febbraio 2006

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Syriana
di Stephen Gaghan, 2005

Gaghan e Soderbergh, già rei confessi – a ruoli alterni – dell’enormemente sopravvalutato Traffic, fanno il bis. Coinvolgendo l’amico Clooney, pappa e ciccia con Steven e Stephen ormai da tempo, mettono su un altro insieme di storie intrecciate, con la convizione che per fare un film corale basti mettere dei personaggi sullo schermo e poi ad un certo punto farli incontrare – magari traumaticamente. Ma se i personaggi non hanno alcun interesse, se non subordinati alla causa del film e al suo "discorso", e sono quindi oggetto non del fato o del caso ma degli interessi extratestuali, oppure dell’inutile sadismo (o giocosità, o entrambi), del regista, allora il film stesso finisce per essere solo confusionario. Un gran casino: questo è il caso di Syriana.

Insomma, è vero: Syriana è un film coraggioso, appoggiabile, estremo ed estremamente trasparente. Non perché Clooney parli un buon arabo, o perché le unghie di Clooney vengano strappate via (con nostro sommo sbigottimento, direbbe qualcuno), ma perché si dipinge un panorama politico, politico e umano, politico e sociale, politico e internazionale, che fa stringere il bracciolo della poltrona con la lingua tra i denti. E non è fantapolitica, per quanto Gaghan si diverta abbastanza a miscelare la fanta con la politica, ma l’idea che dovrebbe sorreggere l’intero film, e che purtroppo non basta a sorreggerlo. Perché i buoni propositi e la buona fede – sempre che siano dati per scontati, e vi ci sfido – non bastano. Peccato, perché l’idea in sè – pur dietrologa, paranoide, cospirazionista, quello che volete – mi trova persino partecipe.

Il problema è proprio il film, che è tremendo: una noia mortale per tutta la prima incasinatissima metà, antipaticissimo nella seconda. La regia è soderberghiana: tipo, usa una camera a spalla e farai vedere che sei indipendende, nascondendo l’inettitudine della tua regia (e del tuo montaggio, notare bene: e sono tanti soldi al cesso). Poi, tornando alla falsa coralità del film, tutti i personaggi sono introdotti senza un briciolo di spirito, con la chiara sensazione che tutto avrà un senso nel finale. Ipotersi confermata dal finale stesso. Ma qual tragico error, per un film corale, dare la sensazione di mostrare un’ora e mezzo di accessori del finale.

Anche se quest’ultimo è decisamente riuscito, quasi commovente. Tu sei il canadese, boom. Bellissimo. Almeno per metà, quella in cui, dopo essere stati propositivi e coraggiosi, gli autori si tirano indietro e un po’ piangendosi addosso dichiarano morta ogni speranza sotto il suono delle bombe. Complimenti, mi avevate quasi convinto. Ma sotto sotto, se ne tornano a casa ad abbracciare i propri cari, girandoci dietro la schiena. Vigliacchi.

