2005

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Memories of murder (Salinui chueok)
di Bong Joon-ho, 2003

Una bellissima conferma: il secondo film di Bong Joon-ho è bello quanto il primo, il bizzarro e stupefacente Barking dogs never bite. Anzi, persino di più.

Una storia (vera) di omicidi seriali nella Corea dei terribili anni ’80 si trasforma nelle mani di Bong sia in una riflessione storica sulla dittatura e sulla provincia coreana, sia in uno studio attento di personaggi, dove la recherche dell’assassino perde importanza rispetto al metodo, e dove non ha più molta rilevanza il fatto di cronaca in sè, ma il background da cui è scaturito e gli approcci emozionali del contesto storico.

A partire dalle classiche dicotomie città/campagna e (fin dalla prima sequenza) luce/buio, i due straordinari protagonisti interpretano dall’interno e dall’esterno il viaggio infernale in una provincia dove regna la paranoia, dove l’impotenza provoca reazioni di violenza, e l’intelletto cede il passo alla furia. Davvero difficile scegliere il "miglior attore" tra Song Kang-ho e Kim Sang-kyung, perché lo spessore quest’ultimo viene fuori più lentamente rispetto al fascino e alla presenza immediata del primo.

Durissimo e di grande impatto emotivo, disturbante e commovente, il film è anche retto dalla capacità di Bong di giocare, fin quando è concesso dal dramma, e soprattutto nella prima parte, con un umorismo cinico e nerissimo come quello dimostrato nel film precedente. E al di sotto del mostrato e del celato, delle metafore storiche, dello sconcerto, delle risate e del dolore, di cadaveri nella pioggia e di volti dolenti difficili da dimenticare, c’è uno stile già maturissimo fatto di piani infiniti, di una gestione perfetta degli attori e degli elementi all’interno del quadro, e qualche momento esplosivo (bellissimo l’inseguimento).

Niente male per un autore poco più che trentenne: non possiamo che aspettarci altre grandi cose da lui, ma Memories of murder è già un grandissimo film, tra i migliori film coreani tra quei (pochi, purtroppo) che mi sono capitati tra le mani. E ancora una volta, la speranza di vederlo da noi, anche se qualunque doppiaggio ne rovinerebbe l’incredibile intensità. Come quegli urli di rabbia, sotto la pioggia, sul binario di un treno.

20 30 40 – L’età delle donne (20:30:40)
di Sylvia Chang, 2004

20 30 40 è la storia di tre donne e delle loro tre età (quelle del titolo), che sono gli anni dei sogni infranti e dei primi amori, gli anni della ricerca di una stabilità, gli anni della disillusione e, volendo, della rinascita. Tre storie (scritte dalle stesse tre protagoniste) che vogliono essere particolari e non universali, ma che ricercano anche e in primo luogo un’immedesimazione e un’empatia.

Con un senso dell’humor particolarissimo (il "lui" che per attirare l’attenzione di "lei" le spacca il parabrezza e le lancia addosso una secchiata d’acqua) e con una leggerezza (grazie soprattutto alle tre splendide protagoniste, tra cui la stessa regista) inaspettata per chi abbina il cinema taiwanese a Tsai o a Hou (ma questa è una coproduzione con HK e Giappone), la Chang costruisce un film sincero e affettuoso, realista e impietoso nel mostrare i dilemmi dell’essere donna (come la paura della vecchiaia e della solitudine) ma aperto alla speranza e al sogno.

Magari non troppo originale nei temi e nello sviluppo, ma con una struttura più che solida: a partire da un fatto traumatico e "cittadino" che fa partire le loro storie, le tre donne sono destinate a non incontrarsi mai. Solo ad incrociarsi: e la Chang gioca con abilità e astuzia con la casualità della vita fin dai titoli di testa, e segue con grande partecipazione i movimenti dei personaggi in una Taipei moderna e anglofona, in cui la via di fuga può essere la semplice solidarietà femminile.

Il risultato è che è davvero difficile non affezionarsi, almeno durante la visione. E non commuoversi, come per la scoperta dell’amore nel luogo più ovvio (un addio e un bacio in un aeroporto: lo ammetto, ho banalmente pianto) o in quello più insolito: un sorriso di stupore, in un cimitero.

Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy)
di Woody Allen, 1982

Allen, nel mezzo di alcuni tra i suoi capolavori, si prende una pausa divertita (forse solo in apparenza, vista la cura formale) e racconta una storia di amore e sessualità, riportando all’inizio del secolo le sue nevrosi metropolitane (dando alla campagna e a Mendelssohn il compito di scioglierle) e ragionando sul contrasto tra razionalismo e irrazionalismo, ovviamente con il sorriso sulla bocca.

Non propriamente il mio Allen preferito, ma abbastanza in forma e sempre divertente. E capace di momenti di magia che da lui non ci si aspetterebbe (la palla magica, deus ex machina che ricorda la sessopalla del Dormiglione).

E poi c’è Mary Steenburgen, ancora nel fiore nella sua inspiegabile bellezza.

Three (San geng)
di Registi Vari, 2002

Per qualche misterioso intervento divino è comparso nelle videoteche italiane questo film a episodi, celebre coproduzione tra Corea, Thailandia e Hong Kong. Distribuisce Eagle Pictures: vuoi vedere che prima o poi metteranno fuori anche Three extremes? I tre segmenti non hanno quasi nulla in comune, quindi ne parlo separatamente.

Memories, di Kim Ji-woon (Corea del sud)
Un piccolo esercizio di stile (ma anche qualcosa di più), opera del regista che avrebbe poi realizzato Two Sisters, a cui la breve durata serve per sperimentare e giocare un po’ con i linguaggi, e per trasmettere una vicenda sull’abbandono e sulla memoria. Non propriamente horror, ma davvero pauroso, se si è predisposti: interessato in modo quasi teorico alle meccaniche dello spavento (l’inizio fa davvero saltare sulla sedia), Kim costruisce una tensione palpabile che resta per tutto il film e che alla fine si scioglie in un sorriso amaro. Bene, bravo, bis.

The wheel, di Nonzee Nimibutr (Thailandia)
Il segmento thailandese, a dispetto delle mie aspettative ricolme di curiosità, è quello che mi è piaciuto meno. Anzi, posso dire che non mi sia piaciuto. Nimibutr, produttore proficuo, e regista del Jan Dara di cui tanto male si è detto (ma mi riservo di vederlo comunque, visto che anch’esso è uscito da poco in dvd) costruisce una storia che mescola tradizione thai e ghost-cinema contemporaneo, annoiando però troppo spesso, o addirittura non suscitando alcun interesse: un dramma, vista la durata esigua. Il finale ricompatta il tutto, reimmette l’opera in un binario circolare, e azzecca qualche "visione": niente male. Peccato.

Going home, di Peter Ho-sun Chan (Hong Kong)
Nonostante il primo segmento sia molto bello, è questa la vera perla del trittico. Il segmento di Chan segue un binario e poi ne imbocca un altro, all’improvviso; sembra quindi prendere una sbandata narrativa, che è però solo apparente. Al di sotto di una bizzarra storia di paure infantili, ossessione necrofila, e medicina cinese, il risultato è una storia struggente e dolcissima sull’amore che sconfigge il dolore, la malattia, la morte. Peter Chan mostra una sensibilità incredibile e un senso notevole sia del dettaglio che dell’insieme. E poi fotografa Christopher Doyle: non serve dire altro. Un gioiellino.

In fuga per Hong Kong  (Gorgeous) (Bor lei jun)

di Vincent Kok, 1999

Gorgeous, tra i pochi film hongkonghesi dall’inizio del "periodo americano" di Jackie Chan, non è un film d’azione come pensavo (e come fa pensare il banale titolo italiano), ma una commedia romantica, simpatica ed edificante, con tanto di bottiglie con messaggi d’amore e amici delfini. Piacevole anche se di un’ingenuità sconvolgente, per non parlare dei sottotesti tematici (il confronto città/campagna, per dirne uno).

All’interno di questa storia d’amore tra un’ingenua ragazza taiwanese (dolcissima, meravigliosa Shu Qi), e un solitario industriale capitalista hongkonghese, c’è qualche combattimento, giustapposto in modo totalmente insensato, almeno per l’occhio occidentale. Duelli chiaramente pazzeschi, pochi ma più lunghi e persino meglio congegnati del solito. Chan che subisce in questo modo fa comunque un certo effetto.

