2005

You are browsing the site archives by year.

[la guerra è finita]

“Vivere non è possibile”: lasciò un biglietto inutile prima di respirare il gas, prima di collegarsi al caos. Era mia amica, era una stronza, aveva sedici anni appena. Vagamente psichedelica la sua t-shirt all’epoca, prima di perdersi nel punk, prima di perdersi nel crack, si mise insieme ad un nazista conosciuto in una rissa. E nonostante le bombe vicine e la fame, malgrado le mine, sul foglio lasciò parole nere di vita: "La guerra è finita, per sempre è finita, almeno per me”. ‘Emotivamente instabile, viziata ed insensibile’ il professore la bollò, ed un caramba la incastrò durante un furto all’Esselunga. Pianse e non le piacque affatto. E nonostante le bombe alla televisione, malgrado le mine, la penna sputò parole nere di vita: “La guerra è finita, per sempre è finita, almeno per me”. E nonostante sua madre impazzita e suo padre, malgrado Belgrado, America e Bush, con una bic profumata da attrice bruciata, “La guerra è finita”, scrisse così.

Baustelle, "La guerra è finita", in La Malavita, Warner, 2005

[fuck, yeah]

Lord of war
di Andrew Niccol, 2005

(nota: lievissimi ma possibili spoiler)

"There are two types of tragedies in life. One is not getting what you want, the other is getting it."

Lord of war è il terzo film di Andrew Niccol, e dopo due pezzi da medaglia come Gattaca e S1m0ne era lecito aspettarsi un capitombolo, o almeno un passo falso. Quest’ultimo puntualmente arriva. Anche se Lord of war, da opera minore, molto minore, quale è, conserva più e più motivi d’interesse.

Prima di tutto, un film che tratti un argomento così scottante e decisivo per l’umanità, in modo così schierato ed esplicito, è comunque ben accetto. Nonostante Niccol si soffermi un po’ troppo sulle menate matrimoniali tra Cage e quel figone di Bridget Moynahan, senza badare troppo al nocciolo del problema, che va al di là delle imprese individuali dei trafficanti e si pone piuttosto su un piano politico internazionale. Ma nel finale tira un cambio di rotta – nel massacrante dialogo tra Cage e il magrissimo e compassato Ethan Hawke – che fa strabuzzare gli occhi per quanto è diretto al segno.

Finale – soprattutto successivo al dialogo – che stabilisce anche il secondo motivo di interesse: Lord of war è un film attaccato con i denti alla realtà, pur in una forma-romanzo. A una realtà in cui "il male trionfa sempre", e a una realtà in cui un proiettile ha un solo scopo nella vita. Quello di esplodere in testa a qualcuno, come nei titoli di testa, tra i più belli degli ultimi tempi, che fanno di un proiettile quello che Burton ha fatto con il cioccolato. Un raro caso di titolazione – una volta accadeva più spesso – che è anche una dichiarazione d’intenti, ed estremamente polemica.

Tutto bene. Peccato che il film non sia al livello di tutto questo. La prima parte è persino atroce: riassuntiva e tirata-via nella storia "carrieristica" di Orlov, melodrammatica ed enfatica nei rapporti tra i personaggi ma senza la capacità di gestirli con un dialogo adeguato. Le cose migliorano ingranando la terza, ma mai del tutto, mai fino a soddisfare. Il problema sono i rapporti familiari, slegati dal contesto, smielati, quasi ridicoli. Questo sì che spiace: perché Niccol è prima di tutto un grande sceneggiatore, e questa sceneggiatura, nonostante una marea di perle che ci si porta a casa contenti, non funziona.

Come non funziona la regia, troppo incerta sul da farsi, che abdica quindi imbarazzata allo script, e si rivela infine nuda e cruda. Niccol è ancora molto bravo a gestire gli oggetti negli spazi, a usare il formato panoramico, a usare gli attori (con Cage dev’essere una faticaccia), ma roba come il sogno nuit américaine con Ian Holm col buco in testa e la bambina che chiede "mi ricrescerà il braccio?" non gliela si può perdonare.

Almeno sul finale, come già accennato, si chiarifica ogni dubbio con la conferma di quel che rimane: il ritratto di un indefesso lavoratore, un vero "figlio di puttana americano" (anche se "importato": non hanno figli di puttana originali da quelle parti?), che rinuncia a tutto per il suo lavoro, perché non può far altro, non sa far altro che il suo lavoro, e che continuerà a farlo. Certo, sotto l’ala dei potenti, finché sulla terra non resteranno solo lui, i suoi colleghi, i potenti, i suoi "capi". E migliaia di milioni di bozzoli vuoti.

"You know who’s going to inherit the world? Arms dealers. Because everyone else is too busy killing each other."

