aprile 2006

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FEFF8
Gimme Kudos
,
HUANG Jianxin, 2005,
drama, European Premiere

A dispetto delle aspettative, che mi davano ogni singolo film del FEFF proveniente dalla cina continentale come una fregatura clamorosa, il primo mostrato al Festival non è affatto male, è anzi invece un film interessante e stimolante, ben realizzato e – miracolo! – per nulla noioso, che con una storia che mescola il mystery alla commedia (e a uno sguardo sulla realtà), gioca una specie di lunga partita di tennis tra le esigenze dettate dal regime e una sotterranea ma evidente pulsione critica nei confronti di esso. Un film comunque imperfetto, impreciso, immaturo come molto "giovane" cinema cinese, per cui non si grida certo al miracolo. Ma anche un film che sa parlare, con la leggerezza della metafora e anche grazie ad un finale apertissimo, tanto furbo quanto ambiguo e misterioso, del gap generazionale e dello scontro che sta avvenendo tra la culture della tradizione maoista e della modernità tecnologica. Recitato benissimo da tutti: menzione speciale per Miao Pu, la moglie del protagonista, bellaebbrava.

[FEFF8]
Masters of Horror: Imprint,

MIIKE Takashi, 2006,
period horror, European Premiere

L’attesissimo capitolo miikiano della serie di mediometraggi prodotti da Mick Garris comincia come una mezza delusione: non che non sia interessante, originale e "bello", ma c’è una lentezza e una teatralità esasperate che in un regista "barbaro" come Miike non sempre amiamo. A cui si aggiungono il tremendo attore protagonista e il fatto che tutto il cast parli un fastidioso inglese posticcio. Poi arriva una scena, qui già chiacchieratissima, con svenimenti in sala e via dicendo, che è a tutti gli effetti l’estremizzazione (sia visiva che sonora) del finale di Audition. Da lì, la strada è in discesa, ed è una splendida, terrificante discesa negli inferi: Imprint diventa un Rashomon horror, coraggioso, impervio, stilizzatissimo, esplicito persino per i canoni di Miike, ma formalmente meraviglioso (pur nella cornice dell’HD televisivo). Insomma, Imprint è un film che – pur non essendo al loro livello – riassume due Miike che amo molto, quello estetizzante e ricercatissimo di Box, e quello argutamente violento, antiromantico e allo stesso tempo spudoramente romantico, di Audition. Non posso che essere felicissimo.

Dettaglio di costume, che piace tanto: ho una terza foto con Miike. Sembriamo due pirla. E per via del flash, si vedono gli occhi di Miike sotto gli occhiali. Ho visto cose che voi, eccetera.
Vorrei scusarmi infine e pubblicamente con il mio stomaco per aver approcciato Imprint dopo quelle salsiccette unte: il risultato (una pausa-film di due minuti, chinato su un water senza emettere nulla ma con un paio conati e la pressione sotto le scarpe) dovrebbe essere indipendente da quello che avevo appena visto (keywords: aghi, unghie, gengive). O forse no. Probabilmente no.

[FEFF8]
Rules of Dating
,
HAN Jae-rim, 2005,
romantic drama, European Premiere

Se una cosa mostra con chiarezza Rules of dating, film di un giovane e esordiente ma non privo di un certo talento registico, è che il sistema di narrazione e rappresentazione del cinema "mainstream" coreano, crisi commerciali e artistiche a parte, ha di per sè un qualche tipo di valore aggiunto, in qualche modo alchemico, che può persino salvare un prodotto dal disastro (ovvio, non lo fa sempre). Insomma, Rules of dating non funziona molto bene, o almeno non funziona sempre bene: è pesante, un po’ pedante, noiosetto, messo tutto sulle spalle di due bravissimi attori (entrambi vere star, visto che vengono da Oldboy e Memories of Murder), che però non possono tenere il peso di due ore secche (i minuti di troppo li si sente nei troppi finali). Però, tra indecisioni e mollezze, tra gentilezze romantiche e cattiverie tipicamente coreane (tipicamente, nel senso che il modello del ribaltamento delle "regole del’appuntamento" è abbastanza oliato a Seoul) ma persino più incisive del solito, ci sputa dritta in faccia un po’ di verità come in pochi romance recenti ci era capitato. E se siamo in una sala gremita di gente per l’apertura di un festival straordinario come il FEFF, la lacrimuccia potrebbe anche fare capolino.

