2005

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Harry a pezzi (Deconstructing Harry)
di Woody Allen, 1997

"Citandosi addosso", Allen costruisce un film molto complesso e stratificato, un saggio autoreferenziale e "autodecostruzionista" sulla vita e sull’arte. E se si pensa a quanti sono i riferimenti alla vita di Allen, gli strati diventano tre: Ken, Harry, Woody, fino ad estremi davvero impensabili. Le Melinde è meglio che si nascondano.

Harry a Pezzi
non è l’ultimo bel film di Allen, ma è di sicuro l’ultimo suo film ad osare (come il montaggio che riflette lo stato scisso del protagonista), l’ultimo suo film davvero coraggioso, oltre che l’ultimo spavaldamente autobiografico e autocritico. Rendere coeso un film così progettualmente frammentato (anche per la quantità di racconti-gag presenti a ridosso del frame) è già di per sè un mezzo miracolo. Con le solite decine di chicche pronte per un quoting: il dialogo tra Kirstie Alley e Woody Allen meriterebbe di essere riportato parola per parola.

La storia è un omaggio al sempre amato Bergman, quello di Smultronstället, con il protagonista – novello Isak Borg – che si reca a ritirare una menzion d’onore nella sua vecchia scuola. Ma con un figlio rapito, una puttana e un malato di cuore. Nemmeno De André.

Broken flowers
di Jim Jarmusch, 2005

Jarmusch, ho avuto forse già l’occasione di accennarlo, non mi ha mai convinto fino in fondo. Colpa mia: avrò probabilmente visto i suoi film meno riusciti. Tuttavia, coltivavo molte speranze nel suo ultimo film, il nono in venticinque anni, per il bel trailer che l’ha preceduto, per i premi vinti a Cannes. Mica per niente. Sarà destino? Il film è anche interessante, sicuramente carino, ma già il fatto che io stia usando la parola "carino" vuol dire molto.

Il progetto è molto bello, una di quelle cose che fa un gran bene all’addormentato cinema nordamericano: prendere un plot che calzerebbe a pennello su una commedia americana (la ricerca del figlio e lo scavo nel proprio passato) e girarlo con uno stile leggero ma decisamente controcorrente, rallentando tutto fino allo sfinimento, facendo cautela a fermarsi il più possibile per cogliere lo straordinario valore di un gesto, di uno sguardo, di un’espressione, di un fatto. Tutto bene. A meno che non lo si faccia per nascondere la pochezza delle cose da dire. Il dubbio rimane.

Broken flowers è comunque un film che dopo un inizio poco convincente cresce molto, e sa essere sensibile, sagace, sofferto, sornione come il suo protagonista o imbarazzato come le sue donne, un film scritto – si direbbe – in punta di penna, con un bel finale tronco e molto più che aperto. Proprio per quello danno fastidio certi didascalismi (sì, Don Giovanni, abbiamo capito), alcune ingenuità della sceneggiatura (l’amico detective webbofilo), qualche forzatura. Bill Murray, dalla sua, ha un’espressione sola, ma gli vogliamo bene lo stesso.

Dà un po’ fastidio dare del "carino" a un film così sottilmente ambizioso. E se alla fine lo si consiglia, e anch’io lo consiglio senza pensarci troppo, mi permetto di incrociare le dita dietro la schiena.

Con me al cinema, lunedì pomeriggio (ho atteso, eh) anche Rob di "The Critic" (che ne ha parlato ed è d’accordo) e Andrea di "Alcinemanonsimangia" (che è a riposo ma è d’accordo pure lui).

Mr. & Mrs. Smith
di Doug Liman, 2005

"Any last words?"
"The new curtains are hideous."

Una delle cose migliori che possono accadere guardando un film che ci si aspetta essere orrendo è che questo non lo sia. Il ribaltamento dell’aspettativa, insomma. Fatta una dovuta premessa: questo è un film riciclato, rimasticato, di seconda mano, una specie di incrocio tra i conflitti black-comedy di War of the roses e, soprattutto, gli equivoci action di True Lies. Un film nato vecchio e con il respiro corto.

Tuttavia: la commedia romantica degli equivoci, giocandosela con la parte più prettamente d’azione, riesce stranamente ad avere un evidente sopravvento, e altrettanto stranamente funziona che è una meraviglia. Si vede dalla prima inquadratura – fissa, nello studio del consulente matrimoniale – che Liman, ex esordiente parzialmente sputtanatosi col tempo, ha le idee abbastanza chiare su ciò che gli interessa davvero. Poi Liman se la diverte, e la coppia Pitt-Jolie, fica a dismisura, se la diverte ancora di più. A tratti, ci divertiamo pure noi.