Masters of horror, #1.01
Incident on and off a mountain road
di Don Coscarelli, 2005

Una ragazza viaggia su una strada di montagna, una canzone in sottofondo. Passa il tempo, ci facciamo le domande classiche: dove sta andando, da dove viene? La canzone è alla radio, lei cambia stazione, si distrae: incidente. Buio. Luce. La ragazza è al primo appuntamento con un tizio. Lui dice cose strane, a dirla tutta. Ma poco conta, perché a lei piace tanto. Vanno a casa di lui, si baciano sotto la pioggia, fanno l’amore. Buio. La ragazza si sveglia, sanguinante sul volante, e l’altra macchina è vuota. Ci dimentichiamo delle domande, perché l’incubo è appena iniziato.

L’antologia seriale creata da Mick Garris per la rete Showtime inizia col botto, e con i migliori auspici per i 12 capitoli successivi. L’autore di Bubba Ho-tep infatti, adattando (ancora) un racconto di Joe Lansdale, costruisce un film che, se da una parte – quella del presente – è purissimo horror, piacevolmente gore dal gusto seventies aggiornato ai tempi di Rob Zombie e Neil Marshall, dall’altra – quella del flashback – getta qualche provocazione originale, e soprattutto politica.

Per poi concludersi con lo sberleffo, con niente più che un gimmick stiloso: quando scopriamo la risposta alle nostre domande sull’inizio. Ma oltre al divertimento – è la dote principale, ed è massiccio – c’è anche una riflessione, sconcertante se la si vuole leggere, sul fascismo familiare come reazione alle minacce endogene, e sulla – tutta americana – misantropia paranoide. Coscarelli però le butta lì senza darci troppo peso, e si riconferma soprattutto un signor regista, con un film che – oltre a tutto ciò – trasuda passione per il genere, lo onora e lo ringrazia, e già che c’è, ci mette strizza. Bravo.

Manderlay
di Lars von Trier, 2005

[e ora qualcosa di completamente diverso]

Manca l’effetto sorpresa dell’illustre precedente, ma Manderlay, in tutti i sensi il sequel di Dogville, più asciutto ma con molto più spessore, con ingegno e senza colpi bassi, convince eccome. Tutto sommato è come andare a teatro, ma Von Trier gioca e si sposta con naturalezza tra mezzo teatrale e mezzo cinematografico, rinuncia al gioco ostentato dell’allestimento scenico particolare (la gente non passa più il tempo a far finta di bussare toc toc come le bimbe che giocano alle signore). Le scenografie diventano mappe e, come in tutte le mappe, le cose più piccole rimandano ad altre più grandi, ma Von Trier non potrebbe essere più esplicito nel lanciare i suoi anatemi verso quel Paese dove non è mai stato: i titoli di coda rendono la vicenda prettamente "americana"; se non ci fossero, se ci si mantenesse in un ambito più universale, preferirei. Rimangono un paio di dubbi sul senso dell’intera operazione – il timore che anche noi, il pubblico, siamo al centro di un gioco da tavolo. E ci manca Nicole Kidman.

(da Fringe, Gokachu, Ohdaesu, Stranestorie)


[e ora, il post vero*]


Manderlay
di Lars von Trier, 2005

L’atteso seguito di Dogville, atteso persino da chi come me – e come ben si sa – ha una feroce antipatia per il "maestro" danese, è proprio bello. Trier mi ha smarcato dove pensavo (e speravo) di poterlo atterrare in tackle, mi ha sgamato proprio dove pensavo di coglierlo io, con le mani in saccoccia. E invece no, diavolaccio: Manderlay non è più un giochino perfido e intelligente, non ribadisce in modo stantio tutti gli espedienti scenico-furbetti che erano reiterati con puntigliosa coerenza nel (bel) film del 2003, ma li usa come base filmica per un film – nonostante ovviamente manchi lo shock della prima volta – ben più profondo.

Un film che va a scavare nelle coscienze del popolo americano, che parla senza pudori delle nostre contraddizioni più innate, vergonose e dolorosamente umane, che ancora una volta dà una lezione preziosa di sintesi, e che sa – più che in Dogville – anche dar piacere alla retina: inizio e finale whoa!, campi lunghi folgoranti, una carrellata verso l’alto (da una piccola tomba) da sudori freddi, una scena di sesso che non dimenticheremo facilmente, e via dicendo. Ci piace, insomma.

Sono pronto a una piena rivalutazione cultuale dello zio Lars? No. Per alcune precise ragioni. Primo, non sopporto la voce supponente fuoricampo di questo, come del’ultracitato altro.  Sarà il doppiaggio, ma con la forma-romanzo qui si esagera. Secondo, sono ancora convinto dell’incapacità registica di Von Trier: me lo vedo che sistema disperato in postproduzione le cafonate che ha fatto sul set. Altro che jump-cut teorico. Terzo, l’ho dimenticato. Quarto: forse due bastavano, e per quando giungerà Wasington mi sarò stufato del modulo e chiederò altro, probabilmente non ottendendolo**. Quinto, la figlia di Ritchie è bella – brava – perfetta, ma cacchio se ci manca, Nicole Kidman.