[THE GAME – 1:1] Il Cinema Sporco

Rubber’s lover
di Shozin Fukui, 1996

Shozin Fukui è uno che ha visto i primi film di Tsukamoto, tipo Tetsuo e Tokyo Fist, non li ha capiti, ha pensato che Tsukamoto fosse bacato nel cervello, ed essendo egli (lui sì) bacato nel cervello ha provato ad emulare il genio del nostro amato e ipereducato regista nipponico. Così, dopo aver fatto un film chiamato 964 Pinocchio che ora non vedrei nemmeno se mi legassero davanti allo schermo iniettandomi etere nel sedere (non è un’idea mia), il Fukui ci sforna questo film, diciamolo, questo film del cazzo, con tutta probabilità uno dei peggiori prodotti del cinema indipendente asiatico degli anni ’90. Fukui prende una storiella insulsa di esperimenti e torture senza capo né coda (e di cui si capisce poco o niente, ma che importa, se s’ha da torturà), e ci spara dentro di tutto, dalle classiche metafore horror della tossicodipendenza (è metafora uno che urla "dammi un altro schizzo"?) e delle varie deviazioni/perversioni sessuali, agli ovvi litri e ettolitri di sangue nero che sembra bava, bava che sembra sperma, e ancora sangue che sembra sangue. Purtroppo lo sperma manca, ma lo stupro c’è, non preoccupatevi. Recitato probabilmente da amici del Fukui, tra cui un certo geniale "Nao", una cumpa che si spera non abbia fatto altro per vergogna e che ora forse lavora in massa al K-mart sotto casa del Fukui, il film fa tanto "japan extreme", ma un film così fatto nel 1996 non solo è fuori tempo massimo, ma soprattutto fa ridere i polli. Anzi nemmeno, fa solo annoiare, e dopo un’oretta ti incazzi proprio. Reggerlo tutto senza saltare pezzetti è un’impresa eroica. Rubber’s lover potrebbe essere almeno provocante o provocatorio, ma non è mai e poi mai convincente, nemmeno per un minuto, nemmeno quando sfodera piani fissi lunghi minuti di personaggi che sbraitano ondeggiando come polli impazziti (ovviamente ricoperti di bava e sangue e chissà che altro), nemmeno quando sfoggia quella nebbiolina "che fa tanto zucamotto" ma che sotto la nebbiolina lo giravo meglio io in quarta ginnasio. Bendato. E almeno faceva ridere.

(ne hanno parlato anche lui, lui, lui, lui e lui)

[controcampi]


Life on mars, BBC One

Sito ufficiale. Wikipedia.

Truman Capote: A sangue freddo (Capote)
di Bennett Miller, 2005

Per una volta, il titolo italiano di un film sembra quasi più appropriato di quello originale: Capote non è infatti un biopic, ma il racconto – romanzato dallo scrittore Gerald Clarke – della genesi di un libro: appunto, In cold blood di Truman Capote. In realtà, non è propriamente così, perché gli anni raccontati rappresentano per Miller e soci una sorta di "fulcro vitale". Come se Capote non avesse avuto un senso di esistere – con i suoi cocktail newyorkesi e il chiacchiericcio acido ed arguto – prima di In cold blood, e come se fosse morto con esso.

Al di là delle conseguenze che ciò porta sulla carta (il classico binomio vita-letteratura) e sulla pellicola (la diabolica confusione tra personaggio e uomo: sia per noi che dimentichiamo che Hoffman stia recitando e che lo faccia con una vocetta, sia per Capote che "tradisce" l’umanità di Perry Smith), Miller cerca di aggirare il principale problema di base di un progetto simile, ovvero: cosa c’è di meno esaltante, cinematograficamente, della genesi di un libro, anche se quest’ultimo è uno dei più noti della letteratura statunitense della seconda metà del secolo scorso?

La cosa più sorpendente è che, nonostante Miller sia al primo film di "fiction" e lo sceneggiatore sia un attorucolo televisivo dietro la macchina da scrivere, entrambi funzionano alla perfezione. E non nelle suggestioni che con una trama simile sarebbero state più scontate e facili, come le tattiche emotivo-sonore, oppure la spinta sull’interpretazione. Al contrario, l’occhio – che si identifica con il personaggio, splendidamente sfaccettato, e doloroso anche in senso autoriflessivo – si posa sui dettagli, sugli sguardi, sui silenzi, sulla memoria, sull’immobilità dell’uomo e del paesaggio. Sui segni fatti con la penna sullo stipite per segnare la crescita dei propri figli.

