gennaio 2006

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Munich
di Steven Spielberg, 2005

I film di Spielberg sono impossibili poliedri dalle tre facce: una è quella fiabesco/narrativa e più spiccatamente di genere, l’altra è quella storico/politica, più o meno corretta nella rappresentazione e/o riproduzione del fatto ma comunque condizionata dalla Storia, e la terza – ben più celebre – è quella dell’ossessione famigliare con tutte le varie ramificazioni, come padre/figlio o bambino/mondo. Le sue opere le hanno sempre (o spesso) avute. Munich non fa eccezione. Così ci sono due approcci ai suoi film: uno che consideri le tre facce come equipollenti, e uno – maligno e sibillinamente preconcettuale – che guardi al film come un’opera i cui valori sono smorzati dalle pratiche produttive.

Munich è quindi sia un thriller stracolmo di ammazzamenti e sparatorie sia una riflessione storica sui rapporti di potere e di violenza tra Israele e Palestina. Inutile tremare, nel suo cinema le due cose possono convivere senza troppe preoccupazioni, e a volte con risultati esaltanti: ma se le conseguenze del procedimento mostrato sono ancora sotto i nostri occhi, il film non può esimersi dal trasformarsi anche in una riflessione politica sul presente. E la Storia, per quanto influenzi sempre il presente, non lo è a prescindere. Il rischio che Spielberg affronta è, iperboleggiando, centuplicato.

La domanda è: Spielberg ha la maturità e il distacco necessari per parlare del conflitto israeliano-palestinese? Pur avendo mostrato un continuo e attivo interesse negli ultimi anni nei confronti delle dolorose vicende del popolo ebraico, Spielberg risponde in un modo che non ci si aspettava e che entusiasma e commuove per il coraggio che dimostra. Uno sguardo che dà il giusto peso alle azioni degli uomini, che mostra dall’una e dall’altra parte la giusta compassione per le vittime e l’orrore per i carnefici, che regala attimi di umanità ma poi sceglie di concentrare tutte le luci del palco su quanto la storia neghi poi quest’umanità – e la vita stessa – ai suoi protagonisti.

Protagonisti tutti macchiati di sangue e destinati per sempre – anche da vivi – a sanguinare. Quanto orrore, malinconico orrore, c’è nelle parole della madre di Avner verso la fine ("per un posto sulla terra, qualsiasi prezzo")? Quanta dolente e delusa rassegnazione nelle ultime parole di Avner sulle rive dell’Hudson River? La prova è superata in modo eccellente: ma fermiamoci qui, perché è pur sempre cinema, e Munich è pur sempre un film, e l’interesse qui è più che altro altrove.

Cosa resta del film? Munich è prima di tutto il viaggio individuale di un uomo attraverso "la Monaco del suo cuore" e verso il nido familiare, è la storia di un uomo che uccide per onorare "sua madre" (Israele, è sua madre) prima di scoprire – ma troppo tardi – che la sua casa è ovunque ci sia il corpo di sua moglie e lo sguardo di sua figlia. Un viaggio impossibile, perché le ben note dinamiche della vendetta ne precludono la catarsi, affrontato con il giusto senso dell’inevitabilità – mentre tutti cadono soggiogati dal senso di colpa e poi dalla morte, il protagonista continua imperterrito – ma forse troppo calmierato alla fine dalla sensazione che per Avner ci sia, nella disperazione, troppa felicità in quel mondo che pur si prepara – dall’alto di quelle due torri – a crollare di nuovo sotto i colpi dell’odio.

Bisogna però scendere un gradino, e guardare Munich con gli occhi di uno spettatore disincantato – quale anch’io cerco di essere ogni volta che entro in sala. E con questi occhi, sia nei suoi strappi di genere sia nelle dinamiche politiche, Munich è in grado di stupire (in tutta tutta la sequenza di Atene, da antologia) quanto di annoiare (in molte altre), di rischiare (il tremendo ma riuscitissimo montaggio parallelo finale) quanto di appiattirsi su soluzioni di comodo (giochetti d’astuzia in regia, e al comando le solite iperluci di Kaminski), ed è un film in cui quando il protagonista arriva a Parigi si vede un’enorme Torre Eiffel, oltre agli immancabili banchetti di frutta e verdura.

Non sembra un film del tutto riuscito insomma, perché al di là della ricercatezza seventies sulle pettinature e sulle giacche, emoziona molto meno – anche emozioni banali come il pianto o negative come lo sdegno – di quanto ci si aspettasse o si sperasse, e lascia ("sedimenta") poco, troppo poco. Ma cresce moltissimo già dopo una notte, e quel che è riuscito – non è pochissimo, va detto – basta e avanza per tirare un sospiro di sollievo. E poi, potrebbe anche essere colpa dell’imbarazzante doppiaggio italiano.

Una cosa è certa: Munich dura 160 minuti, e si sentono tutti, dal primo all’ultimo, ticchettanti sul groppone.

[controcampi]

E adesso come faccio a smettere?

[nobody at the stadium]

Panzane, preconcetti, surrogati, scarafaggi, e gnocca fritta.
Perché non è che esce solo Munich.

Solo su Friday Prejudice, anche questa settimana.