[e ora, un uomo con tre natiche]


Note

*in realtà, il missaggio è il mio post vero, e rispecchia molto quello che penso del film. peccato che sia tutto un plagio. grazie ragazzi, vi adoro.

**in realtà non è quello che penso davvero, mi sto anzi (auto)convincendo che Wasington sarà un film talmente bello da sistemare i relativi problemi dei suoi predecessori, formando un’unica, grande, opera trilogica. Boh. Vedremo.

[meanwhile]

I Pinguini e Melissa, Fargo-bis e Niccol-speriamo-bene, Herzog e Sokurov per i duri-e-puri: in mezzo a una montagna di roba, esce domani nelle nostre sale anche l’ultimo film del newyorkese Abel Ferrara, coprodotto con capitali italiani e francesi. Si intitola Mary.

Il film è passato a Venezia, dove ho avuto l’occasione di vederlo, e da dove si è portato a casina il Gran Premio della Giuria. Strano: Mary è un pastrocchio confuso e irritante, affascinante per alcuni versi, ma tutto sommato una delle opere più irrisolte di Ferrara. Ripensando a film come Ms.45, Fratelli o The addiction, e nonostante non si arrivi al baratro di New rose hotel o Blackout, non posso che sconsigliarvelo. Se proprio dovete, confido per voi nella soggettività dei miei gusti.

In ogni caso, il mio breve post è qui, su Lidobloggers.

La comunidad
di Álex de la Iglesia, 2000

Svelato l’arcano: l’immagine del post precedente viene da qui.

La visione di Crimen Ferpecto mi ha spinto a recuperare qualcosa di un regista che avevo più volte accantonato. Idiota: per esempio, mi ero perso La Comunidad, una commedia nera, anzi nerissima, crudele, anzi sanguinaria, acida, anzi perfida.

Tutta ambientata in un condominio malandato e sozzo, con gran finale sui tetti di Madrid, la vicenda è – risaputamente – quella dei soldi che vengono trovati e che tutti vogliono, ma realizzata con una mano leggerissima nonostante gli omicidi, i corpi putrefatti, un corpo spezzato in due da un ascensore (!), con belle musiche hermanniane a manetta, grassissime risate e un sopraffino uso del citazionismo e del deja-vu. Bello davvero.

E il tono caustico di Iglesia non è solo per questo branco di avidi e assatanati madrileni: "l’animale più feroce è il denaro", dice un documentario alla tv. E come si ripete stesso, siamo tutti così, tutti. Carmen Maura in grazia di Dio, anche a 55 anni nuda sotto la doccia. Eduardo Antuña, mammone subnormale che butta i soldi delle commissioni nella madre con i videopoker, e si masturba vestito da Darth Vader e spiando la Maura, gemendo "Sento la forza!", è un colpo al cuore.

Crash – Contatto fisico (Crash)
di Paul Haggis, 2004

In poche ore a Los Angeles si incrociano i destini di un trafilone di personaggi, divisi dall’etnia e dai rapporti di potere, e accomunati da dolori che esplodono in un attimo, all’interno di una città che sembra stia per scoppiare anch’essa. E’ facile tirare fuori i nomi, e nemmeno ingiustificatamente: Altman e Anderson, Inarritu e Tarantino, e chi più ne ha più ne metta. Il meccanismo è quindi, anche se complesso, ben oliato. Ma siamo sicuri che basti ribadirlo per creare un racconto corale?

Ma la questione è un’altra: è il manicheismo del film a non convincere del tutto. Manicheismo a doppia mandata, certo. La struttura può essere semplificata così: tutti hanno una lezione da imparare, e allo stesso tempo una lezione da insegnare. Tutto qui. Non ci sono quindi buoni contro cattivi, ci sono bensì persone buone e cattive. Ma non ci sono nemmeno vie di mezzo tra l’essere vittima immolata e spietato carnefice. Mancano tutti i mezzi toni, e la sensazione potrebbe sfociare nell’eccesso ridicolo (il film è decisamente troppo breve per la carne che mette al fuoco) se non fosse per il bilanciamento dato dalla sceneggiatura.

Non che sia tutt’oro in fase di scrittura: se Crash non è di sicuro un film verboso (e ringraziamo di cuore) è di sicuro un film urlato. Cosa che può irritare facilmente, e lo fa. Ma è anche politicamente coraggioso, spavaldo, esplicito: ne facessero di più, di dialoghi così. Rende perfettamente l’idea-base del film fin dal titolo, quella di una città-mondo in cui, paradossalmente, il solo valore per combattere il caos e la confusione dei mille corpi che si passano accanto senza toccarsi sia appunto l’interazione micro, peer to peer potremmo dire, il contatto, anche se scioccante come un crash. Anzi, solo se scioccante e violento, solo se in condizioni traumatiche. D’altra parte, la forza distruttiva (e poi costruttiva) dello script non è ben accompagnata da una regia adeguata. Sembra strano: a volte manca il cinema, a volte ve n’è fin troppo.