Il risultato è quindi piacevole e senza eccessive pretese, capace persino di prendere in giro le manie dei blockbuster (i due M:I in primo piano), con una freschezza quasi parodica e in ogni caso autoironica. Peccato però che verso la fine il film diventi lui stesso quello su cui si era proposto di scherzare, arrivandosi – ahimé, inevitabilmente – a prendersi troppo sul serio e ad annoiare con le solite esplosioni, il solito poco credibile duellone rumoroso, il solito happy end.

Constantine
di Francis Lawrence, 2005

Ci sono molti nodi da sciogliere su un film come Constantine. Il primo può essere quello – sempre in grande spolvero – del rapporto con il testo di provenienza. Che ne è del John Constantine di Alan Moore e/o di Jamie Delano? Personalmente conosco poco entrambi, ma tanto da poter rispondere: poco. Non è nemmeno una questione di adattamento: si sa, qui i fan di Hellblazer hanno fatto i sit-in, incazzati marci. Figuriamoci i detrattori.

Altro nodo, cruciale: vogliamo davvero vedere un film che vorremmo amaro e cupo (e che riesce a tratti ad esserlo, perché per natura – almeno! – poco conciliante) diventare una non proprio sottile campagna antifumo? John è un uomo che cerca la strada per il paradiso con l’egoismo, è, e deve essere, sgradevole. Insomma, John si è scelto la sua dannazione, perché negargliela? Perché tempestare gli spettatori smokers con messaggi che dir subliminali sarebbe ridicolo usando – persino – un cartello à la Fumar Mata? La politically correctness è capace di baratri di banalità. Tanto che alla fine sembra che il diavolo gli faccia un favore, a lasciare John sulla terra. Ma su. Redenzione? No, grazie.

Ma forse bisogna andare lontano da tutto ciò, pur non potendo. E così, Constantine, preso di per sè, dimenticando quanto sia poco sopportabile quanto detto (e altro che non ho voglia di discernere), e facendo finta che un disadattatissimo (e moro) John Keanu Neo Reeves Constantine non dica cose come "the world behind the world", Constantine, si diceva, non è poi così malaccio. In fondo ci si diverte e non poco, ci sono un Peter Lucifero Stormare e un Tilda Gabriele Swinton formidabili, molte scene ben riuscite, tanti begli effettazzi, un sacco di plagi abbastanza evidenti da essere scambiati per omaggi, un ritmo invidiabile nonostante il caos generato dall’eccesso di sceneggiatura, e Rachel Weitz.

Lawrence è il regista di una serie di orrendi videoclip, e si vede: ma il suo stile leccatissimo e ipertrofico si adatta discretamente al mondo creato intorno a John. Che forse non è quello di Hellblazer, o non è quello che si sperava fosse, ma che almeno è dipinto bene. D’altronde, si sa, il diavolo…

Si può perdonare. Poteva andare molto peggio.

La niña santa
di Lucrecia Martel, 2004

Secondo film dell’argentina Martel, prodotto sotto l’egida iberica dei fratelli Almodòvar, racconta delle vicende di alcuni personaggi nella cornice di un hotel termal-turistico invecchiato e decaduto. Mentre Helena – che gestisce l’albergo – cerca di ricostruire con il dottor Jano la sua vita sentimentale e sessuale dopo il divorzio, la figlia Amalia (nomen, omen), illuminata dalla strettissima dottrina cattolica a cui è sottoposta, decide di redimere l’anima dello stesso Jano dopo che l’uomo, nella folla, ha appoggiato il suo sesso al di lei fondoschiena. Come se non bastasse, una compagna di Amelia scopre di nascosto da tutti le gioie del sesso – non tradizionale – con il fratellastro cugino.

La possibile morbosità di un tale incrocio di vicende è tenuta lontana da una regia fredda e precisissima, fotografata in modo sublime, eppure molto accorata e vicinissima al pathos dei suoi personaggi, alla loro smania di perdono, o di peccato, o di salvezza (terrena). E dopo aver scoccato qualche freccia acida in direzione della confusione tra etica e morale cattolica – l’insegnante che cerca invano da settimane di insegnare alle ragazze il significato della chiamata, trovando un muro di incomprensione che si trasforma, a volte in ebetudine, a volte in disprezzo – la Martel conclude nel modo più disperato, inevitabile e frustrante possibile.

Con la consapevolezza cioè che il perdono della purezza di Amalia vale poco in una comunità-società alla ricerca dello scandalo a tutti i costi, della pecora nera da cacciare dal gregge, del capro espiatorio su cui travisare la trave che copre il proprio occhio. Perché se Jano è un personaggio sgradevole e incapace di controllare le sue "emozioni" di fronte alla bellezza di Amalia, egli è altresì l’unico a cui viene data, proprio dall’abbraccio casto e dalla perseveranza della giovane, una speranza.