[can I have the attention of the class?]

Domani questo blog e questo blogger si trasferiscono in Friuli, e più precisamente nella ridente cittadina di Udine, ove si terrà dal giorno 21 al giorno 30 Aprile la celebre rassegna internazionale di cinema popolare asiatico Far East Film. Come già ho fatto l’anno scorso, cercherò di tenere aggiornato questo blog con i film che vedrò durante il festival. Se non vi è mai capitato di assistere al FEFF, e se avete una o due (o più) giornate libere, vi consiglio caldamente di fare un salto.

Nel frattempo ho fatto però il mio dovere,
in questa settimana ricchissima di uscite.

Una sola pecoranera! E non è Marco Bellocchio!

Tanto io sono a Udine e me li perdo tutti.
Friday prejudice, orsù, anche questa settimana.

[THE GAME – 1:3 – Il cinema sporco]

Zero woman: Red handcuffs (Zeroka no onna: Awai kappa)

di Yukio Noda, 1974

"Qualifications?" – "Rape, murder, arson, and rape"
"You said rape twice" – "I like rape"
(da "Blazing saddles – Mezzogiorno e mezzo di fuoco")

Sesso! Violenza! Stupro! Tortura! Frustate! Stupro! Sangue! Tette! Stupro!

Tratto da un manga che costituirà la base per una serie infinita di orribili filmacci vent’anni dopo, Zeroka no onna: Awai kappa è – o dovrebbe essere – la quintessenza spinta del cinema exploitation giapponese degli anni ’70: tutti gli elementi suddetti (con una predilezione per lo stupro) proposti da gente che recita sotto prozac per tutto il film – e minerebbe seriemente persino i nervi di un bonzo allenato – e un regista che ha dimenticato il bignami nel cesso.

In realtà in questo caso al signor Yukio Noda, umile mestierante di casa Toei (il che non fa di lui un Fukasaku, va detto), non si può negare un certo gusto grafico – l’inizio supercool e superlounge e il finalone beffardone sono davvero ottimi – e qualche buona intuizione visiva – come i flashback attraverso cui empatizzare con "il nemico" o certi eccessi quasi parodistici. Ma al di là di questo e di timidi (e pretestuali) accenni politici, Zeroka no onna è carnazza e zampillo sanguinolento, brutalità gratuita e morbosa.

Tra urla disumane, proiettili a strafottere, e centinaia di foglietti di carta che volano per aria, gli 84 minuti di questa perdonabilissima boiata potranno essere gli 84 minuti più lunghi della vostra vita. Ma ad avere stomaco forte, ma soprattutto una forte resistenza alla noia, potrà anche risultare (quasi) divertente. Ho detto quasi, eh.

Gli altri giocatori
Andrea – GokachuInfamousOhdaesuPrivate

I precedenti
# 1.1 Rubber’s lover
# 1.2 Tras el cristal
#     Tutti

Pistol opera (Pisutoru opera)
di Seijun Suzuki, 2001

Tornato alla ribalta grazie ai cinefili occidentali, il regista giapponese prende al volo l’occasione di rinverdire l’implosione teorica dello yakuza eiga già iniziata con il meraviglioso Branded to kill. Ma laddove nel film del ’67 l’autore inseriva la sua destrutturazione all’interno dei binari codificati del "genere", rendendola più così sottile e allo stesso tempo creando un "taglio" più profondo, il nuovo "romanzo mercenario" di Suzuki fa esplodere quest’anarchia. Colorandola.