Si intenda, non si può dire che sia un brutto film. Sarebbe inappropriato, persino forzato. E’ anche un film che si farebbe rivedere volentieri. Ma prendiamo ad esempio la massima scena-madre del film, quella del secondo incontro tra Dillon e la Newton: emoziona, turba, commuove. Uno sguardo indietro, un perdono con la coda dell’occhio. Straordinario. Allo stesso tempo, non possiamo che osservare quanto la suddetta scena sia costruita in un modo che stride con l’intensità del momento. Succede anche in altre belle sequenze (quella dello scudo antiproiettili, per dirne una). Uno sguardo derivato e impreciso, grezzo e furbetto, che fa sognare che Haggis torni a scrivere per qualcun altro. Che so, per Michael Mann, che sulla città aveva detto molto di più con due, due soli, personaggi.

Un film con innegabili luci e con tante ombre, e posta la difficoltà affrontata per scrivere qualche riga su di esso, chiudo con un meritato elogio per gli attori. Tutti bravissimi, sia le conferme (Matt Dillon, Don Cheadle, la bella-quanto-brava Thandie Newton), sia quelli che non ci aspettavamo e ci hanno sorpreso (Ryan Philippe, Sandra Bullock), senza dimenticare Michael Peña. Un cast favoloso insomma, e per una volta non banale. Da godere, magari, in lingua originale: altrimenti che senso ha tesserne tanto le lodi?

Dark water
di Walter Salles, 2005

Per girare un remake di uno dei migliori horror giapponesi degli ultimi anni, forse il capolavoro di quella "nuova onda" che ha investito – più con schizzi di rimando che con flusso diretto – anche le "nostre" coste, non si poteva pensare a regista più inadatto. Non per qualità, che non giudico avendo visto solo un suo film (che comunque non mi piacque affatto), ma per il connubio tra esperienza e attinenza. Siamo sempre portati a pensare che, se proprio devono propinarci remake di film che amiamo tanto, debbano dirigerli Romero o Carpenter.

Ci sbugiardano, con la sorpresa delle sorprese: il Dark Water di Walter Salles non è affatto male. Anzi. Ve lo dice uno che appena sente puzza di remake corre ai ripari della protesta. E invece Salles è riuscito a fare ciò che era già riuscito a Verbinski con il primo remake di The Ring: portare in occidente l’horror nipponico, che ha delle caratteristiche precise e ineliminabili, utilizzando il principio dell’adattamento, e non quello della banalizzazione o dell’appiattimento in vista di un pubblico instupidito dal burro d’arachidi. Forse per questo non ha avuto molto successo…

Le mani del cinquantenne regista brazilero si rivelano, con nostro grande stupore (nonostante Pier Maria Bocchi ci avesse avvertito), più che adatte: con classe e maturità intellettuale non indifferente gestisce la storia dolorosa, oscura e "umida" di Dahlia/Yoshimi, una storia di due (tre) madri e due (tre) figlie, di responsabilità e sacrifici, di lacrime che diventano "pioggia sporca", non finalizzando il tutto al banale spavento, ma prendendo tempo e facendo maturare un’angoscia letteralmente nakatiana, giocando bene con le location e con i personaggi di contorno (Tim Roth su tutti) e costruendo persino scene di grande suggestione, come tutto il crescendo dei due – coerentissimi e coraggiosi – finali.

Non riesce a Salles il mezzo miracolo di quasi-eguagliare l’originale come accadde a Verbinski, e quindi Honogurai mizu no soko kara rimane su un altro piano, perché qualche piccola cantonata Salles la prende, ma è roba da poco (qualche chiacchiera di troppo?), perché più di così era davvero difficile, impossibile chiedere. E ci sentiamo persino un po’ in colpa per averlo deriso per mesi e ignorato alla sua uscita nelle sale. Shame on us.

Crimen perfecto (Crimen ferpecto)
di Álex de la Iglesia, 2004

Rafael è un uomo di successo, perché ha imparato la due semplici regole che reggono la nostra civiltà. L’immagine è tutto, perché la bruttezza è la prima fonte dell’infelicità. Prendersi sempre quello che si vuole, perché il desiderio è la seconda fonte dell’infelicità. Rafael è una specie di epitome della nostra società, la società dei centri commerciali dove lui lavora, e dove campionari di varia e squallida umanità si avvicendano tra gli scaffali fingendo, nascondendosi, rubacchiando.

