H2Odio (Hate 2 O)
di Alex Infascelli, 2006
Del terzo film di Alex Infascelli si sta sentendo parlare tanto, in questi giorni. Cosa apparentemente bizzarra ma abbastanza consueta nel nostro paese, non se ne parla per la sua qualità ma solo per una curiosa caratteristica produttivo/distributiva: pur essendo diretto da un affermato – per quanto spesso criticato – regista "di sala", H2Odio non è uscito al cinema, ma direttamente in DVD. E tanto per far imbestialire i puristi, nemmeno nei circuiti delle videoteche ma in quelle delle edicole.
Sarebbero molti i discorsi da fare a riguardo, che meriterebbero però uno spazio più ampio e apposito: brevemente, non vedo nulla di strano nell’operazione, che artisticamente ben si appaia alle smanie artistoidi-videoclippiche del film, e che commercialmente va enormemente a vantaggio della produzione (il caso Natale a casa Deejay è un esempio lampante) rispetto a un mercato che non possiede le doti di domanda per avere spazio per un film del genere. Insomma, terminologia spicciola, in sala non se lo sarebbe "cagato" nessuno, quindi è del tutto comprensibile che si sia scelta una strada simile – che contiene al suo interno (esce con La Repubblica e L’epresso) la sua stessa promozione, peraltro imponente e senza prezzo. Senza contare il passaparola, e le critiche pregiudiziali. Dal momento che ho avuto l’occasione di vedere il film, preferisco però parlare, appunto, del film. Perché l’ho visto.
Parliamo del film, allora. Infascelli mette in scena una specie pentolone ossessivo in cui cuociono le ossessioni macabre di Hanging Rock, l’alone di cult forzato di Blair witch project, riferimenti atmosferici al cinema italiano di genere dei tempi che furono, e via andare. Il problema è che l’amalgama degli elementi, oltre a non essere molto riuscita, non è nemmeno particolarmente ricca: dopo 10 minuti si è capito il concetto, dopo 40 minuti lo svolgimento, quindi l’interesse finisce e ci si ritrova a darsi forti manate sulle ginocchia e sulla fronte, sperando che le cinque insopportabili protagoniste schiattino in fretta. Che s’aveva di meglio da fare, in serata. Grazie al cielo dura meno di un’ora e mezza.
Bruttarello quindi, quando non fastidioso, quando non disdicevole. La storia delle cinque ragazze che decidono di darsi all’idrofagia esclusiva per una settimana, senza le personalità "forti" (Lucarelli e Ammaniti) che rendevano parzialmente interessanti – soprattutto il secondo – i due modesti film precedenti di Infascelli, sfoggia qui dei dialoghi che sembrano usciti da un blog. Un brutto blog in vena di sentenze, come si addice alla smemo generation. Dialogo su Winnie Pooh mielomane compreso. Tra critica asciugatissima alla società dell’apparire, interminabili sequenze cripto-sperimentali con molteplici e fastidiosi effetti-nakata, e la misoginia più impietosa ma attecchita dal ridicolo patologismo del finale, di questi tempi H2O potrebbe persino davvero diventare un cult. Ma a questo punto – lo dico provocatoriamente – era meglio il film di Radio Deejay.
Aggiungono carne al fuoco una serie di elementi degni della miglior "Yeuch parade" di Ciak, a partire da Platinette, che svestiti i suoi pannoni femminili ci regala in un flashback un imbarazzante scult-cameo, passando per il bacio lesbo/incestuoso sotto una pioggia di sangue e per il dente tirato fuori dalla spalla con le forbicine e le dita, epitome della paranoia masturbatoria, per finire a Mandala Tayde che sbava e vomita ruzzolando nel bosco urlando "Fuck!". Poi, il film (chissà perché diavolo) è recitato in inglese, peraltro maluccio, ma è doppiato in italiano. Dalle stesse attrici. Nel modo più svogliato possibile.
Tra le poche soddisfazioni, quella di vedere le cinque tremebonde scendere all’inferno in una sorta di Cabin Fever de noantri, sempre più magre e smunte, imbruttite e tristi, con la faccia maciullata o con le labbra strappate a morsi, in un massacro quasi-gore (perché non si ha nemmeno il coraggio di essere sanamente sanguinolenti) che è secondo solo al massacro che il film stesso ha causato nei nervi dello spettatore. E nell’accezione peggiore del termine "nervi".
Se non siete riusciti ad arrivare alla fine, vi capisco. Se mi scrivete, vi racconto volentieri il finale. Tanto è una cazzata.