Il film della Martel solleva questi e ben altri interrogativi, e il suo è un cinema maturo e adulto, sensibile e complesso, molto sottile ma a volte fuorviante e poco chiaro nel mostrare questo conflitto tra sacro e profano, tra desiderio e salvezza, tra malizia e santità. Ma La niña santa è anche il volto e il corpo immaturo di María Alche, la cui bellezza inusuale, improvvisa e ambigua dà a molte situazioni o scene, altrimenti risapute o banali, un incredibile vigore fotogenico.

[post aplazado]



Causa raffreddore allergico fulminante non ho nessuna voglia di scrivere il post previsto per oggi, e quindi considerate pure questo bellissimo snapshot un’ardua prova per il vostro talento cinefilo e/o mnemonico. Questo post contiene inoltre un indizio che facilita la soluzione. Il vincitore (se ci sarà) verrà premiato con un’inutile dedica nell’ormai attesissimo (…) post. A domani?

Shark skin man and Peach hip girl (Samehada otoko to Momojiri onna)
di Katsuhito Ishii, 1998

Dal regista di un film intelligente, poetico e delicato come The taste of tea, non mi aspettavo un esordio così fumettistico e ricercatamente cazzone. Certo, Katsuhito Ishii è un animatore e un pubblicitario, quindi insomma, ci si capisce. Nonostante ciò, i ritmi di Ishii non sono poi così diversi dal film del 2004 (una lentezza sorniona – qui barbaramente aggredita dal rock e dalla violenza), e Shark skin man and Peach hip girl è, alla fine, nonostante sia un’opera preparatoria, una bella scoperta.

SSMAPHG racconta la fuga di una donna (ovviamente fichissima, sotto il look quattrocchi: è Sie Kohinata) dalle angherie del viscido e perverso zio che le dà lavoro in un albergo, e quella di un "disertore" (persino più fico di lei) dai membri della sua gang yakuza. Questi ultimi sono la forza – grafica e narrativa – del film: un branco di personaggi assurdi che sembrano usciti da un Guy Ritchie centrifugato, come il boss con la faccia da impiegato, se non fosse per il cappotto di pelle pieno di terribili pugnali.

Moltissimi cool-ismi, un po’ di violenza stilizzata, un bel massacro finale, abiti sgargianti e dialoghi surreali: uno spasso, insomma. E nemmeno così stupido e tamarro come può sembrare. Sì, è a grandezza fumetto, ma situazioni e personaggi sono di quelli che si ricordano (soprattutto il killer gay e sfigato Yamada), anche se è un farraginoso e alcuni passaggi sono molto impliciti, e ad un certo punto io, personalmente, non ho capito più una fava. Ma insomma, ci sono Tadanobu Asano e Susumu Terajima. Basta e avanza.

I meravigliosi titoli di testa farebbero sbavare qualunque amante duro e puro del cosiddetto pulp. Se ne esistono ancora.

Masters of horror, #1.04
Jenifer
di Dario Argento, 2005

Jenifer con-una-n-sola è una ragazza muta, dotata di un bel corpicino ma dal volto sfigurato, salvata dalla morte da un poliziotto che per difenderla dall’incomprensione della società baratterà la sua vita normale con i furiosi rapporti sessuali che Jenifer ama donargli per riconoscenza, non avvedendosi dei particolari gusti della ragazza in campo culinario. Finalmente arriva l’episodio del nostro Dario Argento, uno che continua curiosamente ad essere definito "il re dell’incubo" nonostante non azzecchi un film da vent’anni in pacca.

Il suo Jenifer merita una dovuta distinzione: se infatti il film non è eccezionale, è comunque meglio di quanto Argento ci propini da anni in patria. Il film riesce a non sollevare alcuno degli interessanti interrogativi che un plot del genere avrebbe stimolato, e la butta più che altro sulla carnazza e sulle budella. Però ha un inizio davvero bellissimo (la mosca in macchina, più che un presagio), e soprattutto quanto segue: 1 gatto sbudellato, 1 bimba asiatica divorata (dopo un incontro di apparente tenerezza nel giardino, ovvia citazione di Frankenstein), 1 povero adolescente che riceve un pompino cannibale, 1 viso orrendamente makeuppato sbattutaci di continuo in faccia.

Il problema è che sembra tutto vecchio di vent’anni. a partire dalla faccia fuori dal tempo di Steven Weber, spaesato nonostante abbia scritto la sceneggiatura, senza contare l’atmosfera, la fotografia becera, cose così. Deliziosamente simonettiane le musiche di Simonetti: il tema è perfetto per una suoneria del cellulare. Finale ovvio fin dal primo minuto, ma d’altronde come potrebbe finire? Bah.