Capote non sarà forse un classico, perché pesano su di esso molte scelte che si ascrivono a moduli risaputi e abusati oppure che sono semplificate o didascaliche (Capote intervistato che dice "ho creato la non-fiction novel", Capote che alle feste è sempre primadonna), e forse perché c’è la paura di mettere quell’occhio dettagliato a servizio di un film più autonomo, più crudele e "gastrico" con il proprio protagonista, insomma più indipendente, più "umano" e meno "letterario". Ma ha il dono di emozionare con durezza e insieme con delicatezza, regalando perle come il flashback dell’omicidio (classicamente, e letterariamente, prima raccontato e poi rappresentato) negatoci fino quasi alla fine, e parlando di quello che è forse un amore impossibile, o che più probabilmente è un lungo, lunghissimo inganno pagato con il dolore sulla propria pelle.

Infine, ultimo fattore ma tra i più rilevanti, Miller riesce con una "umanità a sangue freddo" che forse gli viene dal suo passato nel documentario, a trattenere e compensare l’immensa gigioneria di Hoffman, affiancandogli tre attori (Keener, Collins e Cooper) tutti strepitosi e tutti in sottotono, e permettendogli così di creare una delle interpretazioni più assurde degli ultimi anni. Assurda perché convincente, assurda perché sottotono anch’essa nonostante la vocetta e le mossette, assurda perché geniale.

Jarhead
di Sam Mendes, 2005

"Welcome to the suck"

Il terzo film del regista inglese, ambientato durante la prima Gulf War, i cui protagonisti sono un gruppo di tiratori scelti (destinati quindi a vivere la guerra come una mera e infinita attesa, Buzzati insegna), è un film che annega – e rumorosamente, muovendo forte le braccia – nelle proprie ambizioni. Perché vuole essere storico, metastorico, metafilmico, metafisico. Ma l’unica certezza è l’imponenza visiva e sonora, aspetto sotto cui Jarhead è davvero (ma davvero) favoloso. E che salverebbe il film in corner, forse, vista l’efficacia delle scelte estetiche e fotografiche (desaturazione e contrasti alti, ma non solo) messe in campo da Mendes e Roger Deakins, ma che ricopre con le esplosioni (non per forza di bombe), con i megabass e con i fuck la sua dubbia moralità e l’inconsistenza delle sue affermazioni di fondo.

Riesce giusto a dire qualcosa di incisivo sulla "sindrome del Golfo", ma solo nel finale, e a fatica. Cerca, come già detto, la metafisica a tutti i costi (il rave finale, il cavallo), e la butta sul contrasto forte e sulla ricercatezza formale, azzeccando qualche sequenza quasi formidabile (le tracce sulla cenere). Per il resto si attesta sul livello di un esercizio di stile di dubbia utilità, un film mendessiano in tutto e per tutto nelle scelte strutturali (la voce off, l’uso della bellissima colonna sonora), ma che annaspa tra citazionismi assolutamente privi di spessore o di senso, bizzarrie impreviste, e una sceneggiatura (di William Broyles, mai stato eccezionale) che raggiunge baratri di urlata banalità, tra soldati ex-galeotti che citano Hemingway e il Jamie Foxx più inadatto mai visto sullo schermo.

Essendo Mendes un regista discusso, Jarhead è prevedibilmente un film che divide, ma è probabilmente anche il suo film meno riuscito.

[everything is connected]

Impreviste connessioni, bionde & brune, soavi e flussuose.
Fighe non basta.

Amici di registi, amici di attori, amici e parenti di attori-registi.
Sono tutti amici.

Una settimana con solo cinque film,
e non butta nemmeno troppo bene.

Scopri l’unico "colpo sicuro", e quelli che gli stanno sulla miccia.
Su Friday Prejudice, persino questa settimana.

Transamerica
di Duncan Tucker, 2005

Ogni tanto ad una fetta non tanto ristretta del pubblico americano piace convincersi che nel loro paesone esista ancora un cinema indipendente, capace di guardare "ai margini della società" "senza peli sulla lingua" e altre splendide virgolettature, e così puntualmente si innamorano alla follia di un filmetto prodotto probabilmente allo scopo di colmare questa incombente lacuna. Era già capitato poco tempo fa con Sideways: Transamerica è stato altrettanto sopravvalutato, tanto che verrebbe voglia di demolirlo tanto per il gusto della rivalsa del buon senso.

