maggio 2006

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Vive l’amour (Aiqing wansui)
di Tsai Ming-liang, 1994

Il film che, portandosi a casa il Leone d’oro a Venezia nel 1994, fece conoscere a tutto il mondo il cinema di Tsai Ming-liang, regista malese trapiantato a Taiwan, è a tutt’oggi una delle sue opere più famose, e forse la più amata dai suoi fan.

Fa un certo effetto vederlo solo adesso, a 12 anni di distanza, perché pur avendo – classico luogo comune autoriale – al suo interno già tutto lo straordinario cinema prodotto successivamente da Tsai, Vive l’amour è disperatamente bello anche senza la ricorrenza alle visioni apocalittiche di The hole o alle provocazioni porno di Il gusto dell’anguria. Anzi, quello che colpisce ancora oggi di questo film è la sua leggerezza, la sua anima di commedia con quel triangolo amoroso, quasi da pochade, che si tramuta, attraverso i silenzi dei suoi protagonisti opposti al rumore vociante della città triste, in un ritratto tragico commovente e rassegnato dell’impossibilità di comunicare l’indecifrabilità dei sentimenti. Se non attraverso i propri corpi, svuotati di senso, oppure – già qui, anche se non sono rappresentati, ma solo visti e immaginati attraverso le reti di un letto sotto cui ti nascondi – attraverso i propri sogni.

E non mi sorprende che il finale di Vive l’amour sia così famoso. Dopo aver camminato intorno al parco, tenendosi dentro quelle lacrime che per tutto il film erano sottratte dai gesti silenziosi, o da una mosca, o dalle parole sempre forzate, Yang Kuei-mei si siede su una panchina e piange, poi smette, poi ricomincia, poi smette, poi. Sì, anche noi.

[tonite]

"but now these blue tears, they keep falling
falling down from my lonely eyes, they’re falling for you"

Black heart procession, Nuovo Estragon, Bologna.

[per solutori abili]

Post in attesa. Se qualcuno lo indovina.

Ha indovinato Flavio. Il film è Vive l’amour.

H2Odio (Hate 2 O)
di Alex Infascelli, 2006

Del terzo film di Alex Infascelli si sta sentendo parlare tanto, in questi giorni. Cosa apparentemente bizzarra ma abbastanza consueta nel nostro paese, non se ne parla per la sua qualità ma solo per una curiosa caratteristica produttivo/distributiva: pur essendo diretto da un affermato – per quanto spesso criticato – regista "di sala", H2Odio non è uscito al cinema, ma direttamente in DVD. E tanto per far imbestialire i puristi, nemmeno nei circuiti delle videoteche ma in quelle delle edicole.

Sarebbero molti i discorsi da fare a riguardo, che meriterebbero però uno spazio più ampio e apposito: brevemente, non vedo nulla di strano nell’operazione, che artisticamente ben si appaia alle smanie artistoidi-videoclippiche del film, e che commercialmente va enormemente a vantaggio della produzione (il caso Natale a casa Deejay è un esempio lampante) rispetto a un mercato che non possiede le doti di domanda per avere spazio per un film del genere. Insomma, terminologia spicciola, in sala non se lo sarebbe "cagato" nessuno, quindi è del tutto comprensibile che si sia scelta una strada simile – che contiene al suo interno (esce con La Repubblica e L’epresso) la sua stessa promozione, peraltro imponente e senza prezzo. Senza contare il passaparola, e le critiche pregiudiziali. Dal momento che ho avuto l’occasione di vedere il film, preferisco però parlare, appunto, del film. Perché l’ho visto.

Parliamo del film, allora. Infascelli mette in scena una specie pentolone ossessivo in cui cuociono le ossessioni macabre di Hanging Rock, l’alone di cult forzato di Blair witch project, riferimenti atmosferici al cinema italiano di genere dei tempi che furono, e via andare. Il problema è che l’amalgama degli elementi, oltre a non essere molto riuscita, non è nemmeno particolarmente ricca: dopo 10 minuti si è capito il concetto, dopo 40 minuti lo svolgimento, quindi l’interesse finisce e ci si ritrova a darsi forti manate sulle ginocchia e sulla fronte, sperando che le cinque insopportabili protagoniste schiattino in fretta. Che s’aveva di meglio da fare, in serata. Grazie al cielo dura meno di un’ora e mezza.