Friday Prejudice. Il blog che non hai ancora aggiunto al tuo feedreader.

(photo Digipromo)

[goodbye]

Shelley Winters e Chris Penn. Addio.

The red shoes (Bunhongsin)
di Kim Yong-gyun, 2005

Il secondo film coreano uscito in Italia nel 2006, non solo non è all’altezza del primo, ma i coreanofili (o coreafili?) dovrebbero fare finta di niente, oppure negare che questo film sia mai uscito. E’ la solita sfiga che accompagna i trend, sempre se accettiamo l’idea discutibile per cui quello del cinema coreano si sta trasformando davvero in fenomeno ultra-visibile. E la sfiga è che non c’è più filtro, passa tutto, e molte cose passano così, con il random.

E’ il caso di The red shoes, brutto, bruttissimo horror, scritto con una mano sola – in evidente stato confusionale – dal regista stesso a partire da una storia di Andersen, ma per cortesia, e prodotto con un occhio solo, rivolto ovviamente ad un pubblico rassegnato. Quasi un’istigazione alle lamentele di fine proiezione del pubblico stesso. Perché non solo Kim si limita a ribadire quanto già detto millenni fa dai colleghi giapponesi, resiscitando l’ormai morto-e-sepolto (se mai è esistito, ovviamente) new japanese horror – come se il pubblico coreano non avessere mai visto roba arcinota come The ring o Ju-on – ma il suo film si rivela anche dal punto dell’intrattenimento un pacco colossale, capace di addormentarti proprio dove vorrebbe colpirti.

Se Kim Ji-woon con (A Tale of) Two sisters, nonostante le molte (altrui) detrazioni critiche, era riuscito a dimostrare molta personalità rimodellando certi stilemi dell’horror nipponico intorno alle tendenze melodrammatiche del cinema coreano trasformandolo in qualcosa d’altro, Kim Yong-gyun costruisce solo un florilegio di ascensori e corridoi, neon rotti e sopresoni, capelli neri e donne che strisciano sul soffitto. Oltretutto, sbagliando tutti gli attori. E senza nemmeno la possibilità della scusante "teorica" (vedi The Call di Miike), ma come se il tempo non fosse passato e ci fosse ancora un’onda da cavalcare: son cose che fanno male al cinema.

Peccato per la confezione invidiabile, e una manciata di scene (non poche, a dir la verità: a Cesare quel ch’è di Cesare) che altrove avremmo apprezzato di più: la grandinata di sangue sul tetto, l’ipermestruo della bambina, un paio di flashback. Noiosissimo il prefinale, interminabile come da tradizione, e orribile il finale, circolare come da tradizione.

Election (Hak seh wui)
di Johnnie To, 2005

Mettiamo subito le cose in chiaro: l’ultimo di Johnnie To è un gran bel film, e rimette da parte i dubbi che la brutta esperienza di Yesterday once more avevano sollevato. Ciò nonostante, non mi posso trattenere dall’ammettere che da Election mi aspettavo di più, e che è un altro il To del mio cuore, quello di A hero never dies, The mission e (per non fare i nostalgici) Throw down. Non che To sia irriconoscibile: la sua firma e il suo stile sono ben distinguibili e ancora altissimi, ma forse mi piace il To più curato, barocco, teorico, e anche (perché no) action che non questo To così serio, dimesso, violento e soprattutto politico.

To è sempre un maestro e tale si riconferma: solo per un paio di sequenze meriterebbe quella valanga di Golden Horses che si è portato a casa. Per esempio il finale, atteso e inaspettato al tempo stesso, dotato di tempi di azione e reazione perfetti, una ferocia e una freddezza incredibili, tanto da ribaltare la mediocrità di alcune scelte precedenti, e tanto da chiarificare senza parole ma con la forza di una pietra sul cranio il discorso politico sulle triadi. Che per tutto il film sono al centro di una sorta di apologia, in quanto organismo democratico all’interno del regime con cui l’ex colonia si trova suo malgrado a convivere da molti anni.

Piuttosto, è l’essere così spezzettato a non giovare al film, e a guastare un po’ la festa. Si seguono le vicende dei due protagonisti rivali e dei molti comprimari senza alcuna fluidità né troppo senso della coralità (a To riescono meglio i duetti e gli assoli, non c’è che dire). All’inizio c’è persino un po’ di noia, anzi troppa. Il film si riprende nettamente nella bella parte dedicata alla ricerca del bastone, feticcio del potere, in Cina. Le questioni etiche, politiche e morali aumentano sempre più, ma il meglio To lo dà comunque in scene come quella del "soldato fedele" (grande mangiatore di cucchiaini) che in mezzo ad una strada difende da solo l’onore e l’immagine della "famiglia".

Quasi quasi sarebbe tutto al suo posto, se non fosse per la sequenza del rito di iniziazione: altrove molto gradita e in effetti un intermezzo alquanto impensabile. Ce la poteva risparmiare: deludente, fastidiosa e inutile, nonostante l’incredibile colonna sonora del film continui a picchiare nei nostri cervelli. Ma poi c’è il finale, che demolisce il senso del sacro con cui i riti delle triadi erano stati ritratti, con un cinismo, con un pessimismo e con una violenza disturbanti e inquietanti.