Comunque, tra le ultime cose fatte da Jackie, si fa guardare, è diretto bene, e fa sorridere nonostante (o forse proprio per) le vette di stupidità naif e con qualche simpatica trovata demenziale (come la scena dell’effetto-vento). Sempre se Tony Leung (quello giusto) che fa la checca persa con i cetrioli sulla faccia è per voi il massimo dei divertimenti.

Ok, è una cazzata, ma che ci posso fare, io mi sono intenerito. Volete una buona, oggettiva, ragione per guardarlo? Potrebbe bastare, e avanzare, Shu Qi.

Frank Costello, faccia d’angelo (Le samouraï)
di Jean-Pierre Melville, 1967

Le samourai è un noir duro, spigoloso, asciutto e privo di fronzoli, caratterizzato da un’unità narrativa e spaziotemporale assoluta (un solo scopo per ogni personaggio, orari scanditi, e Parigi come un labirinto metropolitano) e dominato dal volto, dal corpo e dall’impermeabile di un Alain Delon semplicemente perfetto.

Molte le scene bellissime, oltre ovviamente al disperato finale autodistruttivo: tra tutte, l’incontro sul tetto tra Costello e il killer, e il serrato dialogo psicologico (un lunghissimo piano-sequenza) tra l’ispettore François Périer e la donna di Costello. Che era, non a caso, Nathalie Delon.

Ovvi rimandi al cinema classico nordamericano, ma ravvivati da un ineccepibile senso della morale, da un nichilismo diffuso, e soprattutto dalla messa in scena precisa, magistrale e di rara precisione di Jean-Pierre Melville. Da qui, debiti a destra e a manca in una manciata di cinematografie successive.

Bello, bello, bello.

Link: imprescindibile, Nicola Moroni.

The aviator
di Martin Scorsese, 2004

Howard Hughes è un giovane e ricchissimo industriale con la fissa del volo e del cinema. Ma Howard Hughes è (soprattutto, per Scorsese) un uomo sociopatico e paranoico, dilaniato da una patologia multifobica di matrice infantile, che affronta con sfrontata e assurda tenacia il mondo (e il modo) americano, rifuggendo l’idealismo e le dicotomie politiche (basta pensare alla figura che ci fa la democratica famiglia Hepburn) e dedicando la sua vita alla realizzazione di un sogno, o meglio di un’ossessione.

Intorno a lui si dipana la storia di almeno trent’anni di Stati Uniti d’America, dalla depressione al dopoguerra, attraverso lo sviluppo del cinema da una parte e della tecnologia (del volo) dall’altra, che camminano di pari passo ed appartengono entrambi a un immaginario che a che fare con memorie ataviche e irrazionali.

Tali movimenti storici sono comunque trasversali, perché pur nella grandiosità dell’affresco storico e con le ovvie ripercussioni metafilmiche, come il "ruolo" (in tutti i sensi) che star come la Hepburn o la Gardner (o lo spassoso Flynn di Jude Law) hanno nella sua vita, Aviator è soprattutto la storia di un uomo incapace di reagire alle pressioni degli altri e della società, incapace insomma di una catarsi "scorsesiana".

Perché al di sotto delle luci dei flash ci sono i cocci rotti delle loro lampade (forse la scena più bella del film), e al di fuori della realizzazione di uno o più sogni (possibili, ed effettivamente realizzati), meta in cui Howard vede forse la possibilità di poter sconfiggere la sua malattia, c’è sempre la frustrazione e l’impossibilità di liberarsi di un fantasma bambino immerso in una vasca, e il suo ineluttabile travaglio che corre sotto la pelle, e nel sangue.

Aviator è un bellissimo film, ed è davvero difficile da attaccare, sia da un punto di vista tecnico (dove, al di là della perfezione della regia di Scorsese, c’è anche un’insolito e riuscitissimo uso del digitale), sia da un punto di vista artistico: oltre alla bellezza di scenografie (di Ferretti) e costumi, è un film compatto nella sua frammentarietà, appassionante, divertente ed inquietante in egual misura, nonostante la lunghissima durata.

Miracoloso inoltre l’apporto del bravo, anzi bravissimo, Leonardo di Caprio, capace di sostenere per quasi tre ore il suo viso (e il suo corpo) perennemente fisso sullo schermo, mostrando una matura pienezza di e una grande sensibilità attoriale, ma senza strafare o strabordare. Forse quello è anche merito della guida dello zio Martin.