Remake, sequel, parodia? In una linea seriale tradizionale, è in realtà solo l’idea del plot a essere trasmessa, quella della competizione gerarchica tra i koroshiya. In più, il personaggio interpretato da Shishido Joe in BTK torna qui, con le fattezze di Hira Mikijiro. Per il resto Pistol opera è soprattutto un’estremizzazione delle tendenze più antinarrative e anticlassiche del film precedente, con le dinamiche sessuali che vanno ad invertirsi, ruotando di 180 gradi: la misoginia diventa fallofobia (e il film è a tratti un tripudio di simboli fallici, non ultima la pistol - eretta con il silenziatore – del titolo), e la sotterranea omofilia tra i due killer diventa una ben più esplicita tensione lesbica tra le due donne-killer.

Opera pop per eccellenza, e quasi per definizione, il Suzuki del nuovo millennio paga infatti – forse, ma solo in parte – la tentazione di un cult preconfezionato, e una certa ingenuità nel costruire certe provocazioni – soprattutto semantiche. Ma al di là del confronto chiaramente in perdita con un film che aveva già detto molto, e in tempi non sospetti, Pistol opera ha un enorme gusto nella composizione del suo "quadro quadrato" (così televisivamente naif, eppure così magnifico) e tra efferatezze iperstilizzate e l’uso delle forme della danza e del teatro nella gestione dei corpi nello spazio (con radici immerse profondamente nella tradizione giapponese, nonostante l’ambientazione modernissima), non nega ai suoi spettatori alcuni – non pochi – lampi di purissimo genio.

La farfalla sul mirino (oppure Il marchio dell’assassino) – Branded to kill (Koroshi no rakuin)
di Seijun Suzuki, 1967

Branded to kill non è solo – per molti, quasi per tutti gli amanti del suo cinema – la vetta del cinema di Seijun Suzuki, ma è soprattutto il film per cui il regista fu cacciato "a pedate" dalla gloriosa casa di produzione Nikkatsu, per via della raggiunta invendibilità dei suoi film sempre più astratti e "godardiani". Putroppo l’uscita dalla Nikkatsu funzionò come un domino maledetto, negandoci i suoi lavori migliori per almeno una trentina d’anni, ma già Branded to kill – pur inserito nel filone degli yakuza eiga – dimostrava un gap incolmabile tra le aspirazioni dell’autore e le esigenze commerciali del cinema nipponico di exploitation di quegli anni.

Non smentisce comunque la sua enorme fama, ed è sempre un gran bel vedere, tra scene entrate nella leggenda come quella che dà il titolo italiano al film (la farfalla che posandosi sul mirino mette nei guai il mercenario protagonista), oppure gli omicidi "creativi" della prima parte – quella più "spassosa", a modo suo – come il fucile che sbuca dall’enorme accendino, le morbose parentesi erotiche, il metafisico scontro finale tra il koroshiya number one e lo splendido number three di Shishido Jo (che ora è un delizioso ed elegantissimo vecchietto), caratterizzato da un inspiegabile respiro omo che si contrappone all’evidente misoginia (a prendere i simboli alla lettera, e non solo, quasi vaginofobica) di tutto il resto del film.

Ghezzi, che lo ama alla follia, l’ha proposto tante di quelle volte che ormai è un punto fermo della programmazione di fuori orario, ma per me – che con la tivù ho un cattivo rapporto – questa era solo la seconda volta. Come fosse la prima, un colpo di fulmine.

[three is the magic number]



(due) post in attesa

['zzo ridi?]

Mentre noi dormivamo sonni tranquilli nei nostri caldi lettucci, nelle sale italiane è sbarcato Yo-Rhad, l’insopportabile alieno di casa Rambaldi. Nessuna traccia invece di Cromophobia, rimandato a data da destinarsi.

Vista l’occasione, Friday Prejudice è stato riveduto e corretto.

Zinda
di Sanjay Gupta, 2005

"She is getting fucked!"

Se il cinema mainstream indiano, altresì noto come bollywood, a differenza di altre cinematografie asiatiche è quanto di più misterioso e inspiegabile agli occhi di un "occidentale", la figura di Sanjay Gupta dev’essere bizzarra persino per loro. Come potrebbe essere altrimenti la reazione di fronte ad un regista che fa praticamente solo remake, ma assolutamente non autorizzati, e poi si giustifica dicendo "quale regista non copia, al giorno d’oggi", spacciandosi per il Tarantino di Mumbai? Che geniaccio malefico.