Masters of horror, #1.03
Dance of the dead
di Tobe Hooper, 2005

Il terzo episodio della serie di Mick Garris è il primo diretto da un vero "mostro sacro", ovvero da Tobe "Texas Chainsaw Massacre" Hooper. Visto il trend degli ultimi anni, che principalmente dai suoi primi film prende mossa e che ad essi rimanda di continuo, era lecito aspettarsi un horror fortemente anni ’70, magari con adolescenti inseguiti da mostri (meglio se rurali), spaventi a dismisura, un bel po’ di sangue.

Invece no, il buon vecchio Hooper adatta un (bel) racconto di Matheson che più mathesoniano non si può, con i suoi riferimenti socio-familiari, la sua bella post-apocalisse e i suoi bei sopravvissuti eccetera. Stilisticamente, fa una scelta precisa: il caos del dopo-bomba (o del dopo-chi-per-lei) rappresentato con effettacci di montaggio che altri amano definire "videoclippari", termine che in questo caso calza a pennello, vista anche l’importanza che riveste la – bruttissima – colonna sonora del riesumato Billy Corgan.

Insomma, c’è uno splendido Robert Englund che fa l’mc viscido e infernale di un locale viscido infernale facendosi fare fellatio da non-morte, ci sono pelli di bambini disciolte da piogge acide, ci sono conflitti familiari e almeno una bella zampata nel finale, ma tutto questo non basta a salvare un filmetto che si arrampica sugli specchi per arrivare all’ora di durata, e che, peggio ancora, non spaventa affatto e non fa nemmeno schifo. La sequenza del viaggio in auto? Difficile pensare a qualcosa di così malriuscito.

La diciassettenne Jessica Lowndes illumina il film ogni volta che è in campo (cioè quasi sempre), ma nemmeno questo serve. E’ più hooperiano Rob Zombie che Hooper stesso: un peccato.

Harry Potter e il calice di fuoco (Harry Potter and the goblet of fire)
di Mike Newell, 2005

La trovata migliore nell’adattare una saga ormai divenuta industriale è stata quella, forse in un primo momento disperata, di affidare a registi diversi per provenienza e per curriculum i vari capitoli: la stessa idea di riutilizzare Columbus fu artisticamente disastrosa. E così, dopo il soprendende terzo capitolo, ecco le avventure del giovane mago inglese in mano (finalmente) ad un regista inglese.

E Mike Newell, che sappiamo essere regista di ottimo mestiere, rovistando nel Calice di fuoco, trova facilmente materiale con cui giocare a suo piacimento. Perché questo è il libro dove, soprattutto, si consolidano i rapporti, si cresce sentimentalmente, si comincia ad entrare nel "delicato selciato dell’adolescenza". Le prime coppie, i "primi batticuori". Brr, la smetto. Comunque, per metà abbondante della sua durata Harry Potter 4 è questo: una vera e propria commedia dei sentimenti, con i personaggi che si desiderano l’un l’altro, in un balletto (non solo metaforico) ormonale di frasi non dette e qualche doppio senso, ricerche amorose e tanta foia. Cose che, nella cupa cornice di Hogwart, sono quanto di più bizzarro possa venire in mente.

Ma questo è anche il libro dove succede quello che succede alla fine (non voglio rivelare, se lo sapete peggio per voi). Per cui, dopo un’ora e mezzo di questa strana pochade, c’è la parte subacquea – pazzesca, quasi visionaria – quella del labirinto – claustrofobica e da incubo, quella sì quasi horror – e lo scontro finale, un po’ George Lucas e un po’ Ken Shiro. Tutte sequenze con i fiocchi, con i cazzi e i controcazzi.

Va bene, ci sono gli ovvi limiti dichiarati di un prodotto che deve essere masticabile per un altro tipo di pubblico. Va bene, l’episodio di Cuaròn era forse – un dito – migliore. Va bene, ci sono ancora delle difficoltà (ma sempre meno) per i non-iniziati. Ma questa è una saga sempre più divertente e coinvolgente, e sul finale persino commovente: diciamolo, non è più tutto un giochino da bambini, e l’avevamo già capito. Qui ora c’è la morte, con cui fare i conti.

Viste le aspettative ribassate dall’entusiasmo malcelato per il terzo episodio, è inutile negarlo: questo maledetto Harry Potter ci piace sempre più. Continueremo a non leggere i libri della Rowling perché si ha di meglio da fare nella vita, ma i film del maghetto – sempre più insopportabile alla vista – li attenderemo con ansia.

Hermione invece è sempre più carina ed sempre più brava la sua interprete Emma Watson. Ci garba. Ma c’è un conflitto d’interesse, perché qui si farebbero carte false per Katie Leung. Che è pure maggiorenne e non si va nel penale.