Però, nonostante troppe poche ore siano passate da un film così lungo e complesso, e quindi sia difficile giudicare, questo è inevitabilmente uno Scorsese minore, forse non raggiunge nemmeno il precedente sottovalutatissimo Gangs of new york (parere del tutto soggettivo), ed è quindi lontano dai suoi veri capolavori. Non si creda tuttavia che sia amarezza: non sono disposto a credere in nessuna ipotesi di decadenza autoriale (per chi scrive Scorsese è ancora il più grande regista vivente), e inoltre Aviator è comunque un gran film, assolutamente da non perdere.

Molti, in ogni caso ed inevitabilmente, i lampi di genio: dalle scene di volo all’inizio, a certi piani lunghi che solo ad immaginarli viene il mal di testa (come l’impressionante panoramica circolare negli studi cinematografici di Hughes, per citarne uno), tutta la lunga e angosciante sequenza dell’autoreclusione (bottiglie di urina comprese), e ovviamente l’inizio e il finale speculari. Il resto è (purtroppo, o no), solo gran bel cinema.

Seduti accanto a me, un blogger non-del-tutto-convinto e un Andrea estasiato. E poi una birra: no comment sulla musica alta…

Divided we fall (Musíme si pomáhat)
di Jan Hrebejk, 2000

Nominato agli oscar nella sezione "film in lingua straniera" per la Repubblica Ceca nel 2001, l’anno in cui vinse La tigre e il dragone contro Amores Perros: chiaramente passò un po’ inosservato. Ed è un peccato, perché il film di Hrebejk è un film bello e intelligente.

La storia narrata si inserisce in un momento storico persino abusato: è il 1939 in Cecoslovacchia, piena occupazione nazista.  Però il film si distacca dai soliti canoni: prima di tutto, perché il punto di vista è solo quello di un piccolo nucleo familiare (un uomo, la moglie, un ebreo nascosto nello sgabuzzino).

E soprattutto perché la storia, seppur in una dimensione tragica, anche se più indivuduale che collettiva, inserisce notazioni umoristiche e situazioni di equivoco. Capaci di non cadere nel grottesco, di ritirarsi quando è il caso, e di non essere una "reazione necessaria" (come in Benigni), ma una risposta a una visione della vita cinica e sorridente, che si permette però, nonostante l’egoismo e l’incomprensione che sembra dominare persino la vita di quartiere, di sperare ancora nella caparbietà di sopravvivenza degli uomini.

Il film, fotografato e girato in modo talentuoso (con un’artificio postoproduttivo, una specie di filtro step-frame, che distacca tutti i momenti di tensione o di dramma), è fin dal titolo un inno all’unione ("uniti resistiamo, divisi crolliamo") a prescindere dalle simpatie o antipatie personali, in nome degli intrinseci legami di una solidarietà universale. E i bravissimi protagonisti (soprattutto Bolek Polívka) tratteggiano personaggi ricolmi di dubbi e di contraddizioni, ma capaci di dimostrare nella difficoltà la loro fondamentale umanità.

Bello il finale, amaro e malinconico, con la carrozzina bianca spinta da Josef tra le rovine della città e tra i rumori degli uomini che la ricostruiranno.

Il film è inedito in italia: io l’ho visto in un dvd import, in ceco con sottotitoli in inglese. Esiste però un’edizione italiana in vhs (Emik), probabilmente doppiata. Possibile un’uscita nel corso del 2005, forse con il titolo "L’unione fa la forza". Ma non ci sono notizie certe.

Gigi
di Vincente Minnelli, 1958

Gigi è imperfetto e invecchiato, un po’ immobilizzato nella sua ambientazione d’interno parigino e dalle sue (bellissime) sgargianti scenografie. Insomma, nonostante gli americani e Parigi, non è Un americano a Parigi.

Però il cinema di Minnelli è comunque una piacevole boccata d’aria (soprattutto in giorni così stressanti), anche questa anacronistica storia d’amore e di convenzioni, malinconicamente rivolta a un sentimento schiacciato dall’ipocrisia sociale e infine, ovviamente, trionfante.

E poi, ci sono le musiche di Loewe & Lerner (soprattutto The night they invented champagne e I remember it well cantata da Chevalier e la Gingold sulla terrazza). E Leslie Caron è deliziosa, ancora: basterebbe lei.

