marzo 2006

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Il caimano
di Nanni Moretti, 2006

Avvertimento: se Il caimano parla – ma davvero? – dell’impossibilità di fare un film su Berlusconi, allora questo post parla dell’impossibilità di fare un post su Il Caimano.

Perché dopo una settimana di tale invasione mediatica (che solitamente sarebbe ben accetta, ma non quando si mescolano stupidamente terreni incompatibili), è difficile dire qualcosa di nuovo o qualcosa di sensato toccando territori che non siano già stati arati in abbondanza. A volte da penne più capaci, a volte inette e non richieste. Perché esce Il caimano e diventano tutti critici cinematografici, e tra di loro – come sempre – sono molti a giudicare il film senza vederlo. Si spendono tutte queste parole, e a uno che arriva a scriverne una settimana dopo che ne hanno scritto tutto gli altri, cosa resta se non prendere una posizione? Niente. E possibilmente, chiara.

Ebbene, solo questo mi rimane da fare, aggiungermi al coro (un coretto, a dirla tutta) di quelli che hanno amato Il Caimano. Quelli che l’hanno trovato una summa irresistibilmente bizzarra e straordinariamente irrisolta delle tre anime (il privato, il pubblico, il cinema) del suo cinema, soprattutto dell’ultimo suo cinema. Quelli che l’hanno trovato un film forse di transizione – o di passaggio – ma quasi miracoloso nel suo equilibrio, ma quasi sperimentale nel suo squilibrio. Quelli che hanno riso come matti e poi si sono spaventati come matti. Quelli che hanno pensato che Damien Rice non è Brian Eno*, ma che va bene lo stesso. Quelli che hanno trovato piacevole sia la morettianità di certi passaggi (soprattutto della sceneggiatura) sia il distacco di una regia che incespica un po’ (forse è vero che in mezzo a tutto questo cinema manca un po’ il cinema), ma che porta avanti il film con le unghie. Graffiando e mordendo.

Piaccia o no, Il caimano è un film che non si dimentica, che richiede un occhio attento e avulso dai preconcetti. E’ un film fondamentalmente intimista, perché parla di un personaggio, e insieme un film profondamente politico perché parla della nostra società. Non della decadenza dei valori nell’era berlusconiana, come si legge sovente, ma di un posto-nel-mondo squallido contro cui la bontà e la semplicità di certe immagini e frasi, metafore cristalline, è forse l’unico antidoto. O forse, o forse anche, l’antidoto è riscoprire quella stessa valenza politica del cinema (nel cinema), in modo da contrastare con il proprio sguardo il dilagante e tristo opportunismo in cui annegano gli ideali. Gli ideali non sono mai passeggiate.

Ma in fondo Il caimano è la storia di un piccolo uomo, e non dimentichiamoci degli aspetti che tutti tralasciano, del film di Moretti. Un film di una complessità progettuale e scenica quasi imbarazzante. Un film interpretato splendidamente (la scena nel campo di calcetto: ve la sognavate più una Buy così?). Un film italiano che sa far riflettere e scioccare, ridere, vergognarsi, disperare. Un film con un finale – e non solo – terrificante, intenso, unico. Un film bellissimo.

[e il tutto girerà pure intorno all'uomo-rettile e alle sue quattro facce, ma brilla di luce propria, e assolutamente a prescindere da lui. Per fortuna]

*nota: a me Damien Rice piace molto. Ma non è Brian Eno.

[beviamoci sopra, che è meglio]



Sequel inguardabili e remake per bambini,
titolisti italiani imbecilli e monaci Certosini,
il cugino stupido di Spike e Lamberto Lambertini.

Una settimana devastante.
Henry Chinaski, ora pro nobis.

Scopri come sfogarsi in modo sano
su
Friday prejudice, anche questa settimana.

American psycho
di Mary Harron, 2000

Tratto da uno dei libri fondamentali degli (e sugli) anni ’80 (pur essendo del ’91), American Psycho presenta già in partenza una difficoltà tipica degli adattamenti più rischiosi, e le conseguenze si vedono subito. Ovvero, il problema principale non è – come si legge(va) un po’ ovunque – come sia possibile mostrare la violenza e il sesso esplicitato da Ellis nel romanzo (cosa da poco, i fuoricampo esistono anche per quello, e la Harron li usa benissimo), ma piuttosto come esprimere in immagini la sua scrittura (in prima persona) fluente e descrittiva, e psicopatologica essa stessa come il protagonista del libro.