Aspetto con trepidazione che qualcuno si decida a proiettarlo in Italia, magari non ai primi di Agosto come Breaking news e magari con un doppiaggio che non butti alle ortiche un cast strepitoso, ma, a costo di sembrare uno che cerca il pelo nell’uovo a un film simile, non riesco ancora* ad innamorarmi di lui.

*conto in un futuro ripensamento

Masters of horror, #9
The fair-haired child
di William Malone, 2005

Bill Malone è un regista di film dell’orrore, sì. Ma come, non avete visto Il mistero della casa sulla collina o Paura.com? Beh, nemmeno io. Il primo mi scappò dalle mani mentre cercavo di evitarlo. Ma c’è chi ne parla bene. Il secondo aveva due buone ragioni per essere accantonato: il titolo, e Stephen Dorff. Ma c’è chi ne parla bene. Per me è invece un nome nuovo, e mi avvicino all’episodio con la fanciullesca contentezza di chi scopre nuovi e freschi territori.

Invece Malone fa un episodio mediocre, tra i meno riusciti della serie fino ad oggi. Più che altro, un film dimenticabile e irrilevante, nonostante sia ben confezionato, difetto ben peggiore di qualsiasi idiozia che Malone possa propinarci durante il film stesso. E ce ne propina: l’incidente iniziale che scopiazza Neil Marshall, i bruttissimi flashback in bianco e nero tipo con i nuvoloni, il "mostro" degno di master of ridiculous, il finale tanto bello da vedere quanto prevedibile e insipido, e soprattutto le faccette e le mossette di Lori Petty e William Samples in versione maniac.

Ottima colonna sonora, qualche colpo ben assestato, ma pochissimi spaventi se non nessuno. Molto alta comunque la posizione della vestitissima Linsday Pulsipher nel topa-rank della serie.

Alcune interessanti news sui "Masters Of Horror" lette su Fangoria, nessuna delle quali esaltante, che riassumo per i non-anglofoni e per i pigri.

Prima di tutto, come già anticipato nei commenti da ladystardust qualche giorno fa, l’episodio di Takashi Miike "Imprint" non esiste più come tale: è stato rifiutato dalla rete Showtime a pochi giorni dalla trasmissione perché troppo impressionante (e/o disgustoso, a seconda delle fonti). A questo punto, a meno di una miracolosa zampata di McNaughton, per quanto mi riguarda M.O.H. non ha più molto interesse. Qui. La pessima notizia è bilanciata da quella dell’uscita (prima o poi, chissà quando) del dvd di "Imprint". Siamo nelle mani della Anchor Bay: evviva? Bah. Qui. Altra notizia interessante è l’uscita dei dvd di alcuni episodi, a fine Marzo. I primi saranno Carpenter e Gordon. Ricchi i contenuti speciali, ma confidiamo in un Easter Egg tipo "making of the big fat mouseman". Qui. Infine, prepariamoci a una seconda stagione senza troppe novità: per ora l’unica certa è Brad Anderson. E vabbè, uffa. Si confida che le speranze su Guillermo del Toro e Rob Zombie non siano campate in aria. Qui.

[Future Film Festival 2005]
Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro (Wallace & Gromit in The curse of the were-rabbit)

di Steve Box e Nick Park, 2005

Tema
Scrivi un pensierino sulla gita scolastica di giovedì.

