agosto 2006

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The U.S. vs. John Lennon
di David Leaf e John Scheinfield
Orizzonti

Come mi aveva anticipato Clos, incontrato ieri sera dotato di autografi da far invidia, sembra di essere tornati al Biografilm: ed in effetti il documentario di Leaf è Scheinfield è costruito attraverso le forme più televisive (pruduce VH1) e semplici che il genere ha utilizzato negli ultimi anni. Per intenderci: filmato di repertorio, intervista, filmato, intervista. Eccetera. Il film racconta la "battaglia" tra John Lennon e i gangli dell’amministrazione Nixon nel periodo in cui il cantante, probabilmente rincoglionito da quella donna orribile che si portava sempre appresso ma mosso dal suo noto solito spirito utopico-idealista e da un sense of humor incredibile e che molti hanno dimenticato, metteva a Nixon, Hoover e soci qualche bastone tra le ruote, soprattutto sulle faccende legate alla guerra in Vietnam. Insomma, probabilmente è un documentario risaputo, non del tutto esente dalla noia, elegiaco, e decisamente retorico. Ma in questo caso contano le voci in campo – più che autorevoli, tutte, da Chomsky e quella stessa donna orribile – e soprattutto i messaggi, ancora attuali oggi, in giorni in cui dovremmo levarci (in tutti i sensi) e dare alla pace una possibilità. E se c’è una storia che valeva la pena di raccontare, era questa. E se c’è una storia che avremmo sentito volentieri, era questa.

The Black Dahlia
di Brian De Palma
Venezia 63 – Concorso

Dolorosa levataccia mattutina per vedere uno dei film più attesi della mostra, quello di uno dei più grandi metteur en scene del cinema americano, Brian De Palma. Che non delude affatto le aspettative: The Black Dahlia è un noir di impressionante robustezza, truce e impietoso (inquietanti persino nei risvolti lieti che qualcuno sicuramente criticherà), eppure di innegabile piacevolezza, costruito su una storia intricata che – come spesso in Ellroy – è più l’affresco di un mondo in rovina sotto la patina dell’apparenza e del successo, che un semplice dilemma poliziesco. Saranno gli anti-barocchisti ad odiarlo, quelli che hanno sempre trovato il cinema di De Palma vuoto e formalista. Qui si crede invece, come si è spesso detto, che forma e sostanza nel cinema si compenetrino, in un modo o nell’altro. E De Palma anche in questo film, che pure non è bello come il fenomenale Femme Fatale perché si ricollega ad un universo narattivo più sedimentato e prevedibile, e che – va detto – ha qualche pecca nella gestione della trama e nella direzione degli attori, si riconferma un puro artista della forma, creando (mi si perdoni il gioco di parole) una sequenza di sequenze strabilianti, e lasciando spesso senza fiato. E’ sempre lui, le sue focali doppie, i suoi virtuosistici piano-sequenza, e una lunga scena in soggettiva dove tra l’altro – pensa te – si ride davvero di gusto alle spalle dell’ipocrisia borghese. Brian De Palma, un manuale del cinema.

Sept ans
di Jean-Pascal Hattu
Giornate degli autori

Avvertenze: questo post non parla solo del film. Anzi.

La notizia clou di quest’anno è che gli accreditati "cinema" e "promozionale", insomma noi poveri pirla dall’accredito verde, ormai conosciuti al Lido come "quei pirla con l’accredito verde" avremo vita difficile durante questa 63ma Mostra. Impossibile e ripeto impossibile entrare alle proiezioni stampa, anche con il Palalido mezzo vuoto. Lo so, perché l’ho provato sulla mia pelle per due volte. Quindi invece di parlare del film parlo di un Grande Festival Italiano che, seppur minacciato da più fronti, ormai in modo irreparabile e quasi belligerante, invece di riavvicinarsene decide di abbandonare definitivamente gli appassionati, i cinefili, i giovani, quelli che pagano e che qui si emozionano e soffrono. Insomma, quei pirla con l’accredito verde. Ci sono molte cose di cui vergognarsi in questo Festival, per ora, e il 30 Agosto è una di queste. Ma sono sicuro che Anna Praderio non ne parlerà al TG5.

Però del film voglio ugualmente parlare, anche se il tempo non è dalla mia parte in questo momento. Perché? Perché che non c’è un posto "ufficiale" in cui un uno di quei poveri pirla dall’accredito verde possa connettersi con il suo portatile senza che debba versare dei soldi alla ex azienda monopolitica della telefonia nazionale. Suona schifosa come cosa eh? Peggio. Ma passiamo al film.

Il primo film visto, è l’unico del primo giorno a causa di quanto detto sopra, è una bella sorpresa se confrontata con l’umore con cui il dott. Murda e io l’abbiamo affrontata. Che suona tipo: vediamo questo o non vediamo niente. Già. Il film però è molto, troppo europeo, tanto da far suonare più campanelli d’allarme. In Europa sappiamo produrre piccoli film solo rendendoli così secchi, asciutti, anemotici? E’ un peccato, perché la storia triste e disilusa che Hattu racconta, quella di un impossibile triangolo amoroso fatto di perversioni e voyeurismi, sa colpire direttamente allo stomaco come ormai pochissimi registi dell’area francofona sanno fare. E con tre attori bravi, onesti, capaci. Promosso per buona volontà, ma è già (più che) qualcosa.