Quindi c’è un po’ di fretta, e un po’ di frettolosità, nel seguire le vicende del serial broker Patrick Bateman nella New York yuppistica degli sfavillanti eighties: la Harron cerca di riparare al possibile danno-noia mettendo subito un po’ carne al fuoco, asciugando i dialoghi all’essenziale, e cercando di arruffianarsi gli spettatori a destra e a manca trasferendo sullo schermo le parti più note e più chiacchierate (che so, l’urlo inaspettato verso la barista, o la scena della lavanderia, o quella dei biglietti da visita). Che sono però anche le più "forti", per sua fortuna.

L’accurata selezione non giova però all’anima profonda del film, che risulta spezzettato e indeciso, tendenzialmente pop ma non abbastanza pop. La Harron tuttavia mantiene un registro corretto che spesso salva il film dal disastro (anche se gli ellisiani non credo la pensino tutti così) e altre volte riesce persino a dare una forma e una vera "credibilità" ai suoi personaggi e ai suoi anni ’80, sia quando ci mette del suo (l’unica scena di sesso è formidabile, a suo modo), sia e soprattutto quando non cede – da buona sundancista convinta – a pressioni da mercatino. Come nel finale, che la regista mantiene insopportabilmente (e quindi, in questo caso, giustamente) oscuro, aperto e frustrante.

Tutto sommato, niente di davvero speciale e niente per cui versare lacrime di disperazione. Anche se resta il dubbio che si sarebbe potuto ottenere un risultato migliore forzando per una volta l’adattamento (Ellis avrebbe voluto chiudere il film con un numero musical), o forse non facendo affatto questo film.

Waiting for Glamorama. Ansiosamente.

[controcampi]

We all use math every day…

Everything is numbers.

Numb3rs, CBS.
Official site, Wikipedia, IMDB.

George Washington
di David Gordon Green, 2000

Il primo lungometraggio di David Gordon Green è una risposta perfetta ad una provocazione da me sollevata in questo post, dove scrissi – iperboleggiando - che non esiste più un vero cinema indipendente americano. Correggendomi parzialmente, perché intendevo che quello non era il c.i.a. di cui parlavo (e che desideravo), ammetto che questo film, esordio di un bravissimo regista texano e assolutamente invisibile in Italia, mostra che, se preso alla lettera, avevo torto marcio.

George Washington non è solo un film assolutamente indipendente (nel modo in cui utilizza i linguaggi e opera sui personaggi, assolutamente autonomo ma non del tutto esente dal "classico") e assolutamente americano (per come riflette sulla nascita di una nazione e gioca ai rimandi tra la Storia e il racconto di formazione indivudiale: leggasi). Ma è soprattutto il primo termine di questo curioso acronimo neologista a stupire: cinema. Puro cinema, dal sapore amaro e profondo. Roba che vorremmo vedere molto più spesso (esageriamo) nelle sale, e che ovviamente – ma chissà perché – ci possiamo scordare.

Ripartendo dal cinema di Malick (di cui è un seguace tanto esplicito che non servirebbe nemmeno dirlo), Green crea un universo cinematografico piccolo e umano, non del tutto inedito né perfetto, ma che è, visti i tempi che corrono e il fighettismo imperante, tanto una boccata d’aria quanto uno schiaffo emotivo: la messa in scena e la recitazione quasi impressioniste e vicine al documentario, accanto alla suggestiva voce fuori campo e alla magnifica fotografia (decisiva, visto che il nome del magnifico Tim Orr accompagna quello del regista all’inizio dei titoli di coda), creano una sorta di contrasto dall’effetto quasi ipnotico.

Ma alla fine è dei personaggi che ci si innamora, dei corpi e dei luoghi su cui ci si commuove senza remore, della voce di Nasia e dell’innocenza di George, dell’impotenza negli occhi di Vernon e del senso di fallimento (di una generazione, di una nazione) negli occhi di Sonya, del corpo solitario e sanguinante di Buddy, nel fiume.

Assolutamente da recuperare, e promuovere.

