
Manderlay
di Lars von Trier, 2005
[e ora qualcosa di completamente diverso]
Manca l’effetto sorpresa dell’illustre precedente, ma Manderlay, in tutti i sensi il sequel di Dogville, più asciutto ma con molto più spessore, con ingegno e senza colpi bassi, convince eccome. Tutto sommato è come andare a teatro, ma Von Trier gioca e si sposta con naturalezza tra mezzo teatrale e mezzo cinematografico, rinuncia al gioco ostentato dell’allestimento scenico particolare (la gente non passa più il tempo a far finta di bussare toc toc come le bimbe che giocano alle signore). Le scenografie diventano mappe e, come in tutte le mappe, le cose più piccole rimandano ad altre più grandi, ma Von Trier non potrebbe essere più esplicito nel lanciare i suoi anatemi verso quel Paese dove non è mai stato: i titoli di coda rendono la vicenda prettamente "americana"; se non ci fossero, se ci si mantenesse in un ambito più universale, preferirei. Rimangono un paio di dubbi sul senso dell’intera operazione – il timore che anche noi, il pubblico, siamo al centro di un gioco da tavolo. E ci manca Nicole Kidman.
(da Fringe, Gokachu, Ohdaesu, Stranestorie)
[e ora, il post vero*]
Manderlay
di Lars von Trier, 2005
L’atteso seguito di Dogville, atteso persino da chi come me – e come ben si sa – ha una feroce antipatia per il "maestro" danese, è proprio bello. Trier mi ha smarcato dove pensavo (e speravo) di poterlo atterrare in tackle, mi ha sgamato proprio dove pensavo di coglierlo io, con le mani in saccoccia. E invece no, diavolaccio: Manderlay non è più un giochino perfido e intelligente, non ribadisce in modo stantio tutti gli espedienti scenico-furbetti che erano reiterati con puntigliosa coerenza nel (bel) film del 2003, ma li usa come base filmica per un film – nonostante ovviamente manchi lo shock della prima volta – ben più profondo.
Un film che va a scavare nelle coscienze del popolo americano, che parla senza pudori delle nostre contraddizioni più innate, vergonose e dolorosamente umane, che ancora una volta dà una lezione preziosa di sintesi, e che sa – più che in Dogville – anche dar piacere alla retina: inizio e finale whoa!, campi lunghi folgoranti, una carrellata verso l’alto (da una piccola tomba) da sudori freddi, una scena di sesso che non dimenticheremo facilmente, e via dicendo. Ci piace, insomma.
Sono pronto a una piena rivalutazione cultuale dello zio Lars? No. Per alcune precise ragioni. Primo, non sopporto la voce supponente fuoricampo di questo, come del’ultracitato altro. Sarà il doppiaggio, ma con la forma-romanzo qui si esagera. Secondo, sono ancora convinto dell’incapacità registica di Von Trier: me lo vedo che sistema disperato in postproduzione le cafonate che ha fatto sul set. Altro che jump-cut teorico. Terzo, l’ho dimenticato. Quarto: forse due bastavano, e per quando giungerà Wasington mi sarò stufato del modulo e chiederò altro, probabilmente non ottendendolo**. Quinto, la figlia di Ritchie è bella – brava – perfetta, ma cacchio se ci manca, Nicole Kidman.
[e ora, un uomo con tre natiche]
Note
*in realtà, il missaggio è il mio post vero, e rispecchia molto quello che penso del film. peccato che sia tutto un plagio. grazie ragazzi, vi adoro.
**in realtà non è quello che penso davvero, mi sto anzi (auto)convincendo che Wasington sarà un film talmente bello da sistemare i relativi problemi dei suoi predecessori, formando un’unica, grande, opera trilogica. Boh. Vedremo.