Sul suo cammino di successo – che diventa anche sopravvivenza omicida – Rafael incontra Lourdes. Che è brutta e insopportabile, follemente desidera ed è fottutamente determinata. E’ insomma la forza che sovverte le regole del mondo di Rafael: per questo Crimen ferpecto è un film sottilmente – ma non troppo – anarchico. Perché è vero che gioca con meccanismi semplici e basilari, a volte barbari e inconsulti. Ma è vero anche che restituisce un’idea della modernità caotica e crudele almeno quanto la modernità merita.

Ed è innegabile che, a dispetto di una campagna pubblicitaria fuorviante, Crimen ferpecto sia uno spasso incredibile: inizio sgargiante (Rafael che limona con la figona sulle strisce pedonali), risate e cattiverie – ma nessuna inettitudine -, prefinale infuocato e finale, inevitabile, ma che si fa ugualmente apprezzare. Geniale il fantasma con l’accetta fumante nel cranio, scheggia freak che sembra venire da Azione Mutante. Altri tempi, grazie al cielo.

Inspiegabile il titolo italiano, vista la coproduzione nostrana. Che il nostro caro pubblico sia così stupido da capire una cosa spiegata esplicitamente nel film? Bah. A noi ci piace quello originale, a noi.

[meanwhile]

Escono oggi nelle sale italiane due film che vi garantisco essere degni di nota.

Il primo, lanciato con un sacco di copie, un battage violento e un titolo italiano scemo, è l’ultimo film del nostro-sempre-caro Terry Gilliam, da me visto all’ultima Mostra di Venezia. The brothers Grimm, ovvero I fratelli Grimm e l’incantevole strega, per quanto non sia il miglior Gilliam, un film piacevole e divertente, "un figlio minore di Munchausen". Andate a vederlo, su.

(qui il post dei Lidobloggers. Oltre a me, tre delusi: Andrea, Ohdaesu – che poi ha cambiato idea – e Murdamoviez)

Il secondo film, lanciato con pochissime copie, copertura silenziosa e un titolo italiano corretto, è l’esordio di Liev Schreiber, Ogni cosa è illuminata. Spassoso e commovente al tempo stesso, e davvero sorprendente. Se riuscite a trovarlo in giro, non perdetevelo (anche se si temono giustificatamente gli effetti devastanti del doppiaggio).

(il post degli stessi quattro Lidobloggers è qui: direi che ci è piaciuto)

Oliver twist
di Roman Polanski, 2005

Oliver Twist, caso strano di eroe di un romanzo il cui protagonista è in realtà tutto ciò che sta fuori da lui, è come un perno intorno al quale gira il mondo. Ed è un mondo brutale e violento, quello che Oliver vede con i suoi occhi innocenti e impotenti, l’immagine di una civiltà fumosa e buia anche se accesa da timide candele di speranza, una civiltà che mangia i suoi figli brutti, sporchi e cattivi con il furore di un Saturno industriale. E fin qui, poco merito a Polanski, molto a Dickens. Eppure.

Eppure Polanski – anche se non non è amore in queste vesti, perché lo si preferisce quando osa e turba: non lo fa da undici anni – non forgia solo una rappresentazione fluida del mondo dickensiano limitandosi ad un dichiarato (ma solo apparente) adattamento-copycat, ma stupisce per come riesce, dopo un’abbondante metà in cui si segue facilmente il film e lo si apprezza moderatamente e senza alcun entusiasmo, riesce a seminare nei suoi personaggi una vorticosa profondità.

E sono questi i tratti più distintivi del film, sono i cambi di rotta dei personaggi. O la loro feroce coerenza. L’urlo di Dodger dalla finestra, la fatale barbarie di Sykes, e soprattutto Nancy: il suo dolore, la sua rassegnazione, il suo gesto martire, le sue urla e la sua morte. Un rivoletto di sangue all’uscio è il suo lascito umano: brava, bravissima Leanne Rowe.

E ci pare pure strano, ma è difficile non rimanere commossi durante la sequenza finale, durante i passi infiniti nel buio del carcere, verso la cella, verso la preghiera, verso il perdono. Che lo sai, te lo aspetti, ma ti stringe comunque il cuore. Solo questione di professionalità, forse, ma Polanski ne ha ancora da vendere.

E non si faccia l’errore di considerare Polanski un traditore che ha abdicato al classicismo: anzi, è anche (anche se non soprattutto) per film come Tess e Il pianista che lo amiamo, perché nonostante si appiattisse volutamente sul piano iconografico faceva scaturire il suo sguardo sull’essere umano – spesso impietoso e spesso impietosito – proprio da quei paesaggi calligrafici e/o da quei movimenti di macchina fin troppo calibrati.

E questa 26ma versione del romanzo dickensiano non fa eccezione all’eccezione stessa: non sapremmo che farcene, di un simile Oliver Twist. Eppure, eppure sì, ma sì, ci piace.