Zinda, per esempio, è il remake di Oldboy, anche se a Park Chan-wook non hanno detto niente. Dobbiamo guardare con distacco a questi oggetti, perché ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo, e produttivamente innovativo: il prodotto artistico e commerciale viene rimodellato con libertà e spudoratezza, con un abbattimento del concetto stesso di copyright che, se avesse un qualche tipo di seguito culturale, in tempi di gagliarda opensourcizzazione potrebbe segnare l’inizio di una rivoluzione anarchico-culturale.

Ovviamente sto dicendo solo stronzate, ma anche fosse ci si augura fortemente che non accada mai. Perché Zinda fa proprio schifo. Si potrebbe pensare che Zinda starebbe in piedi se non esistesse Oldboy? Probabilmente nemmeno. Difficile dirlo, è una domanda quasi-nonsense, dal momento che buona metà del film, messi da parte l’inizio e il finale, entrambi completamente diversi, è per lo più una fotocopia del film coreano. E anche se il "cambio di svolta" dalla massima tragedia alla tiepida catarsi nasconde una riflessione non stupida (non posso dire altro) che è paradossalmente anche la cosa migliore del film, questo non contribuisce fare di Zinda lo Psycho di Van Sant. No no, il problema di Zinda non è Oldboy, è Zinda. Sarà anche visionario quanto vuoi e assurdo quanto vuoi, ma è brutto, ma proprio brutto forte.

Qualche notazione. La colonna sonora alterna gli ovvi archi dei valzer parkiani a crescendi simil-herrmanniani e ritmi buoni per una fiction reaganiana. Persino la suoneria del cellu è brutta. Bala/Daesu è uguale a Paolo Bonacelli, e Rohit/Evergreen assomiglia a Fiorello. Ci sono inquadrature letteralmente identiche a Oldboy, e sono le uniche parti davvero buone di una regia ridicola e di una fotografia digitale meno che spartana. Poi è tutto blu (tranne la scena di sesso), che fa figo, ma se lo si immagina senza il filtrone si capisce in fretta quanto sia girato male. Nella televisione si vedono lo tsunami e il WTC. Bala imprigionato impara le arti marziali dai film giapponesi in tv, e quando esce ammazza la gente con la katana, non risparmiandosi un originale uso dell’amico trapano. La partner femminile è figa, anche se appena appare capisci che il finale sarà diverso, e comunque era meglio la moglie, che ovviamente schiatta in fretta. Bala a volte corre velocizzato come Benny Hill. Ci sono anche degli zoommoni da trailer, brr. Il celebre carrello laterale in piano-sequenza diventa un carrello in avanti, ondivago, in piano-sequenza. Bala esce dalla valigia su un eliporto, ed è pettinato come una lesbica in menopausa, poi ovvio che si vuole vendicare. Bala non sente mai l’esigenza di scopare, ma la tipa in ascensore c’è. Il tipo con il cagnolino no (che ci sarebbe stato a fare in un eliporto?). Ho una cimice: no comment. Ci sono frasi letteralmente uguali a Oldboy, e sono le uniche parti davvero buone di una sceneggiatura ridicola. Poi tutti i personaggi parlano un misto di hindi e inglese assolutamente irritante. Bala non si masturba.

Se si conosce a menadito il capolavoro da cui è tratto, ci si può anche divertire nello scovare tutte le cose che Gupta ha rubato alla lettera da Park, e modificato quasi sempre malamente. Lo si gusta onanisticamente con un misto di risentimento, odio, tristezza, spasso, compassione, rabbia, disgusto, tenerezza, rigetto, schifo, e – passato tutto ciò – risate irrefrenabili. Emozioni rare: buon divertimento.

Se avete soldi da buttare o se siete – giustamente – curiosi, potete comprare online il dvd. Per esempio qui.

Link-Update: da mesi sognavo di essere il primo blog italiano a parlare di Zinda, ma l’affascinante quanto bastarda Signorina Stranestorie mi ha anticipato, qualche giorno fa. Ecco il suo post.