Stardust memories
di Woody Allen, 1980

Il capolavoro di Fellini attraverso gli occhi e la poetica di Allen: dalle ceneri di Otto e mezzo, variate e soffiate da un vento grigio e nero fino a quel di New York, nasce Stardust memories. C’è il sogno soffocante all’inizio, le donne, la morte, il finale con il cast. "Omaggio? Gli abbiamo portato via l’idea in blocco!", dice Tony Roberts su Vincent Price, ma il riferimento è evidente.

Da recuperare, anche solo perché pur essendo uno dei suoi film meno visti, meno citati, meno amati e meno caratteristici (di un periodo, di uno stile), è terribilmente personale, egocentrico, acido, malinconico, è un piacere per gli occhi grazie alla fotografia di Gordon "Manhattan" Willis, ed è pieno di chicche, citazioni, robetta metacinematografica, scene incredibili come "l’ultima volta che vedesti Dorrie", una disamina entusiasta su un certo film di un certo De Sica, decine di persone che chiedono l’autografo all’esausto autore.

E poi c’è il cognato che fuma sulla cyclette, manciate di soggettive che diventano oggettive, piani-sequenza che poi Allen ha disimparato a (o perso la voglia di) fare, Sharon Stone che esordisce mandando un bacio dal treno, e Charlotte Rampling che ti sorride sdraiata sulla moquette. Che voler di più?

[revisionismo]

per capirci

Requiem for a dream
di Darren Aronofsky, 2000

Il secondo film del regista cult newyorkese è uno di quei film con cui molti amano rompermi le scatole da tempo (ma come, non l’hai mai visto?) senza che io mi ravvedessi e lo vedessi. Dal primo consiglio sono infatti passati anni, e io me lo sono tenuto lì nel cassettino – dove tengo anche il suo primo film, Pi – aspettando il momento giusto. Sia inteso, ben vengano i consigli, ben venga il passaparola: è così che si scopre il "cinema invisibile". Ma è anche chiaro che uno si crea delle aspettative, a cui il film dovrebbe tenere testa.

Ora che ho visto Requiem for a dream, l’impressione non è certo drasticamente negativa, perché il film ha diversi punti di forza (a cui cercherò di aggrapparmi nel prossimo paragrafo), ma non mi sembra nemmeno all’altezza della sua fama, di quella del suo autore, e di molte recensioni più che entusiaste. Aronofsky cerca di costruire una piccola discesa all’inferno allucinata quanto gli incubi dei suoi protagonisti, ma il risultato è un saggetto sulla dipendenza, a volte davvero fastidioso nel suo voler essere eccessivo tutti i costi, privo di ironia e moralista, basato su una relazione causa-effetto un po’ troppo elementare.

D’altra parte bisogna ammettere alcune cose. Ehm ehm. Ehm. Primo. Che Aronofsky ha uno stile affascinante. Anche se sembra nascondere sotto la ridondanza linguistica – non sempre giustificata – una probabile incapacità di ricreare quest’incubo nel profilmico, e non solo ex post, che a volte si trasforma in sciatteria oppure cade nel ribrezzo "a pelle". Secondo. Che alcune scene sono bellissime, come la corsa sul molo, o lo split-screen nel letto, o molte altre. Anche se è spesso merito di Matthew Libatique. Terzo. Che l’ultima parte, quando le situazioni drammatiche raggiungono il loro apice horror, è davvero straordinaria. Anche se preferiamo la Connelly che abbraccia il suo amato pacchettino allo spettro – ricordo – bah – della mammina di Wayans. Quarto. Che la colonna sonora dei Kronos Quartet è fantastica. Senza "anche se".

Comunque tutto ciò non toglie che Requiem for a dream sia un film da vedere, anche solo per la capacità di abbinare ad una storiella strarisaputa e noiosa, quella dei ragazzetti drogati che spacciano e che fanno una brutta fine, una più angosciante e più diretta, quella della madre del protagonista, vittima di "altre" dipendenze (la televisione, le pillole per dimagrire, la solitudine). E’ il vero punto di forza, il vero pugno nello stomaco del film. Fosse tutto così.

Qualcuno mi ha detto che devo rivederlo in lingua originale, che lo rivaluterei in toto. In effetti il doppiaggio è davvero orrendo, come spesso capita ai prodotti destinati all’home-video. Forse mi sono lasciato condizionare troppo dalle vociastre italiche, o dal fatto che non riesco a prendere sul serio Marlon Wayans dopo Scary Movie. Ma mi sembra che i problemi ci siano comunque, anche altrove. Con fiducia, tengo comunque la strada aperta ad un ripensamento.