Transamerica è però molto interessante per una serie finita di ragioni, tra cui la capacità di "sporcare" lo schermo con uno degli ultimi oggetti-tabù del cinema occidentale, e ovviamente l’interpretazione della Huffman. Che apre una nuova interessante parentesi intepretativa: una donna che interpreta un uomo che "interpreta" una donna è qualcosa di decisamente nuovo, e l’attrice (doppiaggio a parte, da schiaffi sulla fronte come al solito) è di una bravura quasi imbarazzante.

Ma che non ci provino, a far passare questa storiella di riconciliazione filiale, di menzogne e dolcezze, di autotradimenti e autoriconoscimenti di genere, per uno spaccato sociale: al di là del finale trattenuto e corretto, è tutto troppo quadrato e riconciliato, tutto troppo virato al buffonesco e alla carineria, ma senza la capacità di far ridere né di commuovere.

Un film che non lascia molto, magari un sorriso a metà bocca. Ma la mattina dopo ti sei pure scordato perché ti dolga la guancia.

[tonite]

Clap Your Hands Say Yeah, Officina Estragon, Bologna

Le tre sepolture (The three burials of Melquiades Estrada)
di Tommy Lee Jones, 2005

Se non ci avessero avvertito mesi fa sarebbe stata una gran sorpresa, tanto gradita quanto imprevista. Perché un attore che si mette dietro la macchina da presa è a volte una scommessa persa a metà, nonostante gli illustri e recenti precedenti. E invece Tommy Lee Jones, attore arcinoto e pluripremiato, esordisce alla regia cinematografica con un film che si rivela bellissimo quasi da subito e quasi senza incertezze.

Si sente che il film è scritto dall’inarrituiano Guillermo Arriaga, soprattutto nella primissima parte dove la fabula e l’intreccio si mescolano talentuosamente, confondendo lo spettatore per qualche minuto grazie ad un annullamento spaziotemporale che ben si sposa con i paesaggi texani dipinti dal sempre eccellente Chris Menges, un maestro nel combinare ipersaturazioni e contrasti di colore (soprattutto negli interni). Ma sorprendentemente il film sale proprio dopo il primo capitolo (o sepoltura, fate voi), quando si fa più lineare ed emotivo, abbracciando il viaggio di un uomo vecchio che ha fatto una promessa e che si scopre solo, e del suo prigioniero che ha fatto uno sbaglio e si scopre umano. Ma anche il cammino immobile delle due donne che li aspettano, e che poi non li aspettano più.

Senza abbellimenti e fighetterie, nonostante la bellezza "paesaggistica", ma anche senza machismi o scatti di violenza: piuttosto con profondo senso della perdita, e della solitudine. Un film che fonde modernità e classicismo con scioltezza evidente e una maturità mai forzata. Ma anche con un senso dell’humor caustico e a volte davvero color pece, che permette una collezione di scene – soprattutto nella parte centrale – da antologia del macabro.

Ma Jones di certo non scherza, anzi, fa le cose sul serio: e che finale, quello che ci regala. Dopotutto, ci avevano avvertito.


Nota: in italiano i moltissimi dialoghi in spagnolo (sottotitolati nella versione originale) sono sostituiti in parecchie parti da un italospagnolo di dubbia credibilità. Chissà per quale motivo, ma sarà un motivo del cazzo.

[rimanere indietro]



Titoli alternativi di questo post:

[scampoli di cinema in attesa]
[i cinque film che tutti voi avete visto e io ancora no]
[senza contare The Game]
[cercasi rimedio contro pigrizia]
[e non è un quiz]
[senza contare Fausto Brizzi]
[entro venerdì?]

[non sarà Gaghan a mettermi fretta, ciò nonostante…]
[senza contare i Clap Your Hands Say Yeah]

[tonite]

"But the world has changed, and how!, and I know I mean it.
So let’s toast the last romance, but just don’t ask me to dance"

Arab Strap, Officina Estragon.

