[un quarto di secolo]
6 marzo 1981: in una ridente cittadina lombarda,
Kekkoz veniva alla luce.
6 Marzo 2006:
Memorie di un (non più) giovane cinefilo
.
Mah-nah-mah-nah.
[un quarto di secolo]
6 marzo 1981: in una ridente cittadina lombarda,
Kekkoz veniva alla luce.
6 Marzo 2006:
Memorie di un (non più) giovane cinefilo
.
Mah-nah-mah-nah.
Da queste parti, spesso le questioni sono relative. Per esempio, si può dire che Hostel è un film bruttarello, che forse è un (piccolo) passo indietro rispetto a Cabin fever (che pure non mi aveva fatto impazzire), eppure per suddette questioni relative mi sento in parte di difenderlo, o almeno di cercare i suoi "pregi" di modo che possano essere poi sepolti dai difetti sottolineati altrove.
C’è un’estesa quantità di ragioni per cui farlo. Per esempio, il modo in cui Roth si relaziona ai personaggi, che se non inedito è comunque straniante. Cioè, costruisce un personaggio convincendoci che sia il protagonista (anche perché è il tipico protagonista) e poi lo fa schiattare in quattro e quattr’otto. Lezione hitchcockiana, si direbbe. Con le dovute distinzioni. Allo stesso modo, l’uso che Roth fa del ribaltamento è interessante: ovvero, il passaggio da una (pur inquietante) commedia sexy "american road pie trip" ad un violento massacro è studiato alla perfezione. Il risultato non è perfetto, perché alcune incertezze e sbavature rovinano tutto. Insomma, mostrare il corridoio prima che ci si tuffi del tutto nell’errore è un fastidioso contentino per un pubblico che si immagina già annoiato ed in preda agli spasmi nell’attesa del caro vecchio succo di pomodoro. Lo ammetto, è così, a quel punto si è già stufi. Ma la coerenza non fa mai male.
Qui cominciano i problemi, perché finché si parla di Hostel in senso assoluto sembra che sia un’horror inessenziale e innocuo, uno slasher old style tanto per farsi quattro urla (e/o risate, a vostra scelta). Invece, tramite forse anche la supervisione e/o amicizia dello zio Quentin (che invece di apparire come in Sin City, il suo spirito è in uno schermo con la faccia incazzata di Samuel Jackson doppiato in slovacco: già cult), Hostel vorrebbe essere un po’ di più, un po’ più postmoderno, un po’ più "progettuale". E come ha dichiarato Roth mille volte, come Cabin Fever era un omaggio agli horror seventies americani, Hostel dovrebbe essere un omaggio agli horror nineties nipponici. Domanda-chiave: lo è? Domanda vera: ha importanza?
Non lo è, e non basta la comparsa di Miike che dice una boiatella a omaggiarlo, né tantomeno un espianto oculare purulento in bella vista. Chiunque abbia visto un film di Miike sa che ne siamo lontanucci. Importa, dunque? L’unica cosa certa è che Roth ha solo voglia di abbattere i limiti della visione che spesso ci si dà nell’horror, fregandosene degli appigli commerciali del "parental guidance" (per cui se in America fai un film vietato ai minori ne decreti la morte economica). Dunque, basta questo? No, perché Roth alla fine si appoggia a una concezione dell’horror molto semplice e basilare, quasi elementare, e facendo l’errore imperdonabile – ma appunto elementare – per un film del terrore. Ovvero confondere il soggetto per l’oggetto: cioè, Derek Richardson dovrebbe farci urlare solo perché non fa altro che urlare?
C’è insomma qualcosa di buono in Hostel? C’è, e non è poco. L’uso delle location, per esempio, oppure – sempre nello stesso "settore" – il ribaltamento prospettico notte giorno (per esempio, sul volto delle due "femme fatale", ma anche sui "profili" di Bratislava) che richiama l’iconografia vampiresca afferente ovviamente all’est europa. Dove gli slavi sono come un americano si immagina uno slavo: un classico. Oppure il finale, che è davvero impietoso e coerente come gli si è richiesto, e anche se non arriva inatteso (è anzi logico) è un toccasana. Jay Hernandez, dalla sua, è assolutamente poco credibile, ma si dà da fare, e la sua fuga e la "rivincita" sono irresistibili.
Ecco, è magari il suo slancio da eroe ad essere incompatibile con l’ecologia del film, e a dare la sensazione di "ecco, cazzo, hai rovinato tutto". E in effetti è così: Hostel è un film che costruisce composizioni ordinate e pregevoli (all’interno dei relativissimi meccanismi di genere) e poi le rovina. Un film che azzecca il progetto e lo applica male, oppure che fa il contrario, ma che mai e poi mai li azzecca entrambi. Possiamo accontentarci solo se – come ci chiede Roth – lasciamo a casa il cervello e ci portiamo al cinema le budella. Ma almeno facesse paura: faremmo una festa in suo onore. Peccato che più che altro non faccia che ribrezzo.
[keira knightley nuda into the blue topa]
Questa settimana escono undici film.
Eh, ma dico, uff.
Esce anche un altro film italiano, anzi due, facciamo tre.
Esce anche un altro film con Jake Gyllenhaal.
Esce anche un mischiottone per l’unicef.
Esce anche un altro film con Ewan MacGregor.
Esce anche un film con dei sudafricani che si sparano.
Esce anche un altro film con Rachel Weitz.
Esce anche un altro film con degli spagnoli che scopano.
Esce anche un altro film con Nicholas Cage.
Su Friday Prejudice, anche questa settimana,
ve li metto giù uno per uno, poi fate voi.
Tanto esce Wallace & Gromit e se li mangia tutti.