Perhaps love (Ru guo – Ai)
di Peter Ho-sun Chan, 2005

Come segnala Gokachu, se il trionfatore degli HKFA 2006 è il bellissimo Election, che ho già avuto l’occasione di sottovalutare, il "secondo arrivato" è di certo il nuovo film di Peter Chan, assente da anni dalla scena dei lungometraggi (ma responsabile nel frattempo del meraviglioso "segmento" Going home), film che tra l’altro ha chiuso con i suoi fuochi d’artificio canterecci la più recente mostra veneziana. Perhaps Love, va detto, ha le carte in regola per essere un nuovo pilastro delle cinematografie che girano intorno alla Cina, eppure – sorte toccata ad altre recenti lanciatissime operazioni – è stato da alcuni bistrattato.

Mi tocca ammettere che tale pilastro non è, e non sarà, ché non tutto gira per il verso giusto: forse per il tono produttivo, troppo cinese e troppo poco hongkonghese, e decisamente troppo rivolto a ovest. Quindi si cita il capolavoro di Gondry (con il quale condivide però ben più che la mera inquadratura dall’alto sul ghiaccio) a manetta, e si cerca di fare nelle parti musicali "cose luhrmanniane" a tutti i costi, riuscendo però molto meglio nelle sequenze non cantate e non "ballate" (ma le coreografie sono poche, ed il risultato è più vicino a Chicago che, come scrivono tutti, a Moulin Rouge). Al brodo si aggiunga un pizzico di maniera e frigidità intellettuale q.b., senza contare il panasiaticismo ruffiano che da giorni riempie i post di questo blog. Non è colpa mia, ditelo ai cinesi.

Nonostante tutto ciò, Perhaps Love è proprio, passatemi il termine, una favola. Diretto con grande cura e ovviamente fotografato in modo eccelso (le parti pechinesi sono opera di Chris Doyle, e si vede), è visivamente bello tanto da saper togliere il fiato. E con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni (più che imperfezioni), è un film che parla in modo raffinato ed originale – seppur contorto – del rapporto tra il cinema e la memoria, tra l’amore e l’oblio, e che non nasconde una visione – politica, nel suo essere puramente sentimentale – del rapporto culturale, cinematografico e linguistico tra l’ex-colonia e la mainland.

Insomma, se non vi siete emozionati anche voi di fronte alla ritrovata e dolorosa grandezza (su, forza, coraggio, negatelo) di Jackie Cheung, o agli occhioni di Zhou Xun e gli occhietti di Takeshi Kaneshiro, entrambi seduti sul ghiaccio a frignare, siete solo dei mostri senza più un cuore. Ecco, l’ho detto. Sigh. Ora mi asciugo il naso e passo ad altro.

Inside man
di Spike Lee, 2006

"My name is Dalton Russell. Pay strict attention to what I say because I choose my words carefully and I never repeat myself."

A volte scrivere un post lo senti quasi come un dovere. Non tanto nei confronti di qualcuno, ma di te stesso e del sistemino scemo che tiene in piedi il tuo blog. Capita e ricapita, quindi, di non volerlo scrivere affatto, il post, perché non si ha niente da dire. Non tanto più-di-altri, ma rispetto a quello che saresti riuscito a sviscerare di un altro film qualsiasi. Di solito è colpa tua, ché non sei capace a sviscerare e punto. A volte è colpa di altre cose che stai scrivendo, che ti condizionano un po’. A volte è colpa del film – ma che dico colpa, merito.

Per esempio, l’ultimo film di Spike Lee è sostanzialmente un film di rapina, e nel film c’è poco altro che la rapina, dal suo principio alla sua fine. Puro "genere" insomma, perché è noto che "le godurie maggiori sono date dall’accoppiata film di genere + grande autore" (Ohdaesu, 2006: 7744893), e il film è genere robusto, implacabile. Poi sotto c’è altro, c’è "un saggio (ironico) su utilitarismo e xenofobia" (Garcia, 2006: 7707474), e senza le più trite e bieche menate post-11 settembre, bucciona di bananona su cui chiunque altro sarebbe scivolato senza frenarsi fino al primo muro di mattoni – non certo Lee, che ha fatto La 25ma ora e ne sa qualcosa. Ma "quel che conta in fondo è l’intestino" (Vecchioni, 1972: 02).