Svolgimento
Giovedì pomeriggio la mia maestra ci ha portato a me insieme coi miei compagni di classe a vedere un cartone animato al cinema. La mia maestra ha detto che c’era la fiutur festa ma io non so mica cos’è però c’era tanta gente in coda e c’era gente strana. La mia maestra non ci ha portati tutti perché era illegale entrare a noi che siamo piccoli allora ha preso quelli che sembravano che erano più grandi e così ci avevano fatto entrare ma poi alla fine siamo venuti solo noi che siamo ricchi che costava sette euri. La mia maestra ci porta sempre a vedere e sentire le cose perché le piace l’arte e lei dice sempre che è cinefila che non sappiamo mica cosa vuole dire ma io e i miei compagni facciamo sempre dei giochi di parole divertenti su questa parola cinefila. E poi la mia maestra ascolta musica strana e tutti la chiamano il topo modesto e lei ci ha spiegato che è il nome di un gruppo di musica ma ho cercato su googl e trovo solo un blog e comunque lei non sembra un topo anzi è carina e poi è alta come noi. Insieme a me e alla mia maestra c’erano altri miei compagni che poi erano: il Stibba che è quello più alto di tutti che la maestra quando dice che parla come Bombolo mi fa ridere anche se non sappiamo mica chi è questo Bombolo però ci fa ridere il nome, e c’era il Cinna che è il mio compagno che vuole picchiare tutti ma io lo stimo molto perché è molto bravo a giocare con i videogiochi, e c’era anche il Checco che si era appena tagliato i capelli perché il preside con quei capelli sporchi e coi rassa non lo voleva più vedere e poi diceva anche che Checco fa casino, sciopera, contesta, sobilla ma non so mica cosa vuole dire sobilla, e c’era Roberto che è l’unico che aveva lo zaino con il pranzo al sacco ma poi la maestra ha detto che non c’era bisogno e siamo andati a mangiare la pizza e lei ha bevuto tantissimo vino e noi la cocacola e abbiamo preso la margherita ma Lorenzo anche la pasta perché mangia tantissimo. Mi spiace che non c’era il Bertola che ha la varicella ma la maestra dice che è normale a otto anni e che passa in fretta. Speriamo che passa in fretta perché il Bertola ci manca che fa sempre le battute ma però sono invidioso perché è il cocco della maestra e prende bravissimo nei temini. Allora poi eravamo nel cinema e si sono spente le luci e io ho chiesto alla maestra che film era e lei mi ha risposto che era un cartone animato inglese. A me i cartoni animati mi piacciono e allora ero contento, e poi era iniziato e c’era un uomo che si chiamava Uollas con un cane che non mi ricordo il nome, e poi c’erano tanti conigli molto carini e buffi, e poi l’uomo diventava un coniglione, e il cane salvava tutti, e c’era anche una signora elegante e antipatica che sembrava una carota ma sembra che a Uollas piaceva, ed è stato tutto bellissimo e io e i miei compagni di classe eravamo contentissimi e abbiamo riso tanto e anche la maestra era contentissima come quando presempio Uollas si sveglia e c’era una macchina che lo faceva sedere a fare colazione e lui non deve fare niente. Io lo invidio Uollas perché la mattina mia mamma mi sveglia alle sette e io voglio dormire di più e quella macchina è il mio sogno. Solamente ad Andrea non è piaciuto ma a lui non piacciono i cartoni, perché lui è già vecchio dentro e gli piacciono solo le bambine ed è triste. Che schifo le bambine! Preferisco le macchine che ti fanno la colazione e i cani che leggono il giornale che sono buffi. Quando siamo usciti dal cinema c’erano dei signori che avevano delle facce molto arrabbiate e tristi e dicevano che i soldi gli avevano fatto male ma non so a chi e che i corti erano molto più belli e allora io che non capivo di che corti parlavano e lo sanno tutti che sono uno che attacca i bottoni come dice sempre lo zio sono andato lì e gli ho tirato la giacca e gli ho chiesto perché non gli era piaciuto e ho detto che a me mi è piaciuto tanto e che mi è piaciuto quasi quanto la sposa del cadavere di quel signor Barton che piace tanto a papà. Loro quei signori mi hanno guardato e hanno riso e hanno detto che ero uno sbarbatello che non ho mai sentita questa parola e poi mi hanno dato una pacca sulla testa e sono andati via così ho pensato a una parolaccia bruttissima ma domani mi confesso perché l’ho pensata davvero brutta. Che poi la maestra mi ha detto che questo film esce al cinema il tre di marzo, che visto che io compio otto anni il sei di marzo me lo faccio regalare dal papà, cioè mi faccio regalare che mi porta al cinema a rivederlo. Non vedo l’ora di rivederlo, è stata una bellissima giornata e anche istruttiva.

Ci sarà l’occasione per scrivere un post normale sul meraviglioso film di Steve Box e Nick Park. Prometto che lo farò, magari quando lo rivedrò a marzo: oggi me la sento così. Nel frattempo, vi consiglio di attenderlo con ansia.

Un saluto particolare al Stibba, al Cinna, al Checco, a Roberto e alla maestra.

The new world
di Terrence Malick, 2005

Il quarto film di Terrence Malick – in 33 anni di carriera – viaggia per tutto il tempo sulla soglia sottile tra fallimento e compimento: ma non è ne l’uno né l’altro, per nostra fortuna. Incompiuto e impossibile cinemamericano, uno straordinario e commovente pezzo di cinema, che casca dal cielo come una foglia, si appoggia sul nostro viso, e copre il sole quanto basta perché ne possiamo apprezzare la luce.

The new world rischia di sembrare irrisolto, per come si allontana spesso e volutamente dalla purezza dello sguardo che domina il film, per come a tratti è inquieto e impreciso, per il rischio davvero pesante – in quelle mani che si cercano e in quegli sguardi languidi – di un balordo effetto-cacharel. Per qualche miracolosa alchimia, appare invece ai nostri occhi un film magnifico, magniloquente e sperimentale, con un montaggio che è una partitura di jazz e una fotografia che non sfigurerebbe in una mostra di impressionisti. Un grande film mascherato da movie.

Lontano da ciò che temevamo fosse, l’ultimo Malick – ultimo Malick possibile? – si rivela un’altra apoteosi malickiana, un’altra sottile linea rossa, un altro crocicchio di voci pensieri sentimenti che da fuoricampo invadono l’immagine, un’altra trama tra virgolette e generi – il film storico, il film in costume, il melodramma – con cui sporcarsi le mani, per poi pulirle con quel che della Terra rimane meraviglioso (nel senso più puramente etimologico del termine). Non è – e non vuol nemmeno sembrare – un film sulla violenta fondazione di un popolo: lo sforzo ricostruttivo, spesso creativo, di Malick non ci parla di questa né di nessuna America, ma fa di essa una metonimia del mondo.