A caccia di recensioni negative per non portarmi alla disperazione, ne ho trovate un paio semi-illustri: quella di uno spietato e quella (anonima) di FilmTv. Se ne conoscete altre, i commenti sono lì per quello.

Il gusto dell’anguria (The wayward cloud) (Tian bian yi duo yun)
di Tsai Ming-liang, 2005

I due personaggi di Che ora è laggiù si incontrano di nuovo, per caso ("non vendi più orologi?" è l’unica linea di dialogo tra i due), in una Taipei deserta e apocalittica, seccata dalla siccità, dove ognuno campa come può, chi rubando bottiglie e angurie, chi facendo film porno in uno squallido appartamento. Lo schema compositivo è quello di The hole: la grigia e immobile realtà, caratterizzata dai ritmi dilatati e dai piani fissi per cui Tsai è noto, è spezzata da numeri musical coloratissimi e qui davvero assurdi, che riflettono i sentimenti del personaggi, inesprimibili per definizione. A far da tramite, un frutto che diviene simbolo ora di sensualità, ora di fertilità.

E’ davvero bellissimo The wayward cloud. E’ ancora un film sulla solitudine e sull’incomunicabilità, ed è ancora una conferma di un talento compositivo impressionante, capace come pochi di lavorare – come si dice spesso – sui "corpi nello spazio", e di costruire inquadrature che, pur rimanendo immobili, si sviluppano in profondità (sui lati lunghi del parallelepipedo, siamo portati a pensare). A ciò si aggiunge una non inedita ma qui esplicitata voglia di giocare con il proprio cinema, ironicamente e autoironicamente, abbandonandosi spesso a un "divertimento" – tra virgolette – che esce persino dai confini di quegli irresistibili sogni-musicarello ("il tappo è rimasto nella giapponese").

Qui si pone il problema: lo Tsai dell’interminabile inquadratura muta dell’incontro sull’altalena o lo Tsai che canta quest’amore ritrovato con quattro ballerine e fiorelloni colorati alti due metri? Lo Tsai della scena di sesso negato tra gli scaffali del videoclub o lo Tsai del balletto – splendido – con imbuti, sturacessi e un glande per cappello? La risposta dei distributori (italiani?) è: solo il secondo, visto che il trailer non mostra altro che balletti e amenità, ingannando gli spettatori che, se impreparati, rimarranno delusi. La mia risposta è: perché non entrambi? La musica (e il musical, nella migliore tradizione della fantasmagoria) in The wayward cloud è una sublimazione malinconica, e al di là del colore e dell’allegria (anche scemotta, come il numero musicale sull’appuntamento mancato) non cancella né concilia ciò che nella realtà accade, tra gli individui.

Comunque, quando si tratta di far le cose sul serio, Tsai non guarda in faccia nessuno, e così The wayward cloud è anche caratterizzato dalla componente quasi pornografica di cui tutti parlarono dopo Berlino, che impressiona per quanto si spinge oltre, e che i protagonisti hanno affrontato con ammirevole coraggio. Tsai ha il talento di tenerla in un equilibrio stabilissimo tra squallore, romanticismo e attesa, difficilmente raggiungibile. Peccato che verso la fine il "ritmo" si spezzi con una lunghissima sequenza, coraggiosa ma insostenibilmente prolungata, ma ciò non diminuisce il fascino di un film che, non lo nascond(iam)o, mi/ci è piaciuto da impazzire.

Ma il finale è di quelli che non si dimenticano, perché proprio al sesso, all’organo sessuale, allo sperma, è affidato il compito di riunire due solitidini, capaci fino ad allora solo di guardarsi e di desiderarsi da una parte all’altra di un muro. Come da una parte all’altra del mondo, d’altronde, o di un buco nel pavimento.

Più grevemente: l’incipit fruttofilo è immediatamente da antologia del cinema erotico.

Tutti i battiti del mio cuore (De battre mon coeur s’est arrêté)
di Jacques Audiard, 2005

L’ultimo film del regista francese, di cui non ho colpevolmente visto altro, è un remake di un film indie americano del 1978 (con Harvey Keitel), da me sconosciuto fino a oggi. Ed è molto diverso da quello che mi aspettavo dalla trama e dal trailer.

Perché sotto alla tipica storia di una seconda occasione e di una fuga dal dolore quotidiano ricercata attraverso la forza della musica, scorre in realtà un film estremamente drammatico e dall’impronta personale, sia nello stile ricamato e raffinato nonostante l’apparenza grezza e mobile come le mani – le vere protagoniste, per tutto il film – di Thomas, sia nei contenuti, che sono quelli di un paradigma edipico macchiato da un sangue color noir.