Però, come si fa a trasmettere a chi legge quale gran film sia Inside man scrivendo che è un film di rapina? Difficile. La gente è abituata alle rapine fighette e borghesucce di quel delinquente di S.S. Bisognerebbe tirare fuori i flash-forward, che forse rimandano, come sottilinea qualcuno, "al bombardamento dei media che ci subissano con le testimonianze dei sopravvissuti a prigionie di vario tipo" (AvaG, 2006: 4665150) o forse sono solo un ulteriore (e bellissimo) inganno, oppure al ritmo che a partire dal "banalmente incessante" va via via rallentando, insieme al battito cardiaco dei suoi protagonisti – più che un assedio, un’attesa sexy.

Oppure il gioco di riferimenti al cinema degli anni ’70, a volte implicito e a volte (come quando si cita Dog day afternoon) esplicito, o il fatto che – visto che questo è un film di piani perfetti ed inganni – Spike Lee il primo inganno lo gioca contro noi spettatori, mettendo in campo la soluzione, purloined letter, fin dalla prima inquadratura, dalla prima frase, dal primo sguardo in macchina, e dal titolo. Noi stolti a non vederla, genio lui nel nascondercela così bene pur sbattendocela sul grugno?

Zitto zitto, i miei bei 2500 – e passa – caratteri (spazi inclusi) li ho cacati fuori.

"Soon I’m gonna be sucking down pina coladas in a hot tub with six girls named Amber and Tiffany."
"No, it’s more like in the shower with two guys named Jamal and Jesus.. and that thing you’re sucking on? It’s not a pina colada!"

[quando meno te l'aspetti]

Datosi che domenica prossima è Pasqua, alcuni film verrano fatti uscire nelle sale di giovedì. Una concezione del prefestivo che fa ridere i polli, ma tant’è. Datosi che non so di preciso quali film saranno in sala da domani e quali da venerdì, e che non ho voglia di informarmi, anticipo i pregiudizi di un giorno. Così siamo tutti felici e contenti.

Cosa è strano in una settimana di pregiudizi
dove l’unico "colpo sicuro" è un film italiano?

Tutto.

Via, non si vive di sola Cina. Tutti al Cine.

Su Friday prejudice, anche questa settimana,
scopri anche tu in che modo il giovanecinefilo decise
di sfogare con rara violenza le recenti frustrazioni politiche.

The myth (San wa)
di Stanley Tong, 2005

Più che riuscire veramente nei suoi molteplici intenti, l’ultima fatica di Jackie Chan tornato in patria è soprattutto un’utile cartina tornasole dell’andazzo del cinema d’intrattenimento cinese, anche se San wa è per gran parte un prodotto "hongkonghese". Per esempio, l’ormai inevitabile "abbraccione panasiatico": è recitato in cinque lingue, e Jackie è affiancato dalla coreana Kim Hee-seon e dall’indiana Mallika Sherawat. E fin qui va bene, vista l’abbacinante bellezza di entrambe. Ma ben più evidente è la tendenza (un po’ ruffianotta, già da principio) ad attaccarsi ad ogni trend possibile, cercando di essere sia l’epica wuxia di Tsui Hark sia la tiepida avventuretta di Feng Xiaogang.

The myth è quindi spezzato in due: con la scusante della trama (assurda ma gradevole o gradevole perché assurda) il film prosegue per due binari ben separati: il presente, con un cripto-Indiana Jones con il boxer sorridenti che va in giro per il mondo insieme a un Tony Leung Ka-fai sempre più cocainofeno a trafugare tombe di antichi eroi di cui è l’atletica reincarnazione, e il passato, con le sue armature pesanti, le battaglie all’arma bianca, le sue belle tendenze melodrammatiche malcelate del cazzo. Ma ehi, non siamo in un mondo fatto di cioccolato: i binari, infatti, e purtroppo, e ovviamente, faticano a ricongiungersi. Se mai lo fanno.