Orizzonti di gloria (Paths of glory)
di Stanley Kubrick, 1957

Rivisto ieri sera perché il dvd giuntomi nelle mani a natale era ancora sigillato, e perché Orizzonti di gloria si rivede sempre volentieri. In più, l’altro giorno era la giornata della memoria, e forse ieri era il giorno giusto per vederlo. Questa è stata la mia visione personale, perché la memoria dev’essere memoria di ogni passato.

E ricordare quel terribile passato, sì. Ma è importante anche non dimenticare il presente.

"There are few things more fundamentally stimulating that watching another man die"

Una passeggiata tra le bombe, l’attesa della morte, un canto mormorato di sottile e tragica speranza. Difficile scriverne, impossibile dire altro. La perfetta sintesi tra forma e contenuto, film di guerra forse insuperato, capolavoro kubrickiano. E assoluto.

Alexander
di Oliver Stone, 2004

Dunque, continua la cannibalizzazione della storia antica da parte di Hollywood. Con dei distinguo, però: Alexander non è il disastro che fu Troy, e nemmeno la delusione che fu (a mio parere) Gladiator.

Prima di tutto, il film è sorretto da una sceneggiatura che, se non ottima, è almeno dignitosa, e dalla felice scelta narrativa di Stone di concentrarsi sul rapporto di Alessandro Magno con la madre, e di mostrare un Alessandro scisso dal conflitto edipico, decidendo con intelligenza di posticipare il perché di questo conflitto con un flashback posto nel punto giusto. Con un personaggio così, era difficile fare cilecca del tutto.

In più, non solo nella bisessualità di Alessandro, ma anche nella bella sequenza del banchetto nuziale di Filippo, il recupero della promiscuità dei rapporti sessuali permette a Stone di dare una dimensione nuova, o comunque meno reazionaria, alla sfera sessuale dell’eroismo, cosa di cui Troy aveva una paura fottuta mentre Stone ci sguazza come un’anatra.

E poi Stone ha ancora uno stile che, seppur appiattito e banalizzato rispetto a lavori del passato ben più validi, Scott aveva già perso da tempo, per tacere di Petersen che non l’ha mai avuto: lo dimostra la battaglia di Gaugamela, il colpaccio di genio del "volo d’aquila" sul campo di battaglia, un massacro a sassate che ha una carnalità difficile da trovare nell’epica softcore di Troy.

Ma Gaugamela non è l’unico bel momento del film: anche gli occhi furiosi di Alessandro che si scagliano contro l’elefante indiano, la scena intensissima dell’omicidio di Clito, e soprattutto la sequenza quasi visionaria della sua morte, in cui Stone coglie nel segno proprio nell’esagerazione simbolica e nell’accumulazione che lo identifica come autore.

Purtroppo, il film ha alcuni notevoli difetti. Cedere in più di un momento a perdonabili convenzioni da soap; presentarsi come bignamino della storia occidentale, quando non dovrebbe avere pretese di veridicità assoluta, bensì di rilettura epica; e soprattutto uno: è troppo lungo. E non solo nel totale dei suoi 175 minuti, ma anche nelle singole sequenze: Stone si perde via in un bicchier d’acqua, in dialoghi tirati a lungo, prolissi e inutili.

A dispetto delle aspettative (basse) e dei precedenti, ed elencati (ed altri) difetti a parte, Alexander non è affatto male, e dimostra che Troy non era un fallimento per un’idea nata sbagliata (la volgarizzazione nordamericana dell’epica ellenica), ma solo la pessima realizzazione di un’idea sostenibile (la rilettura popolare del mito precristiano).

[amore a seconda vista]



Il post,
qui.

The chronicles of Riddick
di David Twohy, 2004

Riddick è la conclusione di una saga iniziata con Pitch Black, gioiellino della fantascienza di serie B, e inframmentata da un cartone, Dark fury, che non ho visto.

Rispetto al "capitolo uno", Twohy ha molti più soldi, forse per la guadagnata notorietà del protagonista, il ruvidissimo e appropriato Vin Diesel. E si sente come un bimbo con un buono per la fabbrica del cioccolato: gli effetti speciali, davvero straordinari anche se un po’ PS2, sono esibiti in ogni inquadratura con una veemenza che neanche Lucas, e che mette simpatia.

