maggio 2006

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[thursday prejudice]

Venerdì è la Festa della Repubblica, e i distributori hanno così deciso di far uscire i film un giorno prima, di giovedì. Il vostro blog di pregiudizi cinematografici preferiti esce così con un giorno d’anticipo. Evviva.

Questa settimana esce Radio America.
Punto.

Giuro, se becco qualcuno
che gli preferisce un horror nella solita vasta scelta,
che questo weekend va a vedere Poseidon o Annapolis,
che sceglie Carlo Virzì convinto che sia Paolo Virzì,
beh, se lo becco lo faccio secco.

Su Friday Prejudice, questa settimana,
un film di un sempronio americano fa man bassa di premi.

E ci mancherebbe altro.

FridayPrejudice. Il blog che devi consigliare ai tuoi amichetti.

[sayonara]

E’ morto Shohei Imamura.
(twitch, cinemah, jsa, svsb, sl, gok, rob, blob, akagi, 9/11)

[Hulla Chuppa]

- morite dalla voglia di sapere in quanti e quali film è apparsa la vostra Fiat Punto? Internet movie cars database è uno dei siti cinefili più patologici mai visti. Irresistibile.

- non c’è disastro annunciato o amore incondizionato che tenga: il film più atteso della (mediocre) selezione di Cannes 2006 è questo.

- su Mymovies sembra si faccia confusione tra l’uscita italiana del suddetto film e quella del bellissimo El espinazo del diablo, dello stesso regista. Attendonsi chiarimenti, noi non ci si capisce più nulla da un po’.

- avete mai desiderato decapitare un maiale con uno stuzzicadenti? Sul sito della Artigiana Salumi lo potete fare (grazie a Lillo).

- è morto Paul Gleason. Vogliamo ricordarlo così. E così: "Back off! Or I’ll rip out your eyes and piss on your brain". Lacrimuccia.

- io di musica non parlerei perché lo fanno già tutti gli altri, ma per una volta sento di dover segnalare un disco bellissimo che nessuno si sta cagando: questo.

- Oldboy meets Benny Hill.

- se anche voi vi sentite come orfani perché Lost è finito (prima o seconda stagione che sia), datevi a Weeds. 10 episodi da mezz’ora tutti di un fiato, sceneggiatura strepitosa, cast degno di un Award ad personam, un paio di autentici capolavori (il quarto e l’ottavo episodio), e un finale che lévati, degno della botola. Attenzione, dà dipendenza. E la colonna sonora non è da meno. Little boxes on the hillside. Ah.

- 1985: imberbi attori cinesi si trovano su una scalinata e cantano una canzone felice e spensierata, tutti vestiti con orribili canottiere colorate. Gli applausi sono tutti per il faccino da bimbo di Tony Leung, ma non è da sottovalutare l’effetto-nostalgia dato dalla riga-di-lato di Leslie Cheung pre-paranoie-suicide. Bellissimo. (via Topo Modesto).

- GuinnessSize me. Giuro. (file FLV, via Twitch)

- da qui a giovedì Bologna sarà invasa da rocker semi-incartapecoriti. Potreste persino incontrarci il sottoscritto, ma non assicuro niente. Se siete in zona ma non ne sapevate niente (e quindi probabilmente vivete sugli alberi e vi nutrite di insetti e licheni) ecco il programma della manifestazione.
UPDATE: ci sarò, ci sarò, ci sarò.

- sul sito di Bugo potete ascoltare l’ultimo sguardo contemporaneo possibile. Con la puntina. Tutti dovrebbero abusare della caffettiera. Sante Parole.

- non per linkare sempre i miei amichetti, ma Ohdaesu che prende in giro Grizzly Man e Infamous che prende in giro Volver sono davvero dei pezzi da antologia. It’s so cool to be a cineblogger.