Se avete tanti dindini, c’è la solita meravigliosa splendente edizione Criterion. Per chi se la sogna di notte, l’edizione inglese dovrebbe bastare:una ventina di euro su play.com.

Impossibile non ringraziare il signor Gokachu, uno dei pochi fan italiani di DGG, che parlandone mesi fa mi mise la pulce nell’orecchio.

[there is only me, sir]

Wong, Wang, Shawn, Yawn.
Wong, Wang, Shawn, Yawn.

Non c’è granché da dire, tanto andiamo a vedere solo Moretti.
Non c’è granché da dire, tanto andiamo a vedere solo Moretti.

E no, non ci vedete doppio: stavolta c’è persino un ospite.


Scopri chi, su Friday Prejudice, toh, anche questa settimana.


(ma non dimenticarti di The Game, qui sotto)

[THE GAME – 1:2] Il Cinema Sporco

Tras el cristal
di Agustí Villaronga, 1987

Un occhio aperto, chiude la palpebra. Poi un obiettivo, il diaframma che si chiude. Controcampo, due piedi sollevati da terra. Controcampo, un uomo con una macchina fotografica. Controcampo, due mani legate. E’ già tutta qui, nella forza incredibile delle prime immagini, illuminate da lampi di luce iperrealista e gelidamente blu, tutta la forza e la pregnanza simbolica del film. Che poi si scopre sì – e presto – di genere, accarezzando l’horror nello scoprire la morte, corteggiando la Storia nei fotogrammi dei titoli di testa, e facendo dra(m)ma del suo protagonista. Un corpo ridotto a puro sguardo, all’interno di una tomba di vetro.

Di nuovo l’incipit: al di fuori della stanza, massimo abisso dell’abiezione umana, un occhio scruta, osserva, ama e odia. Siamo già noi, assuefatti in pochi secondi ad un atmosfera orribile e funesta, ma contratti, e attratti dalla fascinazione del male. E’ da chiaro fin da subito, che l’Angelo che apparirà alla porta della camera di Klaus siamo noi. Siamo noi, l’angelo sporcato per sempre e irrimediabilmente dalla bellezza della morte, o meglio dell’immagine(movimento) della morte. Siamo noi, lo sguardo puro del fanciullo che ripete i gesti del "padre", per compiere da un lato una vendetta impossibile, dall’altra la violazione di un percorso redentivo e suicida. Morire, no, non basta.

Il film di Villaronga è un film affascinante, tetro, lentissimo e violento, con un incipit incredibile la cui bellezza è difficile da reperire nel cinema europeo coevo. A volte imperfetto, quasi per scelta o per perdonabile ingenuità, ma con una serie sterminata di suggestioni cinematografiche e soprattutto linguistiche che non ci si aspetta da un film tanto sconosciuto, tantomeno dall’opera di un (ai tempi) film di un (ai tempi) esordiente. Un film che invece unisce sapientemente l’orrore della Storia all’orrore delle parole (una confessione rubata e poi riconsegnata), e mescola il miglior thriller italiano con il Peeping Tom di Powell, con cui condivide quello stesso sguardo insistito sulla morte e "attraverso" la morte, lo sguardo qui negato e poi ritrovato nello specchietto ribaltato di Klaus. Rovesciato, proprio come – appunto – un obiettivo.

Impossibile non stringere i denti davanti al sangue e al respiro soffocato della giovane vittima, ma il film, più che per le singole scene, di rarissima e feroce intensità emotiva, colpisce per l’atmosfera di decadenza totale e diffusa, che diventa quasi apocalittica, e che accompagna i volti (e soprattutto la casa, personaggio morente e piegato al fuoco) di Angelo, di Rena, e di Klaus. Quest’ultimo, uno straordinario corpo-immobile destinato a rivivere l’autocoscienza della propria morte, e legato al destino e al volere di Angelo. In fondo, forse, un vero e proprio angelo. Un angelo della morte, e della vita.