Cacciatore di teste (Le couperet)
di Costa-Gavras, 2005

Tratto da un romanzo dell’eccezionale scrittore americano Donald Westlake, il nuovo lavoro francese del regista greco di Missing e Z L’orgia del potere – uscito in Italia con grande ritardo, e in sordina – è sia un film morale molto esplicito (sui fini e sui mezzi, per semplificare) sia uno film sullo stato del mondo del lavoro in Europa. Ma è anche – cosa ancora più rilevante ed interessante – una brillante "applicazione di genere" fatta a spese (e a vantaggio) di entrambe le categorie.

Così, il film è una seria e impietosa occhiata allo sfacelo delle politiche del welfare – mentre nelle strade i "simboli dello status" sono sempre gli stessi, e dai lati dei camion continuano ad attirare lo sguardo della gente – e una arguta e ironica macchina di genere, realizzata con un ritmo molto serrato, secco e improvviso come i movimenti di macchina scelti da Gavras, e la cui sincope acuta tende forse a svilire o a mettere in secondo piano quanto viene detto, con chiarezza inquietante, sul mondo del lavoro, perdendo persino a volte qualche colpo.

Ma il film, tanto imperfetto quanto insospettabilmente amabile, si può avvalere della gigantesca interpretazione di José Garcia, vera forza motrice dell’opera, diviso tra la pazzia e la lucidità assassina, e non fa stonare mai nemmeno la sua voce fuori campo, prima narrativa e trasformata poi – con un colpo di coda non da tutti – in uno squarcio aperto su una quotidiana follia.

[siti di scoregge]

Maxibon, Film Commission, e l’affanno dell’Oscar.

Settimana ridotta ma a prova di bomba.
E non ci sono pensatori.

Su Friday Prejudice, anche stavolta.

Battaglia nel cielo (Batalla en el cielo)
di Carlos Reygadas, 2005

Ci sono casi in cui è piacevole sentirsi presi per il culo, al cinema: a volte dimostra l’intelligenza o la sensibilità superiore del regista, e il fascino della manifestazione estetica di una *ipotetica* superiorità intellettuale è qualcosa a cui è difficile resistere. A dirla tutta, càpita anche piuttosto spesso, di essere presi per i fondelli al cinema, e altrettanto spesso càpita di gradire la cosa con un sorriso tirato a metà della faccia. Arguzie.

Ma questo non è decisamente il caso, perché Batalla en el cielo, promosso da una campagna pubblicitaria che faceva presa sulle scene di sesso – effettivamente molto esplicite – è un film sostanzialmente inutile, un pacco d’aria fritta e tragicamente noioso ma travestito – e travestito molto bene – da cinema "art house". Ma davvero basta una provocazione davvero forte (come la fellatio che apre è chiude il film) ad innalzarlo sopra la media dei tentativi andati a buca, o è solo – appunto – una vacua e programmatica provocazione, insomma, un mero pompino?

L’impressione è che Reygadas abbia delle cose da dire, e a volte le dica piuttosto benino, con l’aiuto della bella fotografia di Vignatti (che però gioca quasi solo sulle focali corte, e la tattichetta mostra la corda dopo una mezz’oretta) e alle scenografie spoglie, ma anche che queste cose siano decisamente poche. C’è materiale per una ventina di minuti: per il resto, il regista di Japòn si arrabatta a tappare i buchi con lunghissime e inutili panoramiche, che tornano sempre al punto di partenza come se volesse dirci qualcosa o come se volesse dire qualcosa – ma che stanno dove stanno solo per arrivare ai 90 minuti secchi.

Forse per uno spettatore *italiano* è difficile cogliere i mille riferimenti al presente messicano, ma altrettanto difficile è arrivare alla fine del film senza perdere la pazienza. Però almeno una promessa è mantenuta: Anapola Mushkadiz.