Quel che ci mostra semmai è la Terra, una Terra scoperta, una Terra stuprata, una Terra ricoltivata e una Terra che fiorisce, in attesa di essere stuprata ancora. Su di essa, il ciclo della morte e della vita, che è la risposta. Su di essa, il genere umano, che è la domanda. Il genere umano, una foresta che si spezza ma che continua ad andare avanti, e verso l’alto, e verso la risposta. Verso la luce del sole.

"Lo boicotto" (stranestorie)
"Rivogliamo Gokachu!" (Andrea)
"Kekkoz cattivo" (Private_I)
"Kekkoz, ti odio" (unodipassaggio)
"per un attimo ‘stamattina ti ho quasi odiato" (anonimo)
"mi garba" (Infamous)

Friday Prejudice, ancora

[cinebloggers dixerunt]

La classifica 2005 di Cinebloggers Connection



Cinebloggers Connection.
Il tuo blog di cinema.

[datemi tempo…

…che non trovo le parole]

40 anni vergine (The 40 year old virgin)
di Judd Apatow, 2005

Si può ammettere? Si è riso fragorosamente, ci si è proprio sbracati. Spesso per le cose più inutili e volgari, ma si è fatto un po’ di rumore. E’ un bene, fa bene al sangue, ringraziamo. Si potrebbe fare persino un lungo elenco delle scene in cui ci si sciolti in risate, ci ho pure pensato (ne dico solo una, random: la vagina componibile, in pezzi), ma è inutile. E in più, si trasmetterebbe un’immagine del film diversa da quella complessiva. Che è negativa, eccome.

40 anni vergine si infila impunemente e impudicamente (in tutti i sensi) nella tradizione del cinema dei fratelli Farrelly, con i medesimi intenti: ovvero fare politically uncorrect comedy (ma in realtà più triviale che scorretta, nonostante si dica nigger e al-qaeda: certa gente non impara) veicolando però una sottesa commedia morale, che si fa – qui con nostro sconforto – dolce, tenera e sottilmente reazionaria. Ma se i Farrelly convincono e spesso appieno, perché Apatow ci lascia francamente scontenti, e per qualche momento addirittura sconcertati?

I motivi sono tanti, quasi più di quelle scene che avrei voluto citare (solo un’altra, giuro: Andy che ricorda quando spaccò il naso a una tipa mentre lei gli leccava i piedi). Per esempio Apatow, registicamente un criminale al pari di Jay Roach: non possedendo alcun senso del ritmo, si riduce a confezionare una sit-com senza le "risate di morti" (come le chiamava Woody Allen) e senza alcun contributo formale almeno lontanamente pregevole. Ma passi l’assenza spaventosa del cinema in questo film, perché dopo un po’ ci si rilassa e quasi si dimentica che non è merito ma colpa della crew.

E quasi ti frega: ti appassioni ai caratteri perché gli attori – soprattutto di – sono bravini, e i loro personaggi sono curiosi, e qualche dialogo buono c’è (solo uno, lo prometto: "Lo sai come so che sei gay?", eccetera, va avanti per minuti). Ti ha del tutto fregato, e sei pronto a mollargli tre pallette di contentezza, ma per fortuna il cretinismo e l’imbecillità vera del film (che non è quella di quattro battute sciocche: ben vengano – è la struttura argh, è il "messaggio" urgh) è pronto a risvegliare lo spettatore, che può rendersi conto così che l’uscita è quel segnale luminoso verde. Si può ammettere? Mi ha quasi fregato.

Dal canto suo, Steve Carell cerca di tenere in piedi il film da solo, ma la sua è la tipica comicità impacciata che diventa imbarazzante anche per chi guarda, lo stesso embarrassing embarrassment (mi piace tirare in ballo Jay Roach ogni due paragrafi) di Stiller in Meet the parents: insopportabile, insomma. E intendiamoci, è lui l’eroe, il timido, casto, buono Andy, perché il film alla fine è un irreale e inquietante elogio della castità laica intorno alla quale la misoginia e il machismo, scoprendosi vagonifobia vaginofobia e sessismo, crollano miseramente, come crollano i suoi irresistibili amici. Quando mai gli hanno rivolto la parola!

Match point
di Woody Allen, 2005

Se Match point è a tutti gli effetti una sorta di reprise di Crimini e misfatti, di cui riprende almeno un assunto narrativo e l’idea di fondo (tacciando chi aveva superficialmente parlato di un film "per nulla alleniano"), nel film del 1989 lo sguardo assolutamente pessimista sul genere umano era in qualche modo – relativamente – moderato dalla presenza di Woody. Non tanto quella più comica, ma quella del finale in cui il suo personaggio avvertiva la presenza del male e permetteva un’identificazione spettatoriale. Qui non più c’è spazio per niente del genere.

Un’altra storia di baratto tra la coscienza – là religiosa, qui laica – e la stabilità sociale non ha quindi più un controcampo nello sguardo stupito e tutto sommato allegro dell’Allen-attore. Che si chiama fuori, dietro la macchina e in platea, e ci chiama ad osservare questa storia di paura e desiderio così come lui ce la presenta: con una lucidità glaciale, antropologica e distaccata, ma nerissima, che ha il peso di un vero e sanissimo pugno nello stomaco, e che ricorda a tratti i thriller borghesi di Haneke e Chabrol.