- non vi state chiedendo chi o cosa sia Hulla Chuppa? (grazie a Violetta)

[palme d'or]

"The Wind that Shakes the Barley", Ken Loach

15
di Royston Tan, 2003

Tratto da un cortometraggio del 2002 che aveva fatto il giro dei festival di cortometraggi riscuotendo un ottimo successo, questo film, presentato alla Settimana della critica di Venezia) racconta le storie di cinque 15enni nella Singapore contemporanea, cinque giovani costretti a crescere troppo in fretta, abbandonati o ignorati dagli adulti – sempre fuori campo – e lasciati a se stessi a gestirsi una vita fatta di sfide, lotte, tatuaggi, techno, gerarchie di potere, piercing, tenerezze, malattie, karaoke, fino a che l’impalpabile necessità di essere ancora bambini e l’impossibilità di esserlo più – anche di fronte alla disgrazia di ritrovarsi adulti e morti dentro – non manifesta nel loro spirito il precoce e inevitabile desiderio di togliersi la vita.

Un film raccontato con un piglio duplice: da una parte, girato e soprattutto montato (a otto mani) come un lunghissimo videoclip, persino con inserti cartoon (il "manuale del suicida"), scene in stile-videogame e paradigmatiche scritte sovraimpresse, come se per raccontare la metropoli violenta e concitata di questi ragazzi di strada non si potesse che riprodurre quella stessa confusione di stimoli e simboli, che parte da Mtv e dai fumetti e finisce nei trip provocati dall’ecstasy. Dall’altra parte c’è invece un taglio documentaristico, più evidente nelle parti "statiche" ma presente in tutto il film (gli attori non professionisti sono i loro personaggi, in una sorta di strano neorealismo antitetico) che sostituisce spesso agli abbellimenti fotografici e ai virtuosismi di montaggio l’esplicita e crudissima durezza della quotidianità, tra taglierini che proprio non ne vogliono sapere di ucciderti, preservativi rigonfi di pillole da ingoiare in tutta fretta seduti su un cesso, e un bacio di sangue. "Se dobbiamo essere fratelli, saremo fratelli per la vita". Il che vale a dire, per la morte.

Forse per il tono eclettico di Royston Tan, partecipe come non mai delle vicende dei coetanei in cui si rivede – fin dal disclaimer iniziale – ma anche capace di ironizzare e giocare, anche sadisticamente, sul contrasto tra i due tagli descritti sopra; forse perché sorprende vedere una cinematografia così "inesperta" come quella di Singapore produrre un film così profondo e realizzato con tale professionalità; forse perché è un film toccante, doloroso e scioccante. Forse per tutto questo, 15 è un film imperdibile.

Il prossimo film di Royston Tan, sta passando per i festival worldwide proprio mentre parliamo. Non lo vedremo probabilmente in Italia come non abbiamo visto (né probabilmente vedremo mai) 15.
Io aspetto con ansia.

Se volete acquistare 15 in dvd, toh guarda, su Amazon UK è in offerta a metà prezzo. Affrettatevi.

Grazie a FedeMC per la preziosa segnalazione. Ne parlò anche da Venezia, in questo post.

Da segnalare l’articolo di Pietro Liberati su Cinemavvenire.

[our world is different]

There is no difference between right and wrong.
We have no family, only the brotherhood.
We only shed blood. Not tears.
In our world, we speak of camaraderie; never of love.

Strangely, our world only consists of darkness.

[la resa dei conti]



Grazie ai meravigliosi e affezionati lettori di Friday Prejudice,
uno degli episodi più inutili della ormai leggendaria saga
si è trasformato in un vero evento epocale.

La Woodstock del pregiudizio.

Su Friday Prejudice, questa settimana,
ci sono ricchi premi e cotillons.

E c’è un sacco di roba da leggere. Grazie a tutti.

[Nevermind. It's your turn to drive.]

Friday prejudice.
E sei protagonista.


Per saperne di più, clicca qui.

Bullets over summer (Baau lit ying ying)
di Wilson Yip, 1999

"Dobbiamo bere 8 bicchieri d’acqua e dormire 8 ore al giorno. Non dobbiamo fumare troppo e bere troppo vino. Non dobbiamo dormire troppo. Dobbiamo fare visite mediche regolarmente. Non dobbiamo attraversare la strada con il semaforo rosso. Non ci si deve sposare dopo i 30 anni. Non dobbiamo incrociare le gambe quando stiamo seduti. Dobbiamo spegnere il cellulare quando guardiamo un film. Non c’è niente che si possa o non si possa fare."