[cinnamon]

La sparizione delle sagome dei camerieri fuori dai ristoranti non è avvenuta in una data precisa. Sono cose che misteriosamente accadono, come la comparsa dei biscotti Togo al cioccolato. Tutto è cambiato. Prendete le ciuingam. Quando ero piccolo il massimo erano le ciuingam a palline dentro la boccia. Perché una cosa va detta: anche se i telefilm erano in bianco e nero c’era sempre una cosa a colori: la boccia delle ciuingam. Poi sono venute le prove tecniche di trasmissione. Se eri fortunato ti poteva capitare di avere un amico con l’antenna esatta che captava la Svizzera o Capodistria. Tele Capodistria era un vulcano di emozioni: film partigiani dove i tedeschi erano cattivi e i partigiani buonissimi e intelligentissimi. Un paradiso socialista. Dopo le palline sono arrivate le Riprova, sarai più fortunato. Le più ambite erano quelle di Fort Apache. Se superavi la prova potevi lanciarti dalle Brooklyn, la gomma del ponte. Al tempo però le ciuingam avevano un mucchio di sapori in più. Il meglio, il più rivoluzionario era il Cinnamon. Il Cinnamon era il vero gusto da Black Panters, da Malcolm X. Il Cinnamon è la cannella, ma non vale. Il Cinnamon, quando è arrivato il riflusso, lo hanno abolito: evaporato, sparito! Uno andava al bar e trovava solo le Centerfresh, quelle con dentro il liquido. Ciuingam da "maggioranza silenziosa". La Sinistra calava ed ecco comparire le ciuingam del capo che mangia pesante. PESANTE… Erano tempi difficili. C’era chi si dava alle Stimorol danesi, chi si drogava con le Dentigomma che si trovavano solo in farmacia. Poi il miracolo: un giorno, al Circolo Gramsci, preso dallo sconforto per aver scoperto che esistono le Big Babol Revolution, ho gettato l’occhio dietro i boeri e alle liquirizie Goleador: le Cinnamon erano tornate! Strano che l’Unità non avesse detto niente. Alle Cinnamon e a tutti i compagni caduti bisognerebbe dedicare una piazza davanti a un ipermercato.

Offlaga disco pax, "Cinnamon", in Socialismo tascabile, Santeria/Audioglobe, 2005

L’arco (Hwal)
di Kim Ki-duk, 2005

Si muovono due anime dentro me dopo la visione, in sala, dell’ultimo film di uno dei registi che più ho amato negli ultimi anni. Due anime che corrispondono, più o meno – perché non condivido comunque estremità quali le lodi eccessive o immeritate "insufficienze" – alle due posizioni della diatriba che divide i cinebloggers fin dalla prima proiezione post-Cannes. Questo è un vero e proprio disclaimer: siete liberi, liberissimi, di insultarmi o di darmi del cerchiobottista per questo strano e schizofrenico post, ma al momento non trovo altro modo per esprimere con pienezza la mia – parziale – delusione per il film e la mia – sempre parziale – ancora rinnovata ammirazione per il suo autore.

L’arco è inequivocabilmente un film di Kim Ki-duk, in tutto e per tutto. E’ quello che Kim – e soltanto lui – poteva fare di un soggetto simile.

Allora perché noi che amiamo tantissimo l’ormai arcinoto regista coreano ne usciamo così sconfortati e delusi? Perché proviamo questa insoddisfazione che, nonostante l’aria di qualche critica pesante – soprattutto da fonti non sospette – non ci aspettavamo? Perché L’arco è un film che non taglia e che solo cuce, che non strazia e che solo affascina, un film né imperfetto né perfetto, forse solo un bel film, un gran bel film di cui non sentivamo la mancanza. Diavolo! Dov’è la stratificazione di Ferro 3, la passione di Address unknown, la struggente e violenta poesia di Bad Guy? Un solo anno da Samaria, ma sembra sia passato un secolo: e si dicono sempre le stesse cose, ma si ha l’impressione che siano sempre meno, le cose da dire. Speriamo solo che sia solo un passo falso, una pecca da perdonare a posteriori, non l’inizio della fine.

Paradossi della politica degli autori: se fosse un film di un altro regista tutti condanneremmo i suoi limiti – o meglio i suoi difetti – senza remore, tra gli sbadigli.
E invece no.

L’arco  è inequivocabilmente un film di Kim Ki-duk, in tutto e per tutto.  E’ quello che Kim – e soltanto lui – poteva fare di un soggetto simile.