Si aggiunga a ciò una scrittura perfetta, sia nei dialoghi – "brillanti" in senso molto diverso dal solito – che nella struttura (i mille presagi nella prima parte, i mille rimandi nella seconda), e una gestione dei tempi (suspence statica e dinamica), degli spazi profilmici (il dentro e il fuori, si usa dire) e linguistici (campo, controcampo, fuoricampo), e soprattutto della colonna sonora (lirica, non usata in modo "lirico" ma spesso in contrasto) che in lui poche volte era stata più accorta e precisa.

Match point riesce inoltre ad essere sia un film sulla menzogna sociale, i cui perni sono Chris e la sua doppia bugia, e quindi un altro ritratto impietoso delle "regole del gioco" della società, in cui due personaggi cercano di emergere smarcandosi dalla mediocrità che li caratterizzerà sempre perché "alieni" (un’americana e un irlandese) a meno di non trascinare nella loro carne quelle stesse menzogne di cui la società è fatta e su cui sopravvive, sia un film profondamente filosofico – anche se molto, forse troppo, esplicito – sulla sorte, sul caso, e sulla "fortuna", che trascina gli esseri umani tragicamente e "liricamente" verso un ordine e/o verso un capitombolo.

Un Allen inquietante e doloroso, matematico e a momenti magistrale, il suo film migliore da tanti anni a questa parte. Bentornato.

Polyester
di John Waters, 1981

Questo film è celebre per due motivi. Il secondo è che fu il primo film di John Waters in cui dalla brutalità sostanziale del suo cinema anarchico cominciò ad emergere la forma. Insomma, Polyester non è solo irriverente e sporco, ma anche piuttosto "bello da vedere", ben girato, luccicante, strutturato in modo molto chiaro e programmatico. Come il successivo e altrettanto bello Hairspray. Persino Divine, personaggio di ineguagliata e divina bizzarria, riesce a non essere (sempre) repellente.

Sia chiaro però che i conti con la società Waters non vuole pagarli: se è per quello continua a non pagarli, per nostra fortuna. Non è affatto un cinema ammorbidito o acquietato rispetto al furore dei primordi, è semplicemente più consapevole e capace. Comunque mai cerebrale, ancora fisicissimo, un cinema orgogliosamente marginale, fiero e disturbante come il miglior underground anche sotto le fattezze pastello. A volte sono sottigliezze: come il ribaltamento degli schemi di asceda e caduta classici del melò familiare, o l’eliminazione delle ridondanze narrative (il film comincia subito e finisce in un baleno – tra l’altro in modo circolare, con due carrelli aerei).

Altre volte invece sono cose grandi come macigni, impossibili da ignorare, che rivoltano il cinema e la società americana come fosse un calzino, ma sempre con lo sguardo sulla provincia (Baltimora, ovviamente) innocente e inquieto, come quello di un bambino un po’ pazzo e un po’ scemo. E qui, signori, c’è il vero genio. C’è Odorama. Infatti, il primo motivo per cui Polyester è famoso, è proprio Odorama.

Lo sapevate che una cosa simile era già stata fatta più di vent’anni prima? Sapevàtelo.

Polyester è difficile da reperire in Italia, tantomeno in dvd. Ma se avete dei soldi (non tantissimi, a dire il vero) da spendere e avete un lettore dvd "de-zonato", compratevi questo oggetto. Ci sono anche le Odorama Cards, dentro. Poi però me lo prestate, eh.

[the friday prejudice]

Qualcuno dei miei "lettori" già lo sa: perché la rubrica sui film in uscita della settimana è un cosa che volevo fare da molto tempo, rimandata e rimandata allo sfinimento.
Un po’ perché perché c’è qualcun altro che nel frattempo ha iniziato a fare qualcosa di simile, con poche parole e grande professionalità.
Un po’ perché è una faticaccia che nessuno mi costringe a fare, e io sono notoriamente una persona molto pigra.

Però ci ho provato, il risultato è lì, e chissà se ha un futuro.
Mi guarda come un cagnolino appena nato che zoppica e non sa se arriverà alla seconda settimana di vita.

Certo, a me piacerebbe che una cosa del genere – meramente informativa, a beneficio del "consumatore" – la facessimo tutti insieme, noi cinebloggers. Io l’ho detto, dopo, chi lo sa. Intanto mi ci sono messo io, con questo "pilota", questo "numero zero". Poi, vedremo.

Insomma, c’è un nuovo piccolo blog, ancora splinderiano per comodità, a cadenza settimanale, in cui posso finalmente sparare a zero su film che non ho nemmeno visto.
Insomma, quello che – magari! forse! chi lo sa! – fanno altri, spacciandola per critica.

Aspetto vostre notizie.

Ah, certo. Il link: Friday Prejudice.