Dopo una serie di film di genere (prevalentemente horror) che non hanno avuto un grande riscontro tra gli appassionati, il settimo film di Wilson Yip è invece considerato dagli amanti dei film di Hong Kong – quasi sempre accorpato al suo successivo Juliet in love – tra i massimi risultati del cinema dell’ex-colonia nello scorso decennio.

Cosa rende tanto speciale Bullets over summer? La domanda, per quanto corretta, è pleonastica. Perché non è necessariamente una pietra miliare sotto il punto di vista produttivo (si rifà in qualche modo ai film coevi della MilkyWay, creando una sorta di "diversione laterale di genere" altrettanto anarcoide e recuperando le atmosfere malinconiche del primo Wong Kar-wai) o linguistico – dove comunque eccelle grazie alle doti rare di Wilson Yip, peraltro mai spocchioso nella messa in scena, ma morbido e preciso, anche se non si risparmia virtuosismi (la scena della moneta), ma grazie soprattutto alle intepretazioni degli attori e allo scavo psicologico dei personaggi (per entrambe le cose, enorme Francis Ng).

No, la sua bellezza è più inconscia: è piuttosto un film che conquista e che spiazza senza che uno se ne accorga. Credi che sia un noir bloodshed e ti ritrovi con gli occhi lucidi di fronte ad un’offerta d’aiuto, con la bocca aperta a guardare l’ultimo slancio umano di un uomo che baratta la morale con l’amore e l’etica con la sopravvivenza, a piangere di fronte ad un ultimo appello disperato nei confronti della vita e del fato. "Ci sono sempre delle cose che si possono e non si possono fare. Ho messo dentro i soldi e dovrei avere una bottiglia di soda. Le cose che voglio sono molto semplici."

Bullets over summer è la quintessenza di ciò che vorremmo sempre trovare nel cinema di Hong Kong e che, a cercarlo bene, c’è ancora. Un film che ti resta dentro, tanto ironico e leggero quanto triste, come la sensazione irrequieta di avere ancora qualcosa da dire, e da fare, nella vita – o di averle scoperte troppo tardi, la bellezza e la semplicità della vita.

Un film incredibile, che tra l’altro vola via come una piuma, e che quando è finito già ti manca.

Ce li avete cinque euro in tasca? Compràtelo.

Volver
di Pedro Almodóvar, 2006

Volver è talmente almodovariano da sembrare un Almodóvar for dummies. Ma la maniera non disturba, in un autore simile: anzi, è stata proprio un’opera distaccata e cerebrale come La mala educatión ad allontanarlo da quell’emozione che faceva tremare di passione i suoi film precedenti. Volver è invece un tuffo o un tuffetto nel passato, nemmeno troppo remoto (da Tutto su mia madre in giù) con una storia lineare che si rifà – appunto almodovarianamente: ma che parola lunga – alla tradizione del romanzo popolare spagnolo, riabilitando ancora una volta la serialità "bassa" (e magari televisiva, rovinata dal trash, anche sbeffeggiato ma in modo un po’ autocompiaciuto all’interno del film stesso) e raccontando una storia di odi familiari malcelati, di omissioni e di perdoni, di maschi bastardi e immaturi messi da parte o dimenticati a tutti i costi, abbastanza risaputa – che importa in fondo? quello che conta sono i personaggi – ma coloratissima e messa in scena con magistrale perizia. Basterà?

Volver mescola un sacco di suggestioni: una strana ghost-story apparente che rimanda alla superstizione delle provincie e alle "chiacchiere da funerale", una commedia bizzarra che però non fa più che sorridere, programmi narrativi aperti e poi irrisolti (tutta la questione del bar, per esempio). Ma dove il regista fa centro sopra ogni stile ricercato o modello chiamato in causa (persino Visconti, ma così, un po’ a caso) è proprio il melodramma, l’iper-melò che tutti aspettavamo e in cui Pedro è maestro imbattuto, sia quando è caricato e montato con classe (tanto che si sarebbe preferito fosse tutto così, lucido ed enorme come gli occhioni di Penelope Cruz nella cucina, mentre guarda la sorella che le dice tutto su sua madre) sia quando è evidentemente immaturo e frettoloso (come la struggente confessione e mea culpa fatta da Carmen Maura su una panchina, col fiato corto quanto la focale che la inquadra).