Minore, certo, ma che forza: è ancora difficile trovare nel cinema mondiale un autore capace di far dialogare due personaggi tra se stessi, e con la natura, con il solo ausilio degli sguardi, dei silenzi. Senza dire una parola, condannando anzi tutte le parole che, nel mondo, vanno sprecate, e che sono l’unica vera violenza. L’arco è l’ulteriore e bella conferma di un cinema magico capace di sospendere se stesso e di sublimare l’emozione dei corpi e delle anime con metafore ardite ma miracolosamente mai stucchevoli. Un cinema che diventa aria e nuvola, per poi tornare ad essere carne, sangue, e poi morte, e di nuovo vita. Non va condannato solo per la sua – molto più che evidente – natura "interlocutoria". E’ imperfetta, ma un’opera sola, e sarebbe un grave errore a causa di essa perdere la fiducia nella grandezza di Kim.

Paradossi della politica degli autori: se fosse di un altro regista passeremmo tutti oltre i suoi difetti – o meglio i suoi limiti – e promuoveremmo, in lacrime.
E invece no?

Female yakuza tale (Yasagure anego den: sôkatsu rinchi)
di Teruo Ishii, 1973

"My friends call me Yoshimi of Christ. When I pray, I kill."

Il film inizia proprio come The blind woman’s curse: una donna tatuata affronta a spada sguainata, sotto la pioggia – al ralenti – un gruppo di uomini. Ma ci si rende conto presto che le cose sono diverse, perché i suoi vestiti si lacerano e la donna – la bellissima Reiko Ike, per la precisione – rimane a combattere completamente nuda. E questi sono solo i titoli di testa.

Infatti l’erotismo è il tratto più marcato di un prodotto consapevole del decennio in cui si trova (si capisce dai look cool, dalle musiche, dalle situazioni) e dei meccanismi di sesso e violenza del cinema exploitation (anche occidentale). E così, Ishii costruisce un film iper-pop, truce e sporcaccione, che ruota attorno – per dirne una – a una gang di malfattori che trafficano droga in dildo-contenitori inseriti in orifizi femminili (sic) di ladruncole assuefatte all’eroina.

Al di là del softcore spiattellato, non è certo un Joe d’Amato: anzi, un bel divertimento, con personaggi azzeccati (la suora-killer), scene molto forti ma emozionanti (l’omicidio a scariche elettriche e strangolamento della giovanissima figlia del boss), e soprattutto un grandissimo finale che vale tutto il film, in cui si compie la vendetta collettiva delle donne, che dopo essersi spogliate come in un film di Berkeley, massacrano i maschiacci e pisciano sui loro corpi morti. Oh, yeah.

Ho considerato il film come a sè stante, ma in realtà è il sequel di Sex and fury, di Norifumi Suzuki, che conto di recuperare quanto prima.

A differenza di quasi tutta l’opera di Ishii, il film è disponibile da poche settimane in uno svavillante dvd americano.

Si è già parlato di Teruo Ishii nel post su The blind woman’s curse, a cui rimando.

I heart Huckabees – Le strane coincidenze della vita (I heart Huckabees)
di David O. Russell, 2004

"Fuckabees!"

Si può raccontare una diatriba filosofica in forma di commedia? Russell se lo chiede e ci prova, ricicla senza pudore il detective olistico di Douglas Adams, mette in campo due detective panteisti contro una francesce nichilista, e ottiene un film stralunato ed irrisolto, divertente anche se sostanzialmente inutile, in cui la sceneggiatura passa da un’intellettualismo di mano pesante – che rende il film a tratti un po’ indigesto – a trovate bizzarre, e quasi demenziali.

Ma la visione del mondo del regista di Three Kings, almeno, è preoccupata della realtà, del presente e dell’individuo contemporaneo, e pur nel caos di un racconto corale che prende mille strade – spesso cieche – butta lì qualche pietra bella affilata sull’america di oggi (il pranzo nella famiglia ipocrita a bigotta), e non risparmia nessuno, né gli ecologisti pronti a divorarsi per una qualsiasi Shania Twain, né gli aguzzini delle multinazionali. Con molta, troppa speranza per tutti, e uno stile strafottente e vezzoso ma originale e stravagante.

Si può tranquillamente uscirne ammirati, come annoiati, come incazzati, oppure – è il mio caso – uscirne e dimenticarsene. Quel che è certo è che il cast fa paura, tutti divertiti e bravi. Noi qui – come al solito – si fa il tifo per Naomi Watts, modella sull’orlo di una crisi di nervi, eccezionale sia in costume da bagno che conciata da amish.

The blind woman’s curse (Kaidan nobori ryu)
di Teruo Ishii, 1970

Chi era Ishii Teruo? Meno noto in occidente rispetto ad altri suoi "colleghi di genere" come Suzuki e Fukasaku, è autore di culto in patria, per i suoi ero-guro (erotico-grotteschi) e per alcuni film con Sonni Chiba, oltre che per il suo ritorno nelle sale degli ultimi anni. I frequentatori del Far East Film Festival l’hanno conosciuto (anche di persona) nel 2003, quando i ragazzacci di Udine gli dedicarono una retrospettiva, e quest’anno, un mese dopo la sua morte (il 12 Agosto, per cancro ai polmoni) Marco Muller l’ha omaggiato (a sorpresa, me distratto!) proiettando a Venezia l’introvabile Horror of a deformed man.