Gli altri giocatori:
AndreaGokachuInfamousOhdaesuPrivate
(i link appariranno entro poche ore)


I precedenti:
# 1.1 Rubber’s lover
#       Tutti

V per vendetta (V for vendetta)
di James MacTeigue, 2005

Quando esce un’opera cinematografica tratta da un simile oggetto di culto, si tende spesso a dimenticare tutto quello che sta dietro alla parola "adattamento", come le differenze inevitabili tra i due linguaggi (in questo caso, il fumetto e il cinema), le contingenze storiche (l’era Tatcher contro l’era Blair-Bush). Fare un raffronto certosino tra il il film di MacTeigue e il fumetto di Alan Moore, una delle vette della nobilissima arte dei graphic novel, lascia insomma il tempo che trova. Insomma, si tiene conto del "confronto", ma trovo che sia stupido soffermarsi su particolari come lo spostamento baricentrale sul personaggio di Finch, o il coup de théâtre finale, peraltro riuscitissimo.

Insomma, molti mooreiani duri e puri hanno storto il naso fin da quando Moore se ne andò "sbattendo la porta" di casa Warner, senza curarsi di aspettare il film e vedere che cosa i veri demiurghi del film avrebbero cavato da un progetto appassionato e coltivato da un decennio, fin da prima di Matrix. Allora, lasciamo ad altri il lavoro filologico, e vediamo piuttosto come sia il film, se sia riuscito o meno, e quanto, perché l’arte (anche se industriale) è incompatibile con l’idea di "testo sacro". Siamo qui per questo.

Presto detto, per onor di sintesi: V per Vendetta, il film, è bellissimo. I fratelli Wachowski, che scrivono e producono con il cuore in mano, estraggono dalle loro viscere quella stessa irresistibile foga che muoveva il loro film più celebre, e raschiano le nostre, di viscere, con una schiettezza che, se pur ammorbidita rispetto al potenziale esplosivo del fumetto, è comunque strabiliante. Il cinema dei fratelli Wachowski è il cuore anarchico che pulsa nel petto del cinema hollywoodiano. Così, un prodotto terribilmente mainstream, come questo è, si trasforma in uno degli oggetti pop-culturali recenti più capaci di parlare con chiarezza del presente politico e globale, afferrando (e riadattando) la metafora, la simbologia, e la "grafica" di Moore e Lloyd con tenacia e coerenza, nel miglior modo possibile. Di più, era impossibile chiedere.

Inguaribili ottimisti, certo, e non certo cupi e disperati come era Moore. Auspicano una rivoluzione delle rose, non certo un bagno di sangue, un cambio di rotta più che un caos anarchico e primordiale. Mostrano un mondo assuefatto alla bugia, più che un mondo schiacciato con il piede della violenza. Ma se negli anni ’80 potevano essere adatte immagini più forti e incisive (sia prima che dopo la rivoluzione), ora i problemi del mondo sono legati più che altro all’inganno dei vertici e all’acquiescenza della massa (colpevole finché non si ribella), alla produzione industriale della menzogna, al "rifiuto del dibattito", alla concentrazione dei poteri e soprattutto alla paura e al terrore. In questo senso il film è quasi più orwelliano del fumetto stesso, perché cerca una via che sfugga da una riproduzione più catastrofista, che sullo schermo avrebbe potuto risultare (paradossalmente) più manierata o manicheista, e si concentra più che altro su un futuro possibile che sembri un presente possibile.

Qualche piccola riserva di merito si può sollevare sul versante visivo, in quanto l’esordiente (nonostante la lunga carriera di assistente regista) James MacTeigue appiattisce molto il lato plastico del film, mal servito soprattutto dalla fotografia del mediocre Adrian Biddle. Oppure si può dire che, qualche volta, si cede alle tentazioni di linguaggi più semplici e tipici, cercando l’umanizzazione a tutti i costi (certe buffonerie di V ricordano l’effetto che faceva Eric Draven che apriva la birra al poliziotto) e appoggiandosi in alcuni momenti sul solo "buon servizio allo spettatore pagante". Eppure, anche le sequenze più action e smargiasse (come il "knife time") sono realizzate con una cura e un talento tali che V4V scarta di lato tutti i più recenti prodotti simili, risultando – anche sul versante dell’intrattenimento – uno dei più riusciti adattamenti fumetto-cinema di sempre.