Peccato che Riddick non sia bastardo come in PB, che si scada a volte nella tamarrata, che manchi un po’ di ironia (carenza a cui sopperisce Diesel) e che i suddetti ottimi effetti speciali soffochino a volte l’interesse di un contesto narrativo, quello di una "nuova crociata" per il livellamento spirituale, tutto sommato molto interessante.

Senza dubbio però ci si diverte, forse più di quanto pensavo. La parte sul pianeta Crematoria, con la lunga fuga dalla luce solare, è una sequenza davvero spettacolare ed appassionante, e fa il paio con la "fuga dal buio" di PB. Insomma niente per cui morire ma nemmeno per cui uccidere.

LInk: i voti dei Cinebloggers

Oldboy
di Park Chan-wook, 2003

Arrivo tardi, lo so. Per pigrizia, probabilmente. La sensazione ci coglie spesso, ed è quella di aver visto tutto, di non aver bisogno d’altro. E invece Oldboy arriva come un tuffo al cuore, fa piazza pulita e riconcilia con il cinema: è incredibile che Park sia riuscito a superare un film bello come Sympathy for mr Vengeance, ma lo ha fatto. E non solo.

Oldboy è un film lancinante, appassionante, entusiasmante, caustico, doloroso. Conferma un talento incredibile, quello di Park, e una tematica favorita, quella della vendetta. Ma pur mantenendo il doppio filo vendicativo e il geniale ribaltamento di ruoli e di immedesimazione di Mr Vengeance, Park segue strade un po’ diverse e soffoca quei silenzi con un ritmo pulsante, sotterraneo, invisibile e continuo.

Riconferma anche la qualità di una cinematografia, quella coreana, ma allo stesso tempo la schiaccia: trapassando i generi come un trapano, e superando persino i capolavori kimkidukiani, Park mostra una strada nuova per la rappresentazione della morale, reinventa i tempi e i modi narrativi, stupisce ad ogni inquadratura e ad ogni frase, mescolando cinismo e poesia, con incredibile grazia e lucidissima furia. 

E gira come un dio, rielaborando e rimasticando immaginari e spunti narrativi, lineari e non, con uno stile frastornante e violentissimo che riesce miracolosamente sia ad evadere dal pericolo dell’esibizione gratuita, sia a non essere mai fine a se stesso, a non cadere mai nel gioco retorico, spingendo invece la sua lama nel profondo, e raggiungendo impensabili livelli di tragedia, incredibili vette di dolente poesia.

Impossibile, quanto inutile, quanto stupido, citare in questo caso l’una o l’altra scena: non c’è una perdita, una pecca, una caduta che sia di ritmo o di stile o di profondità narrativa. Ma è inevitabile conservare nella memoria qualcosa, che sia quell’immersione in un ricordo a testa in giù, o quelle formiche sul volto (e altrove), o quelle foto appese. O quella foto scattata morendo, con il sorriso.

Oldboy
è una delle esperienze cinematografiche più intense degli ultimi anni, o forse semplicemente uno dei bei film, in assoluto, degli ultimi anni. Non ci resta che sperare che questo capolavoro arrivi al più presto in Italia nelle sale, e in un’edizione almeno decorosa che restituisca al pubblico italiano la splendida, terribile, inarrivabile prestazione di Choi Min-sik.



Un ringraziamento a Infamous e Andrea (loro sanno perché). Ne parlò anche Gokachu, con cui però non condivido le (poche) riserve. E grazie ovviamente al blogger genialoide che ha scelto template e nick in onore di Oldboy, aumentando ogni giorno di più la mia voglia di vederlo.

Gojoe (Gojoe reisenki)
di Sogo Ishii, 2000

Finito chissà come sugli scaffali delle videoteche italiane, il terzultimo film di Sogo Ishii (autore che purtroppo conosco solo di fama) è un film di spada violento e concreto, sanguinolento e furioso.

Favolosa la messa in scena barocca e visionaria, tra (pochi) momenti di stasi e battaglie caratterizzate da un montaggio estremo e iperframmentato e da uno sguardo che spesso condivide la furia omicida degli assassini. E con una fotografia sempre all’altezza e a volte davvero superba (soprattutto all’inizio e alla fine).