Spero non si sia notato, ma non riesco a parlare molto scioltamente di Volver. Forse avrei voluto essere più coinvolto, mentre invece non sono riuscito a provare – pur nell’apprezzamento di un film quasi inattaccabile, e comunque relativamente allo straordinario cinema del regista spagnolo – alcuna vera emozione. O forse è il film stesso che aveva poco (di nuovo, e in assoluto) da dire?

The devil’s backbone (El espinazo del diablo)
di Guillermo del Toro, 2001

¿Qué es un fantasma?
Un evento terrible condenado a repetirse una y otra vez,
un instante de dolor,
quizá algo muerto que parece por momentos vivo aún,
un sentimiento, suspendido en el tiempo,
como una fotografía borrosa,
como un insecto atrapado en ámbar.

Dotato di un acuto occhio commerciale, il regista messicano ha fatto la sua fortuna con alcuni film girati per le major americane negli Stati Uniti (nell’ordine: Mimic, Blade II, Hellboy), alternando ad essi opere più personali e prodotte tra il suo paese d’origine e la Spagna. Dal suo esordio con Cronos fino ad arrivare al Laberinto del Fauno presentato in questi giorni a Cannes, Del Toro ha raccolto intorno a sè un nutrito numero di fan accaniti, entusiasti anche di quel cinema mainstream che Del Toro arricchisce con un "tocco" più personale (in effetti non era da tutti rivitalizzare Blade), ma il cinema ispanofono dovrebbe essere a rigor di logica quello dove il suo talento si presenta nel modo migliore. Si dice "dovrebbe" perché per i soliti (in)spiegabili meccanismi della distribuzione italiana un film di cinque anni fa come El espinazo del diablo deve ancora trovare il suo posto in sala.

Ed è davvero un peccato, perché questo film, coproduzione ispano-messicana prodotta dai fratelli Almodóvar, è davvero fuori dall’ordinario: ghost-story dai rimandi storici, tanto ben congegnati quanto effettivamente pretestuali (sembra che l’interesse di Del Toro sia individuale più che collettivo, nonostante la sceneggiatura abbia più di un rimando metaforico alla condizione mortifera del popolo spagnolo – e europeo  – post-bellico), si allontana decisamente dalle baracconate di Balagueró e si avvicina semmai al contemporaneo The others, con cui condivide più di un’atmosfera e di una suggestione, ma non le grandi-sorprese-narrative, preferendo una struttura che, rifacendosi a quella a flash-back (qui flash-forward), tende a portare il racconto verso una risoluzione dell’enigma legato alle immagini ellittiche presentate nel meraviglioso incipit ("que es un fantasma?").

Ma il film di Del Toro non soffre in ogni caso il confronto con il coevo e ben più celebre film di Amenabar, e offre a suo modo sia un horror magistrale, che trattiene gli spaventi (che comunque sono presenti) e gioca più che altro con elementi classici e contemporanei del genere – lo sguardo del bambino da una parte, la prevalenza simbolica dell’acqua dall’altro – e sulla tensione emotiva, sia allo stesso tempo una storia drammatica dove il punto di vista di un ragazzino abbandonato in una specie di orfanotrofio durante la guerra civile spagnola, grazie ad un continuo e abilissimo spostamento baricentrale, diventa quello di un gruppo di personaggi – "buoni e cattivi" – accomunati dai temi della perdita dell’infanzia.

In un film che non ha nulla da invidiare ai colleghi nipponici il cui trend stava per esplodere in quello stesso periodo, né a quelli americani da cui si riprende un certo livellamento dell’apparato filmico, molto benvoluto in questo caso perché rinuncia ad una possibile autorialità di nicchia (forse inadatta ad un simile racconto) in cambio della totale piacevolezza del racconto, Del Toro mostra però di essere anche un regista attento e maturo, capace sia di usare la splendida fotografia del sempre ottimo Navarro per restituire un coltissimo immaginario iconografico della Spagna di quegli anni, sia di lavorare con gusto con gli effetti speciali (presenti ma "nascosti" con intelligenza) e con i movimenti di macchina.