Ma soprattutto, mai avremmo immaginato un adattamento di V for vendetta così parlato, quasi – ma necessariamente – verboso e teatrale, mai avremmo pensato di vedere un film così "masticabile" eppure così straziante, così concitato ed emozionante eppure capace di prendersi i suoi tempi, un film che invece di far svolazzare mantelli tutto il tempo (cosa che a tratti fa, e che fa un gran bene) preferisce concentrarsi sui personaggi, sulle maschere, e su quello che si cela dietro ad entrambi. Dietro ai simboli dell’abnegazione, della rassegnazione, della lotta, delle idee.

[street fighting man]

A revolution without dancing is a revolution not worth having.

Doom
di Andrzej Bartkowiak, 2005

La cannibalizzazione reciproca tra il mondo dei videogiochi e quello del cinema, con rare eccezioni, porta quasi solo a disastri. Si era capito da tempo, nonostante i fan del Raul Julia terminale conciato da Mister Bison non siano pochi. Allora perché fare un film da Doom, che peraltro di cinematografico aveva solo il linguaggio (la soggettiva esasperata a unico linguaggio visivo, che aprì la strada ad altre decine di First Person Shooter), e che era chiaramente, (per carenze strutturali, a differenza del venturo Silent Hill) inadatto all’adattamento?

Ma il problema non è questo, perché si sa, il mercato è fatto anche di consumi d’impulso emozionale, e Doom è un prodotto generazionale per antonomasia. Allora la domanda diventa: perché sprecare così poche energie mentali in un film che per alcune persone può avere un qualche significato? Più semplicemente: perché produrre un film così insulso, noioso, inutile, brutto? Perché è brutto, Doom, eh, oltremodo.

Non ci sarebbe bisogno nemmeno di spiegare perché sia brutto, va da sè: la sceneggiatura riduce al minimo storico i conflitti, e l’unico momento in cui i neuroni si accendono dovrebbe essere nella "metamorfosi" dell’inguardabile The Rock e del suo tatuaggione schienale. Gli attori sono tremendi, tutti "wannabe qualcun altro", che sia Colin Farrel o Steve Buscemi o Ice Cube. The Rock non ha bisogno di voler essere nessuno, basta a se stesso. Il film è cupo, buio, violentissimo, concitato, urlatissimo, va bene. Ma sotto sotto è tutto un cliché (che so, c’è il defibrillatore) ed è terribilmente noioso. Noioso è una brutta parola per un action-horror, ma lo è.

Almeno fino a quando, grazie al cielo, tirano finalmente fuori la famosa soggettiva che tutti aspettavano. Con tanto di pistolona e teste che saltano: figo. Ma succede a un passo dalla fine, e per pochissimi minuti. Non solo si è portati a pensare che la produzione sia fatta di imbecilli, visto come la sequenza stessa funziona bene (piuttosto della porcheria che l’ha preceduta, l’avremmo preferito tutto così), ma ci si sente anche presi per il culo.

Si potrebbe anche pensare, e sono certo che qualcuno da qualche parte l’ha fatto, che in fondo Doom non dia un’immagine molto rasserenata dei marines, che qui hanno tutti una valanga di problemi comportamentali. Ma suvvia, vogliamo davvero credere che le metafore e la semantica in questo giocattolone idiota non siano altro che pretestuali? Il cinema è altrove: Doom è solo un bruttissimo errore che vogliamo dimenticare in fretta.

[cose per cui vale la pena vivere]

- Scoprire cosa potresti votare il 9 aprile, e scoprire che più o meno lo sapevi già. Sorridere, rassegnato.

- Scoprire che Angry Alien Productions ha rifatto Brokeback Mountain. Ridere incontrollatamente per molti minuti.

- Scoprire che una canzone che ascolti superficialmente da mesi ha un testo tanto bello quanto triste. Trattenere le lacrimucce in attesa di un concerto in cui le butterai fuori tutte.

- Scoprire l’esistenza dello slamball. Rimanere estasiato.

- Scoprire che a volte una cosa, se non la scrivi, se non la butti giù, non la fai. Decidere dunque di redarre una wishlist seria per il futuro prossimo venturo. Eccola.

[2 film di Masaki Kobayashi, 2 film di David Gordon Green, 2 film (recenti) di Seijun Suzuki, almeno 2 film di Aleksandr Sokurov]


- Scoprire che a volte i cineblog ri-aprono.
Sorridere e basta. Perhaps, perhaps, perhaps.