Bruttarello quindi, quando non fastidioso, quando non disdicevole. La storia delle cinque ragazze che decidono di darsi all’idrofagia esclusiva per una settimana, senza le personalità "forti" (Lucarelli e Ammaniti) che rendevano parzialmente interessanti – soprattutto il secondo – i due modesti film precedenti di Infascelli, sfoggia qui dei dialoghi che sembrano usciti da un blog. Un brutto blog in vena di sentenze, come si addice alla smemo generation. Dialogo su Winnie Pooh mielomane compreso. Tra critica asciugatissima alla società dell’apparire, interminabili sequenze cripto-sperimentali con molteplici e fastidiosi effetti-nakata, e la misoginia più impietosa ma attecchita dal ridicolo patologismo del finale, di questi tempi H2O potrebbe persino davvero diventare un cult. Ma a questo punto – lo dico provocatoriamente – era meglio il film di Radio Deejay.

Aggiungono carne al fuoco una serie di elementi degni della miglior "Yeuch parade" di Ciak, a partire da Platinette, che svestiti i suoi pannoni femminili ci regala in un flashback un imbarazzante scult-cameo, passando per il bacio lesbo/incestuoso sotto una pioggia di sangue e per il dente tirato fuori dalla spalla con le forbicine e le dita, epitome della paranoia masturbatoria, per finire a Mandala Tayde che sbava e vomita ruzzolando nel bosco urlando "Fuck!". Poi, il film (chissà perché diavolo) è recitato in inglese, peraltro maluccio, ma è doppiato in italiano. Dalle stesse attrici. Nel modo più svogliato possibile.

Tra le poche soddisfazioni, quella di vedere le cinque tremebonde scendere all’inferno in una sorta di Cabin Fever de noantri, sempre più magre e smunte, imbruttite e tristi, con la faccia maciullata o con le labbra strappate a morsi, in un massacro quasi-gore (perché non si ha nemmeno il coraggio di essere sanamente sanguinolenti) che è secondo solo al massacro che il film stesso ha causato nei nervi dello spettatore. E nell’accezione peggiore del termine "nervi".

Se non siete riusciti ad arrivare alla fine, vi capisco. Se mi scrivete, vi racconto volentieri il finale. Tanto è una cazzata.

False verità (Where the truth lies)
di Atom Egoyan, 2005

Con un occhio, quello del canadese che vive la cultura del vicinato, e con l’altro, quello dell’outsider armeno che può permettersi un maggiore distacco, Egoyan racconta un triangolo sensuale di misteri e menzogne per parlare della cultura americana, della smania (e della paura) di apparire, dell’incapacità (e dell’impossibilità) di amare. La prima parte sembra uno Scorsese sotto tono (quello stesso uso degli spazi, gli stessi scatti di rabbia, la stessa voce off – però una voce sussurrata in una stanza), la seconda si accomoda sui più tipici dettami del film a incastro / film a sorpresa.

Peccato che il film di Egoyan sia allo stesso modo un film che funziona solo a metà: la sceneggiatura ondivaga tra passato e presente è ben concepita ma è confusa, e i suoi pezzi a volte sembrano appiccicati a casaccio, addirittura forzati nel finale; i dialoghi sono affascinanti ma peccano di presunzione e sono – spesso – eccessivamente letterari e didascalici, gli attori sono molto bravi (Bacon soprattutto Firth: la Lohman è una presenza angelica ma del tutto inconsapevole) ma alla lunga le loro performance sono ripetitive; i finali si susseguono – appunto, come da tradizione – stancamente e con un notevole calo d’interesse.

Comunque sia, grazie anche alle luci sovraesposte di Paul Sarossy e alla regia molto misurata di Egoyan (che pure sferra un attacco alla MPAA – coerentissimo con i temi del film – con scene di sesso assolutamente insolite per un film nordamericano), ne esce un ritratto delle bugie radicate in una cultura – che diventa poi un affronto alla sua ipocrisia omofoba – morbido e insinuante. Era forse consentito attendersi di più?

Il regista di matrimoni
di Marco Bellocchio, 2006

Proseguendo in modo preciso sui percorsi già intrapresi nel meraviglioso L’ora di religione, ma facendo tesoro anche dell’esperienza più onirista del bellissimo Buongiorno notte, Bellocchio sforna un’altra opera estremamente preziosa nel rinsecchito panorama del cinema italiano, che segna un ulteriore e coerente passo sulla strada recente del regista de I pugni in tasca. Mantenendo forse questa volta toni più leggeri, nonostante l’inquietudine generale, perché Il regista di matrimoni è alla fine anche uno scherzo, ovviamente ben congegnato, che si sporca le mani persino con meccanismi narrativi derivati dal giallo. Ciò nonostante, le tematiche hanno anche in questo caso una forte valenza politica.