Ma la cosa che conta di più, e che finora ho perlopiù omesso, è che El espinazo del diablo non è un semplice horror, ma è un film bellissimo, vibrante, commovente. Ma per spiegare questo avrei dovuto raccontare più del dovuto: dovrete scoprirlo da soli.

[il sorriso e il pianto]

Test: guardate queste due immagini e poi chiedetevi:
"quale dei due film vedrò questo weekend?".

Se non l’avete capito da soli ve lo dico io.
Come, dove?

Ma su Friday Prejudice, questa settimana,
dove tra l’altro si parla malissimo di Aquamarine.

Siete invitati a banchettare.

Thumbsucker
di Mike Mills, 2005

Thumbsucker dà l’impressione fin dai primi minuti, per non dire fin dalla locandina, di essere un tipico Sundance movie, cotto e cucinato per le giurie del festival utahiano. E in effetti, sottratta la malafede dietrologista, non si avrebbero tutti i torti: è un esordio, ha come line up due volti del cinema "laterale" (D’Onofrio e Swinton, entrambi eccezionali) e dietro un volto notissimo come Keanu Reeves (dentista zen e bipolare), è orgogliosamente indie-pendent, punta moltissimo sulla colonna sonora, racconta il quotidiano ma con una decisa attenzione formale, eccetera. E in effetti c’è stato, al Sundance. Ma pensa te.

Ma andiamo con ordine: Thumbsucker è una "storia di passaggio all’età adulta", indecentemente diffusa versione contemporanea del romanzo picaresco. La metafora di rito qui non è proprio sottilissima ma è almeno originale, ed è quella del titolo: Justin si succhia il pollice. Detta così sembra una boiata, ed invece l’opera prima di Mills è un film che, con tutti i suoi limiti, tra cui ingenuità tipiche dell’esordiente (a scanso di sorprese) come un eccessivo amore per i carrelli laterali al ralenti - che va bene è bello da vedere ma dopo un po’ ho capito l’antifona – mostra una notevole sensibilità nell’approcciarsi ai temi delicatissimi della crescita e della dipendenza.

La forza del film, che non vedremo in italia prima dell’inverno prima di metà Giugno ma che conquisterà senza fatica una buona fetta di pubblico più trendy come altri indie movie prima di lui, è la sua struttura che, con una linearità a volte spezzata da lampi di bizzarria o da montaggi paralleli ben più risaputi (come la sequenza dell’ascesa di Justin nell’olimpo dei debate club), sembra riprendere i meccanismi della fiaba (o del videogioco), in cui ogni prova sottoposta al protagonista presuppone la prova successiva e l’acquisizione di facoltà permette al personaggio di superare di volta in volta gli stadi. Ovvero la dipendenza di turno, o meglio il proprio limite: il thumbsucking (che è poi l’impossibilità di crescere – ma perché crescere?), il Ritalin (che poi è ingerenza degli adulti), la marijuana (che poi è l’amore per Rebecca – e anche se la canna aiuta solo con l’inganno, è evidentemente meglio del Prozac), e via dicendo.

Ma il punto che più stupisce è stranamente proprio la "morale della favola", che pur essendo una vera e propria "moraletta" intorno a cui il film gira intorno a volte zoppicando, e pur venendo esplicitata nel finale con eccessi didascalici (viene letteralmente detta dal personaggio di Reeves), finisce per cogliere nel segno. Non per la propria originalità – perché era palese che sarebbe finita così – ma perché lo spettatore vi è portato con naturalezza disarmante. Il girotondo di dipendenze, ipocrisie e ignoranze della società provinciale e del piccolo universo che gira intorno a Justin, danza piacevole ma a volte sotterraneamente crudele, diventa così un canto liberatorio e ottimista sull’accettazione di noi stessi, dei nostri limiti, e pure delle nostre addictions. E senza dimenticare che dietro quella corsa e quel sorriso c’è una truffa bella e buona, altro che raggiunta maturità. Strano che non l’abbia sbancato, il Sundance.