Autentica rivelazione, per me, Romain Duris. Bravissimo, tiene su il film da sè: andrebbe forse recuperato in francese, vista la voce dicapriana affibbiatogli dal nostro inevitabile doppiaggio. Forse non sarebbe nemmeno così irresistibile senza di lui, perché Audiard si concede qualche vezzo europeista di troppo, almeno per i miei gusti. Ma la sua regia tesa, nervosa, ellittica, anticlimatica e sfrontata, è magistrale, e il film, che era prima solo il solito bel film, si alza notevolmente verso la conclusione, fino ad un finale tanto prevedibile quanto necessario e bello.

Stupido e inutile il titolo italiano, molto appropriato quello originale.

Andrea non c’era, c’era invece Rob81, nella sua prima trasferta "ufficiale" a Bologna. Ne ha parlato qui, ora vado a leggerlo, fatelo anche voi.

Masters of horror, #1.02
H.P.Lovercraft’s Dreams in the witch house
di Stuart Gordon, 2005

Maestri dell’orrore (lo chiameranno così? arriverà mai sull’etere italiano?) passo secondo. Dopo il colpo di fulmine iniziale iniziale di Coscarelli, un passo indietro. Senza scomodare però le tragedie greche, perché se il film del regista chicaghese non rende giustizia al Lovercraft da cui è notoriamente ossessionato, è almeno diverso da come sarebbe potuto essere – in una parola: insopportabilmente trasho – confermando la sorpresa per quella cosetta strana vista a Venezia, Edmond.

Gordon sta forse crescendo, in una nuova maturità che rivive proprio nella misura del tempo breve, in cui forse non ha tempo di tirare fuori le sue pacchianate. Qui dirige, e dirige bene – nonostante un cast pietoso, quello sì, da serieB – un horror semplice semplice, condito di streghe e malefici, sacrifici umani e paradossi spaziotemporali, topi con la faccia umana e vecchie streghe nude, un bell’infanticidio e – solo verso la fine – una bella sciaquata di liquido rosso.

Cerca in tutti i modi l’angoscia di Polanski (qui esplicito nume tutelare), non riuscendoci del tutto (colpevoli alcune cadute come la citazione di Shining), spaventando molto meno del possibile, ma tirandone fuori un filmetto abbastanza sciocco e ingenuo da farsi voler bene. Si rimpiange un po’ il genio anarchico d(e)i Re-Animator, ma ci sta tutto.

[la strage nascosta]

Come qualcuno potrebbe aver notato, campeggia da un paio di giorni sulla colonna destra di questo blog un piccolo banner "autoprodotto", collegato alla pagina dedicata al servizio televisivo su Falluja prodotto da RaiNews24 che, invisibile nelle reti mainstream, nelle ultime settimane ha fatto molto parlare di sè. Ma non abbastanza.

Pensavo che potesse bastare, ma un post di "Adayinthelife" sfuggitomi negli ultimi giorni, mi ha fatto cambiare idea. Marcare, ripetere, sottolineare l’esistenza di questo documento, e non solo, è per una volta un dovere civile per un blog, anche se il blog è piccolo e umile come il mio, e anche se il blog tratta di tutt’altro. La realtà è spesso molto più assurda e spaventosa di qualsiasi film.

Ora, se non avete ancora visto il servizio, probabilmente non è colpa vostra. Ma adesso non avete più scuse. Come ama ripetere Beppe Grillo, la nostra unica arma è la conoscenza. Conosciamo, dunque.


Incollo qui di seguito l’elenco di link presenti nel suddetto post. Se avete un blog, fate altrettanto. Se volete usare il banner, fate pure.

Enzo Baldoni parla di Falluja (RealMedia)
Enzo Baldoni racconta di Falluja
(agosto 2004)

Giuliana Sgrena: Falluja, una strage al giorno
(settembre 2004)

Falluja: ieri e oggi
(novembre 2004, periodo del primo probabile attacco con MK-77)
Il video linkato nell’articolo si riferisce ad un attacco dell’aprile 2003: scaricatelo qua (tasto destro, salva con nome)

Rapporto da Falluja 1 e 2
(gennaio 2005)

Napalm by any other name
(aprile 2005)

Il servizio di RaiNews24
(novembre 2005)

911 in plane site
di William Lewis, 2004

L’undicisettembre, così come ce lo raccontano da più di quattro anni, fa acqua da tutte le parti. Non ci vuole un genio, non ci vogliono delle prove, per pensarlo. Ma è anche la dimostrazione della forza delle immagini nella nostra società: è una banalità che si ripete sempre, sono le immagini ad abbattere più delle bombe, ad inferocire più di una (vera) convinzione. William Lewis e l’host Dave von Kleist, sono convinti che si debbano combattere le menzogne nascoste nelle immagini attraverso le immagini stesse. Perché una bugia lascia sempre traccia di sè. E vedere ciò che si poteva solo ipotizzare fa un male cane.