Insomma, si assiste ad un film estremamente e inevitabilmente sbilanciato, ambiziosissimo e potenzialmente rovinoso, per l’indecisione tra il jackiechanismo più semplice e divertente e le esigenze commerciali realizzate nel modo più bieco immaginabile: ma perché i cinesi non rubano gli animatori 3d ai coreani invece di rubare le loro attrici fighe? A spuntarla però è l’ancora incredibile e ancora riuscitisso furore comico, plasticamente geniale e ancora – miracolosamente – protofilmico, del corpo danzante di Jackie Chan.

Grazie e solo grazie a quest’ultimo, divertimento assicurato per buona parte del film, e pochi cazzi: bastava questa frase. Un film in cui c’è una sequenza come il combattimento sul tapis roulant di colla non si può, ripeto, non si può bocciare.

[isn't it ironic?]

Da Repubblica.it

Da Corriere.it

[alea iacta est]

Et nunc digitos conserimus.

Fearless (Hou Yuan Jia)
di Ronny Yu, 2006

Il film con cui Jet Li dice addio al cinema di arti marziali è la storia vera di un "eroe cinese" dei primi del secolo, Hou Yuan-Jia, capace con una serie di storici combattimenti di rinverdire il senso di appartenenza nazionale di un popolo vessato dal colonialismo e dall’occupazione di inglesi, americani, tedeschi e giapponesi. Una storia ampiamente romanzata, visto che i nipoti di Hou, che nel film "non ha" figli, si sono incazzati non poco: ma che importa? Il film parla di rispetto, di codice, di onore, di virtù. E, sembra incredibile, funziona tutto alla perfezione.

Sarà che fa un gran piacere vedere un 42enne Jet Li nel pieno delle sue forze e del suo carisma, e capace (persino, o meglio ancora) di ormai inattese intensità interpretative, o che rende felici vedere un regista che fu strabiliante come il Ronny Yu mostrare di non avere disimparato a fare cinema nonostante i recenti e alterni trascorsi hollywoodiani, o che il film è talmente nostalgico di quel modo di fare cinema di cui i due erano tra i pilastri con film come Once upon a time in China o The bride with the white hair. Fatto sta che ci si crede, e ci si crede fino in fondo.

D’accordo, Fearless è un film mutilato, che per esigenze di mercato rinuncia a quasi un’ora: con essa (oltre che a Michelle Yeoh, ahinoi) si rinuncia altresì a molta profondità, soprattutto nei personaggi di contorno. E inoltre si casca inevitabilmente in qualche iperbole retorica di troppo – seppur conforme al genere. Non è quindi un capolavoro, al cospetto dei classici. Ma è un film quasi impensabile negli anni dell’estetizzatione zhanghiana (libera comunque di essere gradita, deh!), un gongfupian puro che nel 2006 non speravamo quasi più (e che siamo lieti) di vedere.

Invece eccolo, il nostro eroe, il massimo corpo-atletico del meravigli-oso cinema di Hong Kong, le sue acrobazie straordinarie (organizzate dal solito Yuen Woo-ping, riconoscibile in ogni singolo calcione), la dolorosa profondità della sua – semplice e lineare, ma commovente – redenzione, e il suo martirio. Bentornato, Jet Li, e ancora addio.

Visto che ultimamente si discute della necessità di "preparazione culturale" a determinati film, è consigliabile prima della visione (ma anche dopo va bene) questa lettura. Impossibile infine non linkare Hellbly, che ha smosso la mia aspettativa, meno che tiepida, convincendomi invece a ricredermi e a vedere il film, grazie a questo post.

The promise (Wu ji)
di Chen Kaige, 2005

Il pechinese Chen Kaige è uno dei molti registi cinesi andati oltreoceano a sputtanare i proprio fasti in patria: una delle ultime esperienze del ciclo, e una delle peggiori, visto che si passò da Addio mia concubina a Killing me softly.