Tre note, per chiudere. La prima è che Lou Pucci, premiato (lui sì) al Sundance e persino a Berlino, è di una bravura impressionante: con il suo understatement e la sua voce rotta da adolescente, è capace di tenere testa (e non solo) agli attori citati en passant più sopra.

La seconda è questa: "Rated R for drug/alcohol use and sexuality involving teens, language and a disturbing image"? Ha. Ha-ha-ha. Suvvia. Comunque, al liceo, chi non si sarebbe innamorato di Kelli "sono fotogenica quando tengo in bocca degli oggetti" Garner?

La terza è che la colonna sonora, cominciata da Elliott Smith prima che gli comparissero misteriosamente delle coltellate nel petto e completata dagli eccezionali The Poliphonic Spree, sarà anche troppo invasiva e sarà che contribuisce troppo (di sicuro più della media) al tono del film, ma è roba da loop incontrollato. Cosa che sta accadendo ora, mentre vi scrivo. Ed ecco un regalo per voi.

Thirteen – Elliott Smith
(mp3) (via Pimps of Gore)

[controcampi]

ScrubsSeason 5

NBC, Wikipedia, Zach Braff Blog, The Blanks website

Anche libero va bene
di Kim Rossi Stuart, 2006

Una delle cose più interessanti del primo film da regista di uno dei più dotati attori italiani è, paradossalmente, proprio la sua "assenza", interessato com’è, come autore, più alle dinamiche interne dei personaggi che non a farsi bello di fronte ai suoi spettatori. E così, nonostante dimostri in qualche occasione che dietro la macchina da presa ci sa fare davvero (Tommi che sogna il macabro stupro di sua madre, la soggettiva durante la gara di nuoto), Rossi Stuart si tiene più che altro in disparte e lascia che siano i suoi personaggi a parlare, attraverso i loro gli sguardi e le loro interazioni. Un film quindi che sconta un’evidente povertà dal punto di vista visivo, almeno rispetto alle – poche – cose migliori prodotte in Italia negli ultimi anni, ma è un difetto che seppur molto limitante si può mettere da parte se si guarda al piglio (neo?)realistico e maturo con cui, coraggiosamente, il 37enne attore romano ha deciso di raccontare la sua storia.

Una storia familiare ma non patetica, anche perché rifugge le scene-madri e i turning point, una storia "normale" di un figlio costretto a subire e a condividere precocemente le responsabilità dei genitori, costruita su pochissimi elementi eppure in grado di emozionare con facilità, che trova nel piccolo Alessandro Morace un attore spontaneo e miracolosamente talentuoso, capace di tenere in piedi il film da solo anche quando condivide il campo con i due bravissimi adulti, la Bobulova e il regista stesso. Difficile rilasciare il respiro durante quei pugni contro l’armadio, bestemmiando il cielo, e impossibile trattenere le lacrime in quell’abbraccio finale. Niente male davvero.

Questo film ha sollevato dentro me una sequela di rimandi inconsci e di identificazioni consce tale che mi è impossibile essere oggettivo e/o professionale nei suoi confronti, tanto che – suppongo – il film in sè è forse meno bello di come lo dipingo. Beh, meno male che non mi pagano.

La casa del diavolo (The devil’s rejects)
di Rob Zombie, 2005

"What’s the matter, kid? Don’t ya like clowns? Why? Don’t we make ya laugh? Aren’t we fuckin’ funny? You best come up with an answer, cos I’m gonna come back here and check on you and your momma and if you ain’t got a reason why you hate clowns, I’m gonna kill your whole fucking family."

Tutto potevamo aspettarci dal sequel di un film come La casa dei 1000 corpi, ma non questo. Nemmeno se avvertiti preventivamente. Avete presente quelle sequenze strabilianti – come quella celeberrima dell’incontro tra la famigliola e i poliziotti fuori dalla casa – che nel film precedente facevano sospettare che sotto al lavoro di rielaborazione iconografica fatto da Zombie, comunque riuscitissimo per quanto mi riguarda, ci fosse ben altro? Ecco, The devil’s rejects, che sterza con forza e trasforma il seventies-gore di House of 1000 corpses in qualcosa di completamente diverso, è tutto ma proprio tutto a quel livello.