Masters of horror, #1.11
Pick me up
di Larry Cohen, 2006

Le strade della provincia americana sono luoghi pericolosi, lo sappiamo bene. Ma di solito di maniaco omicida ce n’è uno solo: cosa succede dunque se ben due maniaci (un camionista e un autostoppista) si incontrano su una strada fatta di boscaglie e serpenti? Si potranno alleare o si combatteranno?

Su questa semplice iperbole (e su poco altro) si basa il segmento di Cohen, che parte da premesse simili a quelle dell’episodio di Coscarelli ma senza eguagliarne l’esito. Questo perché il senso che prevale è quello di uno scherzone, di un giochetto massacrante, interessante e teorico e ironico e benfatto quanto volete, ma che si mangia un po’ la coda come un serpente ubriaco (rischiando spesso di rimanere schiacciato come il povero rettile dei titoli).

E’ vero che l’inizio simbolico e il solito finale-beffa colgono nel segno, ma a metà strada si sente un po’ di fatica, forse a causa della recitazione dei due villain, Michael Moriarty ai limiti della parodia e Warren "wannabe Matt Damon" Cole. Di Fairuza Balk invece mi innamorai quando a 11 anni ripercorreva zoppicando i passi della Garland, e ribadii il mio affetto quando a 21 anni fattucchierava ai danni di Robin Tunney e che Neve Campbell, schiacciate entrambe dal suo fascino sporchino e sbagliatuccio. Adesso di anni ne ha 31, e li porta pure maluccio.

Orgoglio e pregiudizio (Pride and prejudice)
di Joe Wright, 2005

Contro ogni orgoglio e contro ogni pregiudizio, eccomi a difendere a spada tratta l’ennesimo adattamento british di un "libro x" di Jane Austen. Un film progettualmente inutile, nato vecchio e/o stanco. Un film in costume e romanticheggiante, con tanto di tramonti e la solita fotografia splendidosplendente. Ma che, io sia maledetto!, mi ha conquistato e mi ha trasformato gradualmente in una ragazzina sedicenne con carenze affettive.

Vorrei dire che è merito dell’esordiente regista, che mostra ancora, soprattutto a cinefili restii (ed è un mea culpa), quanto sia alto il potenziale della formazione televisiva: e forse Joe Wright esagera persino un po’ troppo con tecnica e tecnicismi da manuale del perfett(in)o regista. Ma è indiscutibilmente bravo, tra piani-sequenza interminabili (il ballo in casa dei Bingley: fatela voi, una sequenza del genere) e scene davvero formidabili e inattese, come quella di Lizzie allo specchio e quella di Lizzie sull’altalena.

Lizzie, appunto. Perché nonostante ci sia il volto timido ed espressivo di Talulah Riley, una Mary Bennet corretta e tenera, e nonostante ci sia la mia adorata – per ragioni che esulano dal contesto filmico – Jena "Darko" Malone, una Lydia Bennett antipatica e conciata da fare schifo, il film è ricolmo, stracolmo, e straboccante, della Lizzie Bennet di Keira Knightley. Del suo collo stellare e del suo ghigno lievemente mostruoso e irresistibile e del suo delizioso accento posh prima sussurrato poi urlato poi sofferto tra le lacrim(ucc)e.

Ecco, vorrei dire che è merito della Knightley, oppure dell’impagabile Donald Sutherland che sta per tutto il film mezzo seduto e mezzo ciucco ma che a 70 anni suonati chiude il film alla grande con gli occhi umidi per la felicità della propria figlia e un "I’m quite at my leisure" da stretta di mano. Vorrei dire che è merito loro, di un cast formulato con garbo e senno, se per tutto il film mi sono mangiato anzi divorato le unghie come un’adolescente (e si badi, c’è l’apostrofo) e se nei due "incontri" tra Lizzie e Darcy (sotto la pioggia, e all’alba) mi sono sentito come una liceale innamorata, e mi mancavano solo la copertina e il cioccolato.