L’incubo di Darwin (Darwin’s nightmare)
di Hubert Sauper, 2004

L’ultimo formidabile film del documentarista tirolese è sia una conferma, dopo quanto se n’è parlato e per tutti i premi che ha vinto in giro per il mondo, sia una sorpresa. Perché sviluppandosi da un dato "interessante", che sembra quasi la "curiosità" che molti spettatori cercano svogliatamente in un documentario (ovvero la presenza nel Victoria Lake di un pesce estraneo che si è mangiato l’intera fauna locale), si autoalimenta con un meccanismo quasi inconscio diventando infine qualcosa di molto diverso. E molto più doloroso.

Diventa insomma un ritratto a tutto tondo dei rapporti tra l’occidente capitalista e il sud del mondo, un affresco nerissimo, come poche volte ci è stato concesso nel passato prossimo, che ci parla di ragazzi che sniffano pesce bruciato sulle spiagge, di bambini che si picchiano per un pugno di riso, di ragazze che per sfuggire alla povertà trovano la morte sotto i colpi di una lama straniera, di uomini che sognano la guerra perché "sotto la guerra c’è lavoro per tutti". E sopra le loro teste gli aerei che rombano.

Portano in Europa la vita, e riportano in Africa la morte.

Di premi ne ha vinti tanti, ma l’Oscar se l’è fatto fregare dai pinguini di Jacquet. Va detto, però, non c’era lotta.

[sheep counting sheeps]

The Rock.
Besson.
Vin Diesel.
Saddam.
Franco Nero.

No, non è un brutto sogno.

Ci son tante pecore nere che a contarle ci si addormenta.
Chi ci potrà mai vendicare?

Su Friday Prejudice, anche questa settimana,
insultiamo film che non abbiamo visto.

(colà usiamo la prima persona singolare, giuro)

Æon Flux
di Karin Kusama, 2005

Sorge un piccolo problema, a parlare di Æon Flux, ed è un problema di distinguo. Cioè, si sarebbe portati a bocciare senza indugi l’orribile filmaccio della Kusama, regista newyorkese passata dal cinema indie-femminista agli scarti appassiti del bruckheimerismo, quando invece è chiaro che quello che c’è davanti è un sintomo di qualcosa che non va, oppure di un qualcosa che è giunto al suo canto del cigno. E, come diceva Harry Burns, "that ‘symptom’ is fucking my wife".

Perché possiamo anche sorridere delle inesattezze di una sceneggiatura frettolosa che attende solo il prossimo svolazzo, della regia patetica e del montaggio fatto con il randomizer, del ritmo che è quello di un trailer troppo lungo e che anzi imita i trailer come fossero un modello, dell’evidente difficoltà di arrivare all’ora e mezza di ordinanza rallentando verso la fine con un pietoso melodramma da giardino, di una protagonista antipaticissima e inadatta che per quanto topa fa rimpiangere persino chiappe della Johansson che non abbiamo visto in The island, di Pete Postlethwaite ricoperto di cerone e conciato come un guru di passaggio, di personaggi che agiscono (e attori che recitano) come nella peggiore imitazione di un brutto episodio di un clone di Alias, possiamo, sì.

Ma la verità è che questo è un film perfetto per il pubblico a cui si rivolge, una fascia di età sempre più ampia, che siano i nostalgici del brutto cartoon di Peter Chung oppure i geek dell’ultima ora, ed è ideale per un pubblico privo (o privato) di una coscienza critica del cinema di genere. Æon Flux non è uno scherzo: è una dichiarazione di guerra al buon senso, ed un atto di sottile violenza nei confronti del cinema. Quindi c’è poco da sorridere, se quel sintomo si sta scopando mia moglie. E sarà anche un segno dei tempi, ma fa proprio male vedere un film potenzialmente ricco di spunti e divertimento stuprare il cinema a questo modo.

Resta la domanda: se fossimo in televisione, quella parte della televisione rimasta indietro e imbruttita dall’età, forse tutto ciò sarebbe più facile da digerire? Ma siamo davvero sicuri di non esserci?

[controcampi]

Ogni profeta nella propria casa.

Carnivàle, HBO
Sito ufficiale. Wikipedia. IMDB.

