Munich
di Steven Spielberg, 2005
I film di Spielberg sono impossibili poliedri dalle tre facce: una è quella fiabesco/narrativa e più spiccatamente di genere, l’altra è quella storico/politica, più o meno corretta nella rappresentazione e/o riproduzione del fatto ma comunque condizionata dalla Storia, e la terza – ben più celebre – è quella dell’ossessione famigliare con tutte le varie ramificazioni, come padre/figlio o bambino/mondo. Le sue opere le hanno sempre (o spesso) avute. Munich non fa eccezione. Così ci sono due approcci ai suoi film: uno che consideri le tre facce come equipollenti, e uno – maligno e sibillinamente preconcettuale – che guardi al film come un’opera i cui valori sono smorzati dalle pratiche produttive.
Munich è quindi sia un thriller stracolmo di ammazzamenti e sparatorie sia una riflessione storica sui rapporti di potere e di violenza tra Israele e Palestina. Inutile tremare, nel suo cinema le due cose possono convivere senza troppe preoccupazioni, e a volte con risultati esaltanti: ma se le conseguenze del procedimento mostrato sono ancora sotto i nostri occhi, il film non può esimersi dal trasformarsi anche in una riflessione politica sul presente. E la Storia, per quanto influenzi sempre il presente, non lo è a prescindere. Il rischio che Spielberg affronta è, iperboleggiando, centuplicato.
La domanda è: Spielberg ha la maturità e il distacco necessari per parlare del conflitto israeliano-palestinese? Pur avendo mostrato un continuo e attivo interesse negli ultimi anni nei confronti delle dolorose vicende del popolo ebraico, Spielberg risponde in un modo che non ci si aspettava e che entusiasma e commuove per il coraggio che dimostra. Uno sguardo che dà il giusto peso alle azioni degli uomini, che mostra dall’una e dall’altra parte la giusta compassione per le vittime e l’orrore per i carnefici, che regala attimi di umanità ma poi sceglie di concentrare tutte le luci del palco su quanto la storia neghi poi quest’umanità – e la vita stessa – ai suoi protagonisti.
Protagonisti tutti macchiati di sangue e destinati per sempre – anche da vivi – a sanguinare. Quanto orrore, malinconico orrore, c’è nelle parole della madre di Avner verso la fine ("per un posto sulla terra, qualsiasi prezzo")? Quanta dolente e delusa rassegnazione nelle ultime parole di Avner sulle rive dell’Hudson River? La prova è superata in modo eccellente: ma fermiamoci qui, perché è pur sempre cinema, e Munich è pur sempre un film, e l’interesse qui è più che altro altrove.
Cosa resta del film? Munich è prima di tutto il viaggio individuale di un uomo attraverso "la Monaco del suo cuore" e verso il nido familiare, è la storia di un uomo che uccide per onorare "sua madre" (Israele, è sua madre) prima di scoprire – ma troppo tardi – che la sua casa è ovunque ci sia il corpo di sua moglie e lo sguardo di sua figlia. Un viaggio impossibile, perché le ben note dinamiche della vendetta ne precludono la catarsi, affrontato con il giusto senso dell’inevitabilità – mentre tutti cadono soggiogati dal senso di colpa e poi dalla morte, il protagonista continua imperterrito – ma forse troppo calmierato alla fine dalla sensazione che per Avner ci sia, nella disperazione, troppa felicità in quel mondo che pur si prepara – dall’alto di quelle due torri – a crollare di nuovo sotto i colpi dell’odio.
Bisogna però scendere un gradino, e guardare Munich con gli occhi di uno spettatore disincantato – quale anch’io cerco di essere ogni volta che entro in sala. E con questi occhi, sia nei suoi strappi di genere sia nelle dinamiche politiche, Munich è in grado di stupire (in tutta tutta la sequenza di Atene, da antologia) quanto di annoiare (in molte altre), di rischiare (il tremendo ma riuscitissimo montaggio parallelo finale) quanto di appiattirsi su soluzioni di comodo (giochetti d’astuzia in regia, e al comando le solite iperluci di Kaminski), ed è un film in cui quando il protagonista arriva a Parigi si vede un’enorme Torre Eiffel, oltre agli immancabili banchetti di frutta e verdura.
Non sembra un film del tutto riuscito insomma, perché al di là della ricercatezza seventies sulle pettinature e sulle giacche, emoziona molto meno – anche emozioni banali come il pianto o negative come lo sdegno – di quanto ci si aspettasse o si sperasse, e lascia ("sedimenta") poco, troppo poco. Ma cresce moltissimo già dopo una notte, e quel che è riuscito – non è pochissimo, va detto – basta e avanza per tirare un sospiro di sollievo. E poi, potrebbe anche essere colpa dell’imbarazzante doppiaggio italiano.
Una cosa è certa: Munich dura 160 minuti, e si sentono tutti, dal primo all’ultimo, ticchettanti sul groppone.