E invece, mi sa che è merito di Jane Austen. Ma chapeau a tutti gli altri, eh, che non s’abbiano a male.

[controcampi]

Karma. You got to love it.

Sito ufficiale, Wiki.
Caldamente consigliato.

[post in attesa]

inutili e insonni giochetti grafici, parte prima

(una versione più grande cliccando qui)

inutili e insonni giochetti grafici, parte seconda

[men, thinking]

Donne in miniera, donne-vampiro, donne-uomo, Uma Thurman.
Britannici boccheggianti, italiani ammattiti.
Nel frattempo, due uomini pensano.

Scopri di cosa diavolo sto parlando.

Su Friday Prejudice, anche questa settimana.

I segreti di Brokeback mountain (Brokeback Mountain)
di Ang Lee, 2005

"This is a bitch of an unsatisfactory situation"

Brokeback mountain è il film che ha dato (e darà) maggior prestigio ad uno dei pochi registi asiatici che, al momento improrogabile del "passaggio" (1995, Ragione e sentimento, uno dei migliori adattamenti da Jane Austen), non ha tradito come altri – del tutto – le proprie qualità artistiche. Altro è dire che questo sia il suo film migliore (non so voi, ma da queste parti si stravede per Tempesta di ghiaccio e La tigre e il dragone) ma senz’altro è quello in cui Lee trova lo spazio più sicuro e solido per il suo personale sguardo – e ritmo – all’interno di un panorama – anche estetico – tutto hollywoodiano. Così, nasce Brokeback mountain, storia d’amore tra due pascolatori tristi, emarginati e solitari.

Ma a dispetto di una stampa che ha trasformato gli innocui giochi di parole degli spettatori veneziani sul titolo (sì, la montagna rottinculo lo dicevamo anche noi) in un tamtam mediatico imbecille che sta procurando al film una fama camp che non gli appartiene, in Brokeback Mountain ci si dimentica dei corpi, in un loro annullamento che ha pochi eguali nel cinema melodrammatico recente, così ossessionato dal genere, che siano distinzioni o ibridi. Qui quello che palpita è la storia di un amore inevitabile, carnale, passionale, reale, impossibile "come solo al cine" eppure attaccata alla realtà in modo estremo e davvero quasi "realista" – intorno a cui si levano le voci di sconfitta e poi di vittoria di un’omofobia sociale che – con il passare dei minuti – si scopre essere puro pretesto per un regista che è solo innamorato di una storia d’amore, come della montagna che la ospita e la coccola.

Davanti ai due corpi così deprivati e quasi sadisticamente costretti ad amare, si staglia il cielo e la pianura dell’America, quel posto puro come solo quelle nuvole in cui consumare – l’unico e ultimo possibile – la propria devozione sessuale. Insomma, con una storia così struggente e "forte", con una fotografia che spezza il cuore, con due protagonisti così perfetti, con una colonna sonora così "ben congegnata" (ne è artefice l’inarrituano impronunciabile Gustavo Santaolalla) è quasi impossibile non commuoversi: ma è decisamente possibile, dal momento che io – per dirne uno – non mi sono commosso.

Insomma, il film è perfetto, spiace quasi dire perfettino, e non nascondo che mi sia piaciuto almeno – come minimo – quanto mi aspettavo dopo le critiche entusiaste venute dalle voci più disparate e a volte insospettabili. Probabilmente manca di un qualche tipo di spinta estetica, non lo so: è difficile giudicare il perché non funzioni alla perfezione come dovrebbe, sotto l’aspetto emozionale. Ma sono dettagli, inutili dettagli di un film difficilissimo da azzeccare, e perfettamente riuscito grazie al talento e al lavoro di un team, e all’occhio – quello sì – molto più maturo del suo autore. Se vincerà, o stravincerà, non sarò certo io a dire che non ci hanno capito un cazzo.