The blind woman’s curse (o Tattoed swordswoman), è un film bizzarro ed acceso, un misto di chambara eiga e yakuza eiga che non disdegna l’horror, e che nonostante la mescolanza rispetta le regole dei singoli generi che affronta. Forse troppo, perché si sente spesso la mancanza – soprattutto nella parte centrale – di guizzi personali e rivoluzionari, e perché la splendida Meiko Kaji sarà ancora più splendida in Lady snowblood (1973). Ma il film di Fujita ha qui le sue radici, la regia mobilissima è sorprendente, la violenza abbondante ma stilizzata, non c’è un attimo di pace e c’è invece una tonnellata di ironia. La svolta femminina del genere con il clan di yakuza "misti" e il duello tra la protagonista dall’animo puro e la cieca vendicatrice non possono non farci suonare qualche campanello.

Un oggetto affascinante e imperfetto, con tutta probabilità parte di un percorso che ci sfugge. Per ignoranza, forse. Ma con tutti i suoi limiti, ha un incipit marziale (una mischia con ralenti e fermoimmagini sotto la pioggia) e un finale western (il duello suddetto, con enormi nuvole surrealiste) potenti e impressionanti, degni di un’antologia dei generi popolari nipponici.

Sul web a proposito di questo film pare non esista nulla in italiano. Linko quindi due interessanti schede in francese, una entusiasta e una molto meno. Tanto per farsi un’idea.

Essenziale (anche per questo post) la scheda del guru
Mark Schilling su Ishii, sul sito del FEFF.

Elizabethtown
di Cameron Crowe, 2005

L’uomo che trasformò Abre los ojos in Vanilla sky colpisce ancora, e trasforma Garden state in Elizabethtown. Lungi dall’esserne un remake, raccoglie l’eredità del sorprendente film di Braff, recuperando tutta la linea narrativa (muore un mio genitore – faccio un viaggio funeral-familiare nella provincia – i miei parenti credono sia una star mentre sono un fallito – incontro una ragazzetta pazzerella e mi innamoro – recupero la voglia di vivere), e non solo. E ancora una volta fallisce. Certo, per citare il film stesso, "There’s a big difference between a failure and a fiasco", e questo film forse non è un fiasco, sarebbe ingentile, ma è di certo un fallimento. Sarà la versione italiana (in cui si perdono i giochi sull’accento del Kentucky, bah), sarà pure la versione rimontata, ma è un fallimento.

Qualcosa si salva, e il film per una mezz’ora, per tre quarti d’ora, è anche banalmente piacevole. Ma non è possibile (s)tirare un film simile per due ore e passa, con sette/otto finali uno in fila all’altro (di cui l’ultimo è il più prevedibile), perché la pazienza del pubblico ha un limite, o almeno la mia. E anche se sei un critico musicale, ce l’hai pure raccontato in Almost famous (bella eccezione della sua filmografia), e sei ossessionato da questa benedetta musica rock – peggio che Linklater – non puoi straziarci con decine di canzoni una dietro l’altra in preda all’horror vacui giusto per farci vedere quante ne sai. Sennò poi dai l’impressione, e seria, che tu sia un dj più che un vero regista, e che tu abbia fatto un film per pubblicare una maledetta compilation.

Il problema del film è che starebbe anche in piedi, e fa doppiamente rabbia che sia tutto tutto così, anche leggermente, "sbagliato": come la lunghissima telefonata amorosa (gli americani hanno delle tariffe incredibili, eh?): sarebbe una sequenza davvero graziosa, eppure Crowe la stempera con una sequela di frasette isolate degne di una "smemo" (Gli uomini vedono le cose in una scatola, le donne in una stanza rotonda? Di’ giuro!), buttate lì per far contente tutte quelle (migliaia migliaia migliaia) di ragazzine accorse solo per vedere Orlando Bloom. Che è impacciatissimo, e rimpiangiamo a cavallo del suo mitico elfo-surf.

Ecco, detto questo, detto tutto questo, noi qui si adora Kirsten Dunst, e ogni volta che appare sullo schermo durante il film non ci fa pentire di aver pagato il biglietto (o, nel mio caso, di aver mosso il culo da casa approfittando dell’anteprima gratuita), e ogni volta che sorride dimentichiamo tutta la balordaggine che le sta attorno, e applaudiamo dentro il cuore. Zitti zitti, però.

Rinchiudete Susan Sarandon.

Imperdibile il post di FedeMc su SecondaVisione, dopo la proiezione del film a Venezia.