[già che ci sono]

C’è un altro nuovo blog in città.
Perché pare che qualcuno (la testa a sinistra) sia riuscito a convincere Gas (la testa a destra) a fare capolino nella blogsfera.

la quadratura [del cerchio (alla testa)] è online

Linkatelo. Feeddatelo. Tenetelo d’occhio, insomma

  Masters of horror, #1.08
Cigarette burns
di John Carpenter, 2005

Quello di Carpenter, assente dagli schermi da troppi anni, era forse l’episodio di Masters of horror più atteso tra queste quattro fredde mura. Non solo lo zio John ha rispettato le aspettative rivolte in passate preghiere a quest’operetta, ma le ha in qualche modo superate.

Ambientato nel mondo degli archivi filmici e dei "cacciatori di film", con gran divertimento di chi queste cose le ha studiate e/o masticate, e con un movimento che ribadisce parte delle premesse – anche narrative, forse a posteriori – del mai troppo ricordato Il seme della follia, Cigarette Burns è un film straordinario, intelligente e terrificante, che riesce a bilanciare (chissà come) l’anima più cinicamente "nerd" della sceneggiatura (roba da blogger, insomma) con una resa orrorifica eccellente.

Perché non è solo il più "pauroso" tra gli episodi visti finora (e fa a botte con Joe Dante per la palma di miglior episodio, ai posteri l’ardua sentenza), ma è anche in sè tra le cose più inquietanti e insinuanti viste sullo schermo negli ultimi tempi. Dopotutto questi sono i tempi di Saw 2, e dopotutto è sempre Carpenter, ma chi scrive ha letteralmente tremato sotto le lenzuola, e alla fine di questi 55 minuti acuti e allucinati ha acceso la luce.

Norman "uomo-filmetto" Reedus e Udo "kino e intestino" Kier hanno due gran facce da bimùvi. A modo loro, perfetti.

Saw 2 – La soluzione dell’enigma (Saw II)
di Darren Lynn Bousman, 2005

"Saw II is not for the faint of heart. It’s for the foolish of wallet."
Wesley Morris, Boston Globe *

Il sequel di uno dei film più chiacchierati dell’anno appena trascorso segue pedissequamente le regole teoriche del remake (quelle teorizzate da Craven insomma, quelle che uccidono le qualità degli originali insomma), e moltiplicando a dismisura il materiale del primo capitolo non risponde esattamente alle aspettative. O meglio, forse risponde in pieno alle aspettative di un pubblico ideale all’interno di cui però non mi riconosco.

Saw II è un filmaccio truce, ma è roba da videonolo, da terz’ordine di doppiaggio, da nicchia di convinti horrorofili: se non si pensasse al successo di Saw, farebbe persino specie vederlo in sala. Tanto gore e tante urla, attori approssimativi e b-situazioni: Saw alla seconda più che Saw 2, cerca di pompare aria in un progetto che sembra nato per la serialità pur avendo detto tutto (e fin troppo) nel primo capitolo. Ma non si può dire che anche le emozioni aumentino in maniera esponenziale, semmai si replicano: non è dunque un mezzo fallimento?

In più, Saw II è sporco e cattivo, ma sembra tanto una superficie fatta per accontentare piccole perversioni sanguinolente. Si sentiva di più il puzzo di liquidi vitali nel primo, qui ridotto a una ricerca della schifezzuola che molte volte soddisfa palati malati (un tuffo nelle siringhe: wow), ma che altre volte dà fastidio (le braccia nella teca: bah). E poi, tutto porta ovviamente alla sorpresa finale, che – toh guarda – qui è doppia. Ma se una delle due è risaputa (ricordate il trucco di Keanu Reeves per fregare Dennis Hopper?), l’altra è di una prevedibilità quasi imbarazzante, e purtroppo porta pure ad un finale aperto da cui capiamo (se non ci fossimo già informati) che non ci libereremo tanto facilmente di questa nuova saga.

Bousman è molto, forse troppo giovane, pecca di troppa superficialità e il suo stile – quando non imita semplicemente quello nervoserrimo di James Wan – è grezzo persino per i canoni del b-movie. Ha insomma tante ossa da farsi e molte altre da rompersi. Ma riesce a fare a Beverley Mitchell quello che noi avevamo sempre sognato: farla schiattare in agonia su uno schermo. Grazie Darren.

*non che questa critica troppo impietosa corrisponda al mio giudizio sul film, ma mi ha fatto ridere.

Memorie di una geisha (Memoirs of a geisha)
di Rob Marshall, 2005

La storia di una serva che diventa geisha nel giappone volto al declino tra le due guerre è la storia di due occhi d’acqua che si fanno strada nel mondo con la forza del ghiaccio. Tuttavia il film non possiede quella stessa forza, o almeno la tiene celata il più possibile sotto una confezione che si confà piuttosto ai classici (in realtà perlopiù moderni) stilemi da polpettone losangelino che non – ovviamente – al cinema nipponico. Chiaro: non ci si aspettava mica niente di diverso.

Ma è tutto terribilmente senz’anima, imbalsamato, bolso e spento, figurine in movimento appesantito da una noia che nella prima parte del film diventa quasi gastrica. Marshall, dopo la buona prova di Chicago, sembra non fare nemmeno del suo meglio per arginare i danni. Quattro luci dirette, tre belle gnocche, e due menate su vita/palco? Ora il sospetto che sia solo un mestierante non è più così vago. Non si può maneggiare una storia così intima e – potenzialmente – dolorosa come se si indossassero dei guantoni da boxe.