Quando l’amore brucia l’anima (Walk the line)
di James Mangold, 2005

Bastano pochissime battute di Walk the line, le prime ma anche qualsiasi altre, per capire cosa ci si possa trovare tutto intorno: perché il film è disseminato praticamente in ogni singola sequenza di ogni abusatissima locuzione filmica che si conosca (chiamiamole pure "luoghi comuni"). Se la convenzionalità può o addirittura deve essere l’unica cifra stilistica per potere raccontare la vita (o un pezzo della vita) di Johnny Cash, allora possiamo tranquillamente fare finta che il film non sia – come in effetti è – scorrevole e sommariamente piacevole. Al contrario, possiamo imbestialirci, di brutto.

Non accetto un film come Walk the line, non perché trasformi – come in effetti fa – una biografia straordinaria in una soap vetusta e ammuffita. Non perché sprechi – come in effetti fa – le potenzialità offerte dalla forma-musical con una regia incapace di giocare emotivamente persino sulle reazioni più basilari, piatta e inerte, non inetta ma inutile (roba da pomeriggio di canale5). Non perché infine io sia ormai – come in effetti sono – un uomo senza più un cuore. Non lo accetto perché le canzoni di Cash riescono da sole a schiacciare i dialoghi, così come è la vita di Cash a massacrare la sceneggiatura. Si vede a occhio nudo che quel che c’è di buono nel film è, bene o male, Cash stesso, e poco altro.

Poi. Non ci si decide mai se si vuol fare un biopic o una love story. Mangold cerca di farle entrambe, un colpo al cerchio e uno alla botte, mezz’ora di turno a testa per contentare sia i fan duri e puri che chi non sa chi diavolo fosse quest’uomo vestito di nero con il vocione. Quindi i dettagli più biografici risultano a volte ridondanti e a volte insufficienti, così come gli schemi tipici della storia d’amore complessata (lui ha la scimmia, lei lo salva, lui guarisce, aspetta, aspetta, no, aspetta, ecco, amiàmose) risultano talmente ritriti da apparire risibili, quando la loro realtà avrebbe potuto davvero far esplodere lo schermo. Il risultato, il film insomma, è a dir poco sconsolante.

Però, ecco, c’è Cash. And it burns, burns, burns, the ring of fire, fa sempre piacere. Oppure, magari, ecco, c’è Phoenix, che dà tutto se stesso in una prova da brividi (senza contare una certa identificazione attore/personaggio, vista la rilevanza data al fratello morto di Cash). E’ sempre stato bravo, Joaquin, ma forse mai così bravo. Altro che Reese Whiterspoon: questa tizia da niente fa tutto sommato niente più che il suo pulitissimo porco lavoro, e si porta a casa lambitastatuettammericana. Oh, contenta lei, contenti tutti.

The weather man
di Gore Verbinski, 2005

"That was refreshing. I’m refreshed. I’m refreshing."

Gore Verbinski, lo si è scritto altrove, è un regista eccezionale. Non perché i suoi film siano eccezionali, ma perché possiede doti di versatilità e intelligenza rare nel cinema americano più "mainstream", doti preziose che hanno portato a piccoli miracoli come "rendere piacevole e spassoso un film prodotto da Bruckheimer", oppure "fare di un remake modaiolo di un horror giapponese un film quasi all’altezza dell’originale".

Dopo aver applicato la sua mestieranza in casa Disney, e in procinto di farlo ancora per due – inevitabili – volte, Verbinski si prende una pausa, e sceglie di dirigere un film piccolo e bizzarro, relativamente "autoriale" rispetto agli altri suoi lavori, in ogni caso un film che cerca di allontanarsi dai canoni del cinema statunitense proponendo una formula e una "forma" abbastanza inusuale, ma che può ricordare – vagamente - il Mendes di American beauty. Il problema è che, per quanto il progetto sia ammirevole e ben scritto, e per quanto Verbinski sia ancora professionale nella messa in scena, il film sbraca clamorosamente.

Non si capisce nemmeno perché: è forse una questione di armonie mancate, o di alchimie sbagliate. Perché, a raccontarlo, The weather man è bellissimo. Ma a guardarlo lo è un po’ meno. Si cerca di parlare delle pieghe della quotidianità, del rapporto tra padri e figli, dei successi e dei compromessi, dell’impossibile lotta contro la propria mediocrità, della visibilità e dei media, buttando sul calderone fumante una quantità indefinita di stimoli che mal si combaciano con la glaciale e cinica messa in scena e con l’effettiva portata narrativa – in secondo piano rispetto ad una forma lucidissima e matematica.

