uno spasso, insomma. E nemmeno così stupido e tamarro come può sembrare. Sì, è a grandezza fumetto, ma situazioni e personaggi sono di quelli che si ricordano (soprattutto il killer gay e sfigato Yamada), anche se è un farraginoso e alcuni passaggi sono molto impliciti, e ad un certo punto io, personalmente, non ho capito più una fava. Ma insomma, ci sono Tadanobu Asano e Susumu Terajima. Basta e avanza.

I meravigliosi titoli di testa farebbero sbavare qualunque amante duro e puro del cosiddetto pulp. Se ne esistono ancora.

Masters of horror, #1.04
Jenifer
di Dario Argento, 2005

Jenifer con-una-n-sola è una ragazza muta, dotata di un bel corpicino ma dal volto sfigurato, salvata dalla morte da un poliziotto che per difenderla dall’incomprensione della società baratterà la sua vita normale con i furiosi rapporti sessuali che Jenifer ama donargli per riconoscenza, non avvedendosi dei particolari gusti della ragazza in campo culinario. Finalmente arriva l’episodio del nostro Dario Argento, uno che continua curiosamente ad essere definito "il re dell’incubo" nonostante non azzecchi un film da vent’anni in pacca.

Il suo Jenifer merita una dovuta distinzione: se infatti il film non è eccezionale, è comunque meglio di quanto Argento ci propini da anni in patria. Il film riesce a non sollevare alcuno degli interessanti interrogativi che un plot del genere avrebbe stimolato, e la butta più che altro sulla carnazza e sulle budella. Però ha un inizio davvero bellissimo (la mosca in macchina, più che un presagio), e soprattutto quanto segue: 1 gatto sbudellato, 1 bimba asiatica divorata (dopo un incontro di apparente tenerezza nel giardino, ovvia citazione di Frankenstein), 1 povero adolescente che riceve un pompino cannibale, 1 viso orrendamente makeuppato sbattutaci di continuo in faccia.

Il problema è che sembra tutto vecchio di vent’anni. a partire dalla faccia fuori dal tempo di Steven Weber, spaesato nonostante abbia scritto la sceneggiatura, senza contare l’atmosfera, la fotografia becera, cose così. Deliziosamente simonettiane le musiche di Simonetti: il tema è perfetto per una suoneria del cellulare. Finale ovvio fin dal primo minuto, ma d’altronde come potrebbe finire? Bah.

Masters of horror, #1.03
Dance of the dead
di Tobe Hooper, 2005

Il terzo episodio della serie di Mick Garris è il primo diretto da un vero "mostro sacro", ovvero da Tobe "Texas Chainsaw Massacre" Hooper. Visto il trend degli ultimi anni, che principalmente dai suoi primi film prende mossa e che ad essi rimanda di continuo, era lecito aspettarsi un horror fortemente anni ’70, magari con adolescenti inseguiti da mostri (meglio se rurali), spaventi a dismisura, un bel po’ di sangue.

Invece no, il buon vecchio Hooper adatta un (bel) racconto di Matheson che più mathesoniano non si può, con i suoi riferimenti socio-familiari, la sua bella post-apocalisse e i suoi bei sopravvissuti eccetera. Stilisticamente, fa una scelta precisa: il caos del dopo-bomba (o del dopo-chi-per-lei) rappresentato con effettacci di montaggio che altri amano definire "videoclippari", termine che in questo caso calza a pennello, vista anche l’importanza che riveste la – bruttissima – colonna sonora del riesumato Billy Corgan.

Insomma, c’è uno splendido Robert Englund che fa l’mc viscido e infernale di un locale viscido infernale facendosi fare fellatio da non-morte, ci sono pelli di bambini disciolte da piogge acide, ci sono conflitti familiari e almeno una bella zampata nel finale, ma tutto questo non basta a salvare un filmetto che si arrampica sugli specchi per arrivare all’ora di durata, e che, peggio ancora, non spaventa affatto e non fa nemmeno schifo. La sequenza del viaggio in auto? Difficile pensare a qualcosa di così malriuscito.

La diciassettenne Jessica Lowndes illumina il film ogni volta che è in campo (cioè quasi sempre), ma nemmeno questo serve. E’ più hooperiano Rob Zombie che Hooper stesso: un peccato.