I due autori di questo "video-oggetto" cercano di dimostrare in poco più di tre quarti d’ora che la "vera teoria della conspirazione è che Osama Bin Laden c’entri qualcosa con gli attentati del 9/11", e lo fanno con intelligenza e sagacia, recuperando soprattutto materiale che è o che è stato (prima di essere "bandito") sotto gli occhi di tutti per molto tempo ("il miglior modo di mentire è sbatterti in faccia la verità") e utilizzando una dialettica davvero serratissima – fin dall’incipit "metodologico" – che mette a dura ogni possibilità di replica.

Non si tratta di un film, né di un documentario, su cui si può dare un giudizio estetico o valoriale in qualsiasi senso. Storicamente non cambia nulla, forse perché non c’è più spazio per le lotte aperte, e non ci sono più i Jim Garrison a sfidare gli Earl Warren. 911 in plane site è piuttosto un proclama rassegnato, consapevole e incazzato, un documento complementare, necessario e dolorosissimo, un accorato (e apolitico, anzi alquanto anarchico) appello, diffuso nell’unico modo possibile, per aprire gli occhi a chi ancora stesse guardando la storia con gli occhi delle telecamere rimaste accese sui palazzi in fiamme, a chi fosse ancora convinto che le informazioni a nostro beneficio sono – con il passare degli anni – sempre di più.

Non ci sono vere risposte: ci sono teorie che diventano supposizioni, che diventano a loro volta possibilità. E c’è l’invito a pensare, a pensare con la propria testa. Farsi una domanda e darsi una risposta.

Lo distribuisce Nexus, in italiano: compratelo.

Se non avete voglia di spendere soldi, sul sito ufficiale c’è tutta le documentazione. Guardate e rabbrividite.

Grazie ai cari MurdaMoviez e ad Astor per avermi messo per due volte la pulce nell’orecchio.

[pràivasi]



CINEBLOGGERS: IL FRAPPR!

(da un’idea di MurdaMoviez: info qui)

La marcia dei pinguini (La marche de l’empereur)
di Luc Jacquet, 2005

Nota: questo post si riferisce alla versione originale del film, recitata da Charles Berling, Romane Bohringer e Jules Sitruk. Non posso giudicare l’operato dell’edizione inglese narrata dal solo Morgan Freeman, né soprattutto quello dell’edizione italiana, affidata con scaltrezza all’altrove talentuoso showman Fiorello. C’è chi l’ha trovato sopportabile, chi insopportabile, e chi (come Alberto Crespi su FilmTv) ha addirittura – cosa concettualmente un po’ sconsiderata – tessuto le sue lodi, dichiarandola "la migliore delle tre edizioni". A voi spettatori il giudizio.

Dunque, è giunto da noi il film che, con gran sorpresa di tutti ha battuto (quasi) tutti i record di incassi, tra i documentari, nelle sale statunitensi. Una sorpresa soprattutto visto che si tratta di un film europeo, categoria spesso malvista dai grossi mercati nordamericani. Ben venga quindi il successo del documentario, che pur documentario, in senso canonico, non è. E’ piuttosto uno sguardo epico, avventuroso e romantico, più che scientifico ed esplicativo, su una della più belle tra le creature della natura.

Che non è per forza, nel dettaglio, quest’adorabile (e violento) skater-bird marciatore, ma che è l’istinto, che è il senso millenario di una ripetizione che va al di là della nostra concezione umana di attaccamento e di tradizione, e soprattutto al di là della nostra concezione ristretta del regno animale. La dimensione narrativa schietta è in realtà, alla fine, un bene, perché permette di immergersi con il cuore in una natura vergine, con una forza visiva (e quasi-visionaria) vigorosa, in cui la perseveranza e il sacrificio dei pinguini imperatori riescono, pur nei limiti di un lirismo un po’ furbetto e con una colonna sonora – di Emilie Simon – non orribile di per sè ma sbagliatissima, a impressionare e a commuovere.

Poi, insomma, con attori del genere, come si fa a sbagliare il film?

Nota2: veniamo a sapere da Jiro che Jacquet avrebbe disconosciuto la versione americana e – pare – quella italiana, dichiarando che quello "non è il suo film". Si attendono conferme o smentite.
Nota3: veniamo a sapere da Tremorvoid che, dopo le dichiarazioni di alcuni gruppi religiosi americani sulla "esaltazione dei valori tradizionali cristiani quali monogamia, famiglia e sacrificio", Jacquet avrebbe risposto ""veramente non c’è nessuna metafora, si tratta solo di pinguini".

Conclusione: Luc Jacquet ci è molto simpatico.