Grizzly man
di Werner Herzog, 2005
Gli ultimi anni di vita di Timothy Treadwell, un uomo che ha vissuto intere stagioni a stretto contatto con i gli enormi orsi che vivono nelle pianure dell’Alaska (per poi lasciare la vita in quelle stesse terre), diventano nelle mani di Herzog materia per qualcosa che va un passo oltre il concetto di documentario, e comunque di sicuro oltre l’agiografia. Che viene accarezzata – quasi con un inganno nei nostri confronti – nella primissima parte, ma che poi si trasforma nel ritratto complesso, sfaccettato e profondo, di un nuovo Kinski, un altro uomo “contro”. Non più “contro un regista o una produzione, ma contro l’intera civiltà”, quella in cui è costretto a vivere e da cui fugge rifugiandosi nella natura.
Così Treadwell si mostra per quello che è, figura affascinante quanto irrisolta, inafferrabile, dolorosa: un uomo che insegue il suo destino e la sua ossessione fino a morire davvero sotto i colpi violenti della natura (in)contaminata, senza badare alla logica o alle leggi che sono il fondamento della società fin dal momento in cui l’uomo ha deciso di percorrere la sua strada e lasciare che la natura corre. La parola chiave è “boundaries”, “limiti”, quelli che Treadwell non esitava (eroicamente o stupidamente?) a sorpassare, inseguendo la morte e facendosi da essa raggiungere. L’ultima anarchia possibile, la sua.
Ma quello che è più straordinario di Grizzly man, e che Herzog sottolinea, è il valore prettamente filmico del testamento visivo di Treadwell. Sintomatico e inconscio, ma prezioso: Treadwell inseguiva in una sorta di continuo diario (da qualche parte si direbbe “un confessionale”) – e non senza smanie egocentriche – l’idea per cui in mezzo alla natura sarebbe potuto diventare (orso, volpe, fiume) natura lui stesso. Anche davanti all’occhio fisso della telecamera. E pur non riuscendoci, perché non comprendeva forse a fondo la bellezza della natura intorno a sè, la registrava con la purezza dei pionieri del cinema, e con l’ingenua emozione del genio.
Ma Grizzly man, film emozionante, tragico e bellissimo, non si ferma qui, e con grande lucidità e chiarezza è una metafora del cinema e dei limiti della rappresentabilità. E di fronte alla morte, al rumore della morte, persino Herzog passa “dall’altra parte”, prende le mani della vedova e piange con lei.