Prima di tutto da un punto di vista plastico, perché il film è visivamente fantastico, girato, fotografato e montato rielaborando ancora materiali e atfmosfere del cinema americano indipendente di una volta, eppure senza mai dare la sensazione di uno stile derivativo nemmeno quando il cinema di Arthur Penn o Sam Pekinpah viene richiamato alla mente nel modo più palese. Anzi, Zombie trova una sua dimensione personalissima, e altrettanto potente, tra fermi-immagine e ralenti, inquadrature strettissime e angoscianti sui volti sporchi, strade e campi ripresi sovraesponendo la luce ma mai cedendo alle tentazioni iperrealiste. E’ nato un nuovo grande regista americano?

Ma il film è ancora più sorprendente per questioni più prettamente semantiche, come i temi sollevati dalla sceneggiatura magistrale dello stesso Zombie, fatta di dialoghi perfetti – da segnalare le puttane-androidi e i chickenfucker, per citare quelli in odore di cult – di una linearità sequenziale impressionante, e di un senso della dissacrazione deviato e anarchico che non scade mai però nello sberleffo. In campo ci sono poi sia toni ironici (la scena incredibile del critico cinematografico che odia Elvis) che tragico-epici (lo scontro nella casa in fiamme tra il bene e il male: fate voi), amalgamati alla perfezione tanto che si ottengono entrambi gli effetti, e spesso contemporaneaente: mette a dura prova lo spettatore, sia per l’etica del contenuto che per quella del significante.

Fino ad arrivare alla conclusione, che è tra le cose migliori viste nel cinema americano negli ultimi anni, una sorta di finale triplice che porta alle estreme conseguenze i continui ribaltamenti prospettici e i contrasti del film. Lirico e indimenticabile. Altro che il "solito horror" che la distribuzione italiana cerca di spacciare per raccimolare due lire in più: The devil’s rejects è un film che sfugge alle convenzioni di genere, che affascina e inquieta e che non perde un colpo, ma non solo.

E’ un viaggio tesissimo e violento, on the road fino alle estreme conseguenze, nelle profondità e nell’abisso dell’incubo americano. Da roba del genere si potrebbe rifondare da capo una nuova New Hollywood: speriamo che non venga sottovalutato e dimenticato.

Inquietato dalle notizie sui tagli della versione italiana, persino più imbecille del solito (si può leggere di cosa si tratti nei commenti di questo post ad opera di Coma, che le ha viste entrambe), ho preferito recuperare la versione originale. Alla quale quindi fa riferimento questo post.
Ne è valsa decisamente la pena.


La versione originale del film si può comprare a pochissimi euro qui su play.com. Se siete proprio dei golosi, c’è anche l’edizione speciale.

[midnight rider]

"Looks like you ain’t gettin’ off that easy, huh, bitch?"

Scary movie 4
di David Zucker, 2006

Ovvero 2/2: dopo essere passato alle mani esperte del sessantenne Zucker, la saga comedy post-craveniana arriva al quarto episodio, ma – esattamente com’era accaduto agli irriverenti fratelli Wayans, responsabili di un buon n°1 e di un pessimo n°2 – mostra un calo visibile di freschezza. Non che non si rida per nulla: già il modo in cui le tre storie-matrici sono state incastrate (il capovillaggio di Village è il padre del bambino di The grudge e vicino di casa del protagonista di War of the worlds) è in sè molto divertente. Ma si ride molto meno di quanto si sarebbe potuto con un briciolo di sforzo.

E oltre a ciò, che sarebbe già una condanna, Scary movie 4 dura un tempo assurdamente breve, e a peggiorare tutto accorre la versione italiana, che non può essere soddisfacente ma che è davvero penosa, non solo per i riferimenti intraducibili alle abitudini tv americane (si inizia con il Dr.Phil e si chiude con Oprah Winfrey), ma soprattutto per la comicità verbale, i cui giochi di parole si perdono tutti, cosa che nessuno in fase di doppiaggio ha degnato d’attenzione: diavolo, ti viene voglia di togliere l’audio e doppiare il film con battute migliori.