Perché Verbinski, forse soffocato da eccessive ambizioni o forse semplicemente annoiato, con un malefico effetto-Mendes cerca in tutti i modi l’inquadratura giusta: non sempre sfugge dai manierismi. Ma riesce comunque per il rotto della cuffia a confezionare un film interessante e intelligente, anche perché capace di dire qualcosa sulla quotidianità che non ci si aspettava di sentire, e di toccare pure qualche corda, proprio perché quel qualcosa è dolorosamente vero. Chiaro, può far persino incazzare, ma "la verità ti fa male, lo sai".

Fornito del peggior look mai affibiatogli dai tempi di Peggy Sue, Cage si arrabatta come può, ed è credibile solo a lampi: viene schiacciato rumorosamente da un solo paio d’occhiate lucide di Michael Caine.

"In this shit life, you have to chuck some things."

[paraponzi, ponzi, po]

Questa settimana escono solo cinque film.

Se due di loro sono italiani, è un buon segno.
Se nessuno dei due è allettante, è un brutto segno.

Se due di loro riguardano il continente nero, è un buon segno.
Se entrambi sono allettanti, è un ottimo segno.

Ehi, io vi ho avvertito, eh.

Dove?

Su Friday prejudice, pensa, anche questa scarna settimana.

Poi ovvio che c’è il quinto film ma nessuno se lo caga.

[the cameo of the year]



E post in attesa.

Me and you and everyone we know
di Miranda July, 2005

Non lo posso negare, che il primo film di Miranda "July" Grossinger, artista-a-tutto-tondo, videomaker che ce l’ha fatta, è stato ad un passo dal sorprendermi, ad un passo dal commuovermi, ad un passo dal piacermi davvero. Come non posso negare che quell’incipit genialoide, la mano in fiamme sbattuta al ralenti sul prato davanti a casa, mi avesse fatto sperare in meglio. Non in un miracolo, ma almeno di non dover staccare i miei testicoli da terra alla fine del film.

Perché MAYAEWK (è un acronimo, ma sembra una parola ewok) sembra un film di Todd Solondz senza tutto ciò che rende più prezioso del cinema di Solondz: i disgustosi mostri della periferia americana diventano gli amabili mostriciattoli della provincia americana, l’impossibilità amorosa diventa negligenza amorosa, la coralità funziona ma annega nei leziosismi, eccetera. Il tutto ha un tale sapore di frustrazione intellettuale (apparentemente, perché la July è una videomaker che ce l’ha fatta) che persino le piccole reiezioni e le montate ma innocue provocazioni sessuo-sociali sembrano robetta da rivista da tavolo, o da banchi del liceo artistico.

Ciò nonostante, la July ce l’ha fatta per qualche ragione. Così, come non si può nascondere quanto detto finora solo perché sundance dixit, lo è anche la capacità incredibile dell’autrice di costruire piccoli, intimi e bellissimi quadretti, di poesia quasi imbarazzante. Come la sequenza della gara di fellatio, o la passeggiata che diventa una pessimista metafora della vita amorosa, oppure il dolcissimo incontro tra il piccolo Brandon Ratcliff e l’intellettuale – appunto – frustrata Tracy Wright. La giovane vermontina ha però talento compositivo più che talento registico: saremmo curiosi di vedere le sue idee in mano a braccia più consapevoli, correndo però il rischio di ripetere quell’innominabile porcata di Wayne Wang da lei co-scritta qualche anno fa.

Comunque, al di sopra di tutto, di ciò che è riuscito e ciò che è meno riuscito, che lo si voglia o no, c’è solo e unicamente l’ego indie, sbarazzino e molto molto trendy di Miranda July. Una videomaker che ce l’ha fatta e che ce lo sbatte in faccia. Ci mette pure dentro le sue opere, innescando meccanismi metalinguistici interessanti ma che non possono non irritare lo spettatore medio che non passa i suoi pomeriggi al MoMA. Senza nulla togliere al MoMA. La July è introversa, gracile, arty, occhioniblu, e ancora introversa. Insopportabile: se mi date una torre la butto giù.