I temi sono simili a quelli del film del 2002 (l’arte e la vita, la morte e il sacro) e vengono affrontati sia con le armi della metafora e del sogno, in una Cefalù sonnacchiosa ma piena di occhi – vero luogo della mente e allo stesso tempo personaggio attivo – sia attraverso urla che esplicitano perché non possono più rimanere in silenzio (il monologo da brividi di Smamma sulla spiaggia) la protesta di un artista sullo status quo dei rapporti di potere nel nostro paese (ma non solo). Il regista di matrimoni è infatti soprattutto un film sul potere, discorso che si intreccia abilmente con gli altri – più "metafisici", a modo loro – nel raccontare la storia di un artista doppiamente ingannato, e di un amore che è sovvertimento di tradizioni – l’Innominato che fugge con Lucia, nel sogno/desiderio di Bona – ma non solo. In nome di un’ultima speranza, quell’amore che secondo Smamma non esiste più o non è mai esistito? O forse solo il capriccio di un potente, la sua rivincita interessata su un’arte defunta per via della sua stessa ingenuità? In un mondo in cui i morti comandano, l’artista è l’ultimo degli sciocchi.

Un film che se non eccelle da un punto di vista figurativo quanto i precedenti, si rivela però straordinario nel modo in cui si immerge nel buio siciliano e nei contrasti con la luce, sempre pronto ad uscire dal velo della notte se stemperato dallo sguardo ironico di Castellitto – che non è mai così bravo come quando viene diretto da Bellocchio. Molto complesso invece da un punto di vista linguistico, per la ricchezza di debrayage e quindi di altrettanti "occhi vedenti" all’interno della narrazione, ma nonostante questa scelta Bellocchio non abdica mai a teorismi di sorta, regalando al contrario – una volta compresi i meccanismi, non semplicissimi – un’esperienza più gastrica che non cerebrale, più angosciante che non intellettuale, che se non è all’altezza degli ultimi due lavori del regista piacentino, è sicuramente – già per l’indole, ma anche per i risultati – un gradino sopra quasi tutto il cinema italiano degli ultim(issim)i tempi.

Contrasto dei contrasti, i titoli di coda sono assolutamente da fischiettare (Mariangela Melato, "Sola me ne vo per la città"), magari con impresso ancora in mente quella conclusione beffarda e bizzarra, e quel geniale "falso controcampo" finale. Quei due sorrisi che si incontrano. Così lontani e così vicini?


Update: se avete apprezzato la suddetta canzone nella versione della Melato, adorerete la versione di Nella Colombo (1945).
Cliccate qui, e alzate le casse.

[la morte non esiste]

Tra remake inutili e sequel impossibili,
anche libero (de rienzo) va bene.

E Padre Pio? Romance & stigmates.

Sono tornato alla ribalta,
su Friday Prejudice, proprio questa settimana.

E per un turno in cui escono 4 film italiani su 8,
c’è andata pure bene.

When romance meets destiny (Gwangshiki dongsaeng gwangtae)
di Kim Hyeon-seok, 2005

Tra i film che non sono riuscito a vedere al FEFF8.

Diretto da uno degli sceneggiatori di JSA, When romance meets destiny è una commedia coreana abbastanza tipica, piacevole e intelligente, divertente e ben confezionata, e persino con qualche arma in più della media: come la struttura, che gonfia il "preludio" fino a due terzi di film (mostrando il titolo del film solo dopo un’ora, e dedicandosi quindi più all’osservazione dei personaggi che non alle loro azioni) e che incrocia saggiamente gli alterni destini dei suoi due protagonisti.

Senza troppe sbavature e senza l’eccesso di trivialità e volgarità di operazioni simili (come Everybody has secrets), ma con tenerezza e sensibilità (anche grazie agli attori, tutti molto bravi) e senza abdicare al "finale prevedibile a tutti i costi". Anche a costo di perdere – inevitabilmente – un po’ di mordente nell’ultimo terzo di film. Comunque, non si è qui di certo a gridare al miracolo, ma vorremmo vedere anche film simili nei nostri multisala. Vi piacerebbero, ci metto la mano sul fuoco.

Assolutamente inspiegabile (perché uno spoof nel mezzo di una commedia romantica?) la scena in cui il protagonista irrompe nella chiesa al ralenti con la musichetta di A better tomorrow. Ma sta di fatto che ho riso come un imbecille.