Purtroppo, a quanto pare, l’edizione "estera" è stata tagliuzzata per un pubblico (così pare) poco attento alle sottigliezze e più interessato ai combattimenti e all’azione. Manca una mezz’ora o poco più, e si sente: il film è più interessante che davvero divertente, e soprattutto la storia sembra non raccontare niente e non andare da nessuna parte, nonostante la cura con cui sono ritratte le contraddizioni sacre ed etiche del bel personaggio di Masatoshi Nagase (bravissimo).

Comunque sia, lo scontro finale tra Nagase e il sempre bellissimo Tadanobu Asano, con la furia degli elementi, tra fulmini e fuoco e sangue, è davvero un pezzo da novanta. Vista anche la rarità della distribuzione di un titolo simile, vale assolutamente la pena di noleggiarlo al più presto. Peccato, però.

Storia di fantasmi cinesi 2 (Sinnui yauman II)
di Ching Siu-Tung, 1990

Il secondo (su tre) capitolo della fantasmatica saga di Ching Siu-Tung è propriamente un sequel, con tanto di "riassunto" all’inizio, e uno sviluppo coerente con il primo film. Ritroviamo personaggi, situazioni, Wu Ma. E ritroviamo anche la stessa qualità.

Il secondo Sinnui yauman è apparentemente molto simile al primo, in alcuni punti più controllato e preciso, in altri più esplosivo, perché vengono accentuati sia i caratteri horror che quelli melodrammatici: da una storia d’amore impossibile, si passa a una storia di malinconica ossessione amorosa, meno romantica ma anche più catartica e ottimista.

Anche se il capostipite è insostituibile nel mio cuore, il tono è qui decisamente più scanzonato e divertente (Leslie Cheung che nasconde le nudità di Joey Wong), con l’aggiunta comicissima di Jackie Cheung (da sganasciarsi la scena in cui viene immobilizzato), e regala ancora momenti di grande emozione (come la scena dell’ipnosi).

Non posso che essere soddisfatto come un bimbo, e aspettare con trepidazione di vedere il terzo.

[FFF2005: un riepilogo]

Il Future Film Festival è finito, almeno il mio. Nella scelta tra chiudermi in una sala per cinque giorni oppure vivere una vita normale e selezionare le mie visioni, ho optato per la seconda. Quindi non ho visto tantissime cose, o comunque molte meno di quanto mi sarebbe stato possibile: su tali basi, un breve riepilogo prima del ritorno di questo blog alla normalità.

Due capolavori, o quasi, o più o meno: Steamboy di Otomo è il film più bello del festival, mentre come ho già detto Il castello errante di Howl di Miyazaki è il mio preferito. Includerei nella categoria anche il danese Strings, che ho visto a Venezia e non qui, ma che si merita una doverosa citazione. Autentica sorpresa (in positivo) è stato anche Cutie Honey di Anno, il film più spassoso di quest’edizione.

Ancora al di sotto delle possibilità del suo autore ma tutto sommato un buon film è La foresta del pugnali volanti, mentre deludono in parte, viste le premesse, sia Shark Tale di casa Dreamworks sia il coreano Natural city: ad entrambi una sufficienza, molto meritata nel primo caso, un po’ succinta nel secondo. Nel ricco panorama offerto dal programma, ho purtroppo visto una sola serie anime, Paranoia agent. Fortunatamente, bellissima.

Bruttarello invece Thyko Moon, l’unico Bilal capitatomi sotto gli occhi, superato solo dal noiosissimo Wonderful days, e soprattutto da Returner, che vince l’ambito premio per il film più brutto del festival, tra quelli da me visti. E senza rivali.

FFF2005
Shark tale

di Bibo Bergeron, Vicky Jenson e Rob Letterman, 2004

Ammetto un briciolo di pregiudizio: l’ho detto decine di volte che sono un "pixiariano". Non quindi una delusione, bensì una conferma: Shark tale è anche carino, sicuramente divertente, decisamente ben fatto, ma siamo lontani anni luce dai capolavori della Pixar. Non è una questione grafica, che poi è quella su cui la Dreamworks si accanisce: è proprio una questione di scrittura.

La casa di Spielberg e-compagnia-bella, dopo il progetto Shrek che ormai vive di vita propria, ha affrontato lo scontro del 2004 con gli Incredibili con questa "storia di squali". Un po’ fuori tempo massimo: se gli squali mafiosi, con la catena alimentare metafora delle violente gerarchie sociali, è un’idea divertente, non sfiora quella dei "carnivori anonimi" di Nemo. E tutto si riduce, solito dramma della Dreamworks, a un semplice spoof cinefilo.