In realtà il film si potrebbe tranquillamente salvare, per altri motivi. Perché le protagoniste sono molto intense, perché non mancano (pochi) momenti di (lieve) commozione, perché alla fine personaggi come Hatsumomo non si scordano facilmente (e i presagi dell’incendio mettono persino paura), perché il senso di una vita volta al sacrificio per l’amore di una sola persona è quella sì una cosa estrema, è puro melodramma. Anche se di scarso interesse, come quasi tutti i motivi precedenti, almeno per quanto mi riguarda.

Ma con i tempi che corrono, e con le stronzate che si sentono dire in giro sul cinema asiatico come se fosse un fascio d’erba tanto-bello-quanto-inutile, far recitare in inglese ruoli giapponesi da famose attrici cinesi va contro ogni singolo principio regolamentatore di questo blog e di questo blogger (entrambi spesso orientofili: questione di fatti), e puzza di razzismo tanto quanto un "questi musi gialli son tutti uguali". Quindi no, non lo posso accettare, e sotto sotto lo odio profondamente.

Faccio però finta di niente, e lo faccio per rispetto nei confronti di chi ha ben lavorato, come Pietro Scalia (montaggio) e Dion Beebe (fotografia), che almeno ce proveno, e tutti gli attori, tra cui il sempre ottimo Kôji Yakusho – kurosawaiano perfettamente inserito nei metodi occidentali, così come l’altro, Ken Watanabe: ce li siamo definitivamente sputtanati? – o Gong Li che, alle porte dei 40 anni, con il ruolo della geisha incattivita dalla privazione amorosa, vince di larga misura la gara di bellezza aperta dal cast, battendo persino la nostra amata Ziyi. Michelle Yeoh, ovviamente, se ne va facendo cai cai.

Le cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio (The chronicles of Narnia: The lion, the witch and the wardrobe)
di Andrew Adamson, 2005

sòla, s.f., RE centromerid.
1 suola
2 truffa, raggiro, fregatura

Dovevo capirlo subito, che il film di Narnia era una sòla. Invece, quando vidi il trailer e rimasi a bocca aperta come un bimbo, presi in mano il libro – notissimo nel mondo anglosassone ma poco da noi, almeno fino a qualche tempo fa – e lo divorai, a dir la verità senza entusiasmo (diciamolo), ma con la solita curiosità: che ne faranno in due ore e venti di questo libretto striminzito, per di più con tutti quei soldi? Sentendo puzza di Weta, non potevo capirlo subito che Narnia sarebbe diventato il rimasuglio noioso e stantio del signore degli Anelli?

Mettiamo che mi fosse sfuggito il concetto, avrei dovuto capire che era una sòla almeno poco prima dell’inizio del film. Bastava il nome, Andrew Adamson, che sospetto essere il motivo per cui il primo Shrek scricchiolava così tanto già alla seconda visione. Era questione di regia, pochi cazzi. Oppure potevo ascoltare le voci intorno, quelle di chi l’aveva già visto: mah, guarda, lascia perdere, niente di che, che schifezza, Aslan parla come il Papa morto, eccetera. Ma uno a certe cose ci passa oltre, e si guarda il film e basta.

Ma poi sì, l’ho capito, che Narnia era una sòla: bastava guardarlo. Se parte bene, aggiungendo un prologo che nel libro è solo accennato e giocando sulle cose più facili (l’armadio e il primo approdo a Narnia), dopo il primo stupore tutto si ammoscia sulla faccia di James McAvoy, il fauno. Una recita delle medie, e pure squattrinata. Da lì in poi, giù in picchiata, tra pochissime scene riuscite (per dire, l’incontro con Babbo Natale: ma solo perché ci hanno risparmiato la divisa cocacolata) e decine di scenacce indegne, con una morte sacrificale che rasenta il ridicolo e una battaglia finale tra due mucchi di mostri che sembrano appena usciti dalla taverna di Mos Eisley.

Ma il meglio lo danno i quattro ragazzini: se Lucy ha un futuro come tossica e Susan potrebbe essere la prossima Jennifer Connelly (se come l’altra tirasse fuori il pelo), Peter soffre dell’insopportabile sindrome di Brandon Walsh e soprattutto Edmond, dio mio, Edmond assomiglia tantissimo a Pippo Inzaghi, e la cosa non può che aumentare la voglia di massacrarlo di botte ogni volte che appare sullo schermo.

E Aslan, infine: un straordinario personaggio nel libro di Lewis è qui ridotto a bella inutile e rassicurante figurina in tredì, per di più nel nostro belpaese doppiata in modo deliquente da un Omar Sharif con caramella incorporata. Non si capisce una fava di quello che dice, e la sua voce spezza la poca poesia che Adamson è riuscito a fatica ad accumulare. Non sembra proprio Papa Wojtyla, sebra piuttosto Massimo Lopez che imita Papa Wojtyla. Rabbrividiamo?

Tutto sommato c’è del buono, ma in apparenza non nelle intenzioni – è pur sempre una sòla – e sicuramente non nel risultato. Dove altro, dite? E che ne so.