Resta la comicità più corporale e fisica, di grana grossissima, e qualche scena veramente da schiantarsi, a faccia in terra: la parodia afro-musicale di Brokeback mountain, l’eccezionale spoof della scena madre di Million dollar baby, poco altro. Non basta lo schiaffo (in realtà buffetto affettuoso) alla performance settembrina di Bush, e il pazzesco e interminabile sfottò finale nei confronti di un Tom Cruise impazzito, a soddisfare i palati anarcoidi: arridatece Shorty.

[scusate il ritardo]

Con qualche ora di ritardo dovuta alle sgradite
e frustranti politiche burocratiche universitarie…

Kim Ji-Woon e Rob Zombie. Tutto il resto è accessorio.

Su Friday prejudice, anche questa settimana,
trattiamo male gli italiani e premiamo la violenza gratuita.

Bang.

Mission:impossible 3
di J.J.Abrams, 2006

Prima di tutto, leggete immediatamente questo post di Secondavisione, e fate finta che l’abbia scritto io. Se volete, se vi fa più comodo, immaginatevi la mia voce che doppia la faccia del dottor p., o viceversa. Fatto? Bene, procediamo.

Se fossi uno di quelli che hanno sparato escrementi sui due precenti capitoli dell’ultima-saga-action-possibile, che so, per il glaciale formalismo del primo o per il ridicolo accanimento melò del secondo, vi direi senza alcun dubbio che questo terzo episodio di M:I è il migliore dei tre. Se la pensate così, sappiate dunque: è il migliore dei tre. Invece, facciamo così, io dico che la serie tiene la testa alta, e che forse è il migliore dei tre.

Ma quello che importa è che ci si diverte da pazzi: Abrams ha fatto tesoro di molte cose imparate sui set televisivi, e dirige con mano sicura un film consapevolissimo, sulla base di una sceneggiatura che alterna ingenuità palesate e per questo graditissime (come alcune frasi ad effetto o le conversazioni personali nel bel mezzo dell’azione, che dopo Team america è difficile prendere alla lettera), a furbescherie come la classica struttura del flashback (usata in modo più sapiente di quanto si immagini) o come il mistero che aleggia intorno alla "zampa di lepre", a autentici colpacci da geniaccio ("ce l’ha fatta! ce l’ha fatta …ma tanto si sapeva.").

Cosa voler di più? Un cattivo che fa letteralmente paura (Philip Seymour Hoffman è troppo bravo per essere umano), una sequela di cazzutissime scene d’azione che si superano l’un l’altra per la cura con cui sono realizzate, location tra i tetti di Roma e quelli di Shanghai, una topa del far east che come il nero va su tutto (qui è la vietnamita Maggie Q di Dragon Squad), e qualche vera chicca, come il celato recupero della suddetta zampa mentre la Q recita una poesia, o la scena in cui Cruise e il sempre fichissimo Meyers fanno gli italiani caciaroni. Ce ne sono molte altre, ma non uso portarmi taccuini in sala.

Infine, gente come Hoffman, Simon Pegg e Lawrence Fishbourne ti fa venir voglia di recuperare in fretta la versione originale (Meyers è doppiato da un carciofo, suppongo), cosa abbastanza rara per un film simile. Vuol dire che c’è del talento, sotto, e mica a scavare.

Cercare di terminare questo post con una chiusa che sia un complimento per un film così ben riuscito ma che non suoni ormai scontato è davvero ostico, quanto scrivere di un film una settimana dopo l’uscita. Quindi questo è un post senza alcuna chiusa.

Però, io sono uscito fischiettando la canzoncina, ta-ta, ta-ta-ta-ta, e quando sono entrato in macchina l’ho fatto con un gesto molto fico.

Dopo l’esperienza spettatoriale di oggi, sono pronto a promuovere con forza una seria proposta di legge per la futura e totale interdizione ai pubblici spettacoli di tutti i minori di 18 anni. Tutti.