Colpo azzeccato è quello di ritornare su binari narrativi più rassicuranti, accantonando il cinismo (tra virgolette) di Shrek per una classica storia di ascesa e declino. Un po’ troppo classica, forse, e non c’è nulla di nuovo: ma se è ammirevole il tentativo di restituire un messaggio universale di onestà e collaborazione sociale invece di continuare a giocare solo con il pubblico "adulto". Per quanto il finale sia davvero troppo edificante, e dimentichi tutto d’un tratto di cosa sia fatta la vita vera.

Dopo un inizio davvero straordinario e pieno di gag, le trovate si fermano irrimediabilmente, e la cosa peggiore è che maggior parte di esse sono scritte apposta per far sganasciare un pubblico come quello americano, con molti riferimenti alla mtv culture, e mille giochi di parole per cui probabilmente gli adattatori italiani hanno passato notti insonni. Will Smith dal canto suo ce la mette tutta, ma era quasi meglio Chris Rock in Osmosis Jones.

Davvero brava invece la personalissima voce della Zellweger (perché mi piace tanto quella voce?) e uno spasso Martin Scorsese in guisa di pesce-palla. In fondo le mie risate me le sono fatte, ma non posso dire di essere uscito soddisfatto dalla sala. Non oso comunque immaginare il disastro della versione italiana: mi asterrò as long as possibile.

FFF2005
Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro)

di Hayao Miyakazi, 2004

Se in qualche modo Steamboy è il miglior lungometraggio del Future Film Festival 2005, ma questo è il mio preferito. E’ una bella gara, ma ho pochi dubbi.

Non è La città incantata, ma poco ci manca: Miyazaki trova pane per i suoi denti nella novella di una scrittrice inglese. In apparenza è un ritorno all’infanzia, con figure comiche di spalla (straordinario Calcifer, demone del fuoco) inedite per l’autore giapponese, meno sottilmente angosciante degli ultimi lavori, più divertente, fiabesco, romantico.

Ma in realtà continua a parlare di temi universali, dell’amore, del rispetto umano, della pace, della morte. Riprende le sue amate ossessioni, la natura, il volo: centinaia di macchine volanti, come sempre. Ma sa reinventarsi, ribaltando l’elogio dell’innocenza infantile facendo diventare la protagonista un’arzilla signora 80enne. Ed estende la sua micidiale ed immensa immaginazione alle categorie della realtà, stupendo e divertendo con geniali paradossi spazio-temporali.

Ma quello che conta è che Miyazaki sa parlare ancora direttamente al cuore dello spettatore, sa incantarci e illuminarci, sa farci ridere e piangere, senza i sensi di colpa di una regressione (Miyazaki ha parlato addirittura di un "cartoon per anziani") ma con la semplicità e la sponeaneità emozionale che è propria del genio.

Non me l’aspettavo, ma è un altro capolavoro, e speriamo non sia l’ultimo.

Nota: è un vero onore esser stato seduto alla proiezione tra due tali signori blogger.

FFF2005
Wonderful days

di Kim Moon-saeng, 2003

Non avevo mai visto un film d’animazione coreano, e ora l’ho visto. Wonderful days mescola tecnologie d’animazione in una storia sci-fi d’azione con sottotesti romantici e naturalistici. E purtroppo non mi ha convinto.

Probabilmente è anche una questione tecnica: se le parti in 3D sono davvero fenomenali, non si può dire altrettanto dell’animazione in due dimensioni, arretrata e legnosa. E non si può nemmeno parlare di integrazione, visto il divario: difficile accettarlo di buon grado, dopo una cosa come Steamboy, anche se di Corea e non di Giappone si tratta.

Ma oltre all’animazione, c’è anche una storia confusa e di scarso interesse, personaggi bidimensionali anche nel carattere, e una noia che pervade tutta la prima parte, piena di inutili sparatorie. Personalmente, ho "sonnecchiato" per qualche minuto. Si riprende un po’ nella parte conclusiva, bello il volo d’angelo e il finale tragico ed enfatico. Ma non basta: peccato.

Credo che Andrea sia d’accordo con me: ha dormicchiato anche lui.