In questo caso invece, gli viene affidata invece un operazione pachidermica: Wu ji è il film più costoso della storia del cinema cinese. Un budget di 35 milioni di dollari, coproduzione con Giappone e Corea, e cast altrettanto internazionale: il terzetto principale sono il giapponese Hiroyuki Sanada di Ring, il coreano Jang Dong-kun di Coast guard, e la meravigliosa attrice hongkonghese Cecilia Cheung (la cui amabile raucedine è stata doppiata: siete pazzi?).

Eppure, gli sforzi messi in campo non servono per evitare il comprensibile disastro, e forse per carenze strutturali di un sistema cinematografico ancora incapace di gestire così tanti dindini (soprattutto visti gli orrendi effetti speciali), The promise è un film di una bruttezza difficile da descrivere a parole. Talmente brutto da fare tenerezza. Affastella lirismi tardo-hongkonghesi e bassa epica continentale, batte ogni record di numero di dolly per secondo, e arriva a far sembrare Hero un film equilibrato e sobrio.

Il problema, più che nella messa in scena che a volte regala lampi di interesse, se non altro per la loro assurda e comica e quasi autoironica esagerazione (soprattutto nella prima parte: l’incontro con la fata subacquea, la corsa con i bufali, la Cheung trasformata in un aquilone), è nella postproduzione. Insomma, il film sembra montato da un alcolista addormentatosi ripetutamente sulla manopolina del pitch: al ventesimo ralenti e/o alla trentesima accellerazione posticcia si riesce a provare – al massimo – un senso di rigetto.

Non che ci si aspettasse qualcosa di particolarmente raffinato da un prodotto che nasce, come altri recenti e ancora molti altri a venire, dal bisogno di soddisfare un nuovo, enorme, e sempre più "sgamato" mercato interno di massa, quello della Cina continentale. Ma se siamo in grado di sopportare ridicolaggini in stile Storm riders pur di godere della vista della Ceci, lo stesso non si può dire della noia impossibile che uccide tutta la seconda parte del film.

Qualche timido tossito vitale lo dà il pre-finale, con il suo "bel" colpo di scena, ma poi il film chiude ammosciandosi nel solito ritrito massacro melò, con noi spettatori che usciamo a gambe levate, ben felici che sia finalmente finita.

Arahan, Ryu Seung-wan 2004

Arahan (Arahan jangpung daejakjeon)
di Ryoo Seung-wan, 2004

Vincitore del PiFan 2004 e presentato al FEFF di Udine l’anno scorso, Arahan è l’opera terza del regista di No blood no tears, ed è un film che mescola, senza preoccuparsi troppo dei confini di genere e delle “norme” rappresentative, una prima parte comica e bizzarra che per alcuni versi ricorda il tono di Chow (ma senza possederne la sintesi geniale, e senza affondare nel demenziale), e una seconda più seria in cui le arti marziali ripescate dalla tradizione hongkonghese diventano protagoniste.

Si legge un po’ di tutto, in giro, su Arahan: ma francamente, l’unica da dire è che ci si diverte, e a tratti come pazzi. Il film è pur sempre un prodotto Cinema service, con una confezione eccellente e una certa “schiettezza” di scrittura. Per questo può pure irritare, si capisce: qualche tamarrata di troppo, qualche step-frame ostentato, qualche ricercatezza inutile. Il film vale però soprattutto per la sua dimensione “spettacolare” e di intrattenimento, e su questo ci piove ben poco: a parte i combattimenti spesso eccellenti (quello nel ristorante è perfetto, l’ultimo invece stroppia), il film si mantiene su un equilibrio che tiene miracolosamente nella sua estrema instabilità.

Insomma, quando la butta sull’epica serissima e apocalittica non risulta ridicolo, e quando vuol far sorridere o ridere ci riesce: tanto basta, per quanto mi riguarda, per garantire lo spasso. Importante anche il contributo del cast: Ryu Seung-beom è bravo a gestire suo ruolo peterparkeriano di ex-sfigato, Yoon So-yi è semplicemente una fata.

[circoncisione]

La linea sottile che unisce Spike Lee e Franco Diaferia.

Su Friday prejudice, purtroppo, questa settimana.