[heading to Venice]

Tra qualche ora mi trasferirò a Venezia, o meglio al Lido, per la 63ma Mostra del Cinema, dove passerò la maggior parte del tempo da qui al prossimo 10 settembre ad attraversare metal detector, a mangiare panini con nomi di attori storpiati, a cercare Park Chan-Wook, a usare impunemente i cessi dell’Excelsior, e ad aspettare in piedi o appoggiato su una sbarra di ferro di entrare in una sala in cui probabilmente alla fine non mi faranno entrare. Il tutto ad un non-proprio-modico prezzo, perché i blogger mica li accreditano. E ci mancherebbe altro. E’ tutta passione la nostra. Passione, lacrime, sangue, e perché no, sperma.

Vi avverto: non ho idea delle possibilità di aggiornamento del blog durante la Mostra. Quello che è certo è che gli Internet Point quest’anno non avranno il mio culo. Al casinò c’è una connessione wireless, ma quelle cime dell’ufficio stampa, non solo non sanno che ci sia una connessione wireless nel casinò, ma non sanno nemmeno cosa cazzo significhi connessione wireless, figurati se sanno dirmi se io la potrò utilizzare o meno. Credo comunque che entro domani lo saprete, oppure mi ingegnerò in qualche modo. Altrimenti ci risentiamo tra una decina di giorni.


Ma potevo lasciarvi due settimane senza pregiudizi?


FRIDAY PREJUDICE non lascia, raddoppia:

questa settimana
due settimane di prejudizi
.


Ultima cosa: come si sa – o meglio, come dicono le malelingue – io sono un animale sociale. Quindi, se a mia insaputa siete a Venezia anche voi, non esitate a contattarmi usando la cara vecchia email.

E adesso andiamo in coda.

Slevin – Patto criminale (Lucky Number Slevin)
di Paul McGuigan, 2006

Ci vorrebbe poco a massacrare Lucky Number Slevin: è la solita brodaglia, e Tarantino di su e Tarantino di giù, e i due killer imbranati, e quella nana bona di Lucy Liu che parla a macchinetta, e quel finale che magari non ti va giù, e basta Bruce Willis con i due pistoloni. Eppure, il regista scozzese McGuigan al suo primo secondo film americano non solo porta a compimento il suo scopo – che è quello di realizzare un gangster-moviarello piacevole e senza troppe pretese che non siano fumettistiche (i due gangster rivali che si guardagno in cagnesco dai rispettivi attici) o citazioniste -  ma riesce anche a confezionare un film di tutto rispetto, indubbiamente divertente, visivamente curatissimo e, con tutti i limiti del caso, nemmeno troppo banale.

Si sarebbe dovuto dire, in prima battuta, che il film è quello che è soprattutto (o solamente?) grazie allo script di Jason Smilovic. Che sarà ridondante, logorroico e wannabe-colto quanto volete, che sbaglierà pure qualche colpo nell’eccesso di indizi + risoluzioni tanto da sembrare una (buona) tesi da corso di sceneggiatura, ma che funziona splendidamente. I dialoghi sono talmente allo stato di grazia che l’assoluta prevedibilità dei twist del suo soggetto (nonostante si scimmiotti I soliti sospetti , qui si capisce tutto, e subito) passa in secondo piano.

Da parte sua, McGuigan dirige davvero benino: piglia qualche perdonabile scivolata facendo lo stiloso a tutti i costi (i flashback in step-frame sono davvero brutti, diciamolo), ma sa disporre con maestria, nell’incasinatissimo mosaico di facce e (tantissime) parole, sia i pezzi più burleschi che, con il passaggio brusco alla seconda parte ben più seria, quelli più sanguinari, violenti e vendicativi. Certo che con volti del genere al proprio servizio è dura sbagliare il colpo: persino Josh Hartnett è molto bravo – ma con quella faccia da schiaffi che si ritrova, ovvio che l’atarassico gli viene da dio.

Insomma, sarà anche la solita brodaglia, ma è cucinata con una classe che altri si sognano.

C.R.A.Z.Y.
di Jean-Marc Vallée, 2006

Fattosi strada quasi a sorpresa spuntando dalla scorsa selezione delle Giornate degli Autori di Venezia, e lanciato nelle ultime settimane con una campagna pubblicitaria insolita, che ammicca soprattutto – e sbagliando il tiro – al pubblico più giovane (davvero tremendi gli spot radiofonici sulle frequenze nazionali), il film del 43enne regista canadese racconta la storia di un ragazzo che tra gli anni ’60 e gli anni ’70 vive la scoperta della propria identità in mezzo alla totale incomprensione del suo ambiente familiare, con un padre omofobo e quattro fratelli che sono più categorie mentali che veri personaggi, e sociale, il castrantissimo Quebec. Nel frattempo, già che c’è, ascolta della musica.

C.R.A.Z.Y., per quel poco che è stato visto – ora si attende il responso del pubblico italiano – è piaciuto davvero moltissimo. Mi aspettavo in realtà qualcosa di diverso, più vicino al cinema fanciullesco ed esagitato dell’Amelie di Jeunet o alla filologia esasperata di period film come Velvet Goldmine, vista anche l’importanza che la colonna sonora riveste. E invece C.R.A.Z.Y. ha almeno una dimensione tutta sua, abbastanza originale, che si barcamena tra le due indoli, tra un realismo estremo (come tutta la sequenza del funerale, lungi da me dirvi di chi) e l’epressione colorata e giocosa di una vitalità creativa, molte volte soffocata – un po’ come quella del suo protagonista. Ma non è per queste altalene stilistiche, non sempre azzeccate, che il film ha funzionato tanto. Ma perché, in tempi in cui la ruffianeria al cinema non si spreca, quella di C.R.A.Z.Y. ha davvero dello straordinario.

Come hanno scritto molti, "un buon film" e "molto godibile" lo è: ma spiace davvero che con una storia così non si riesca a dire nulla di davvero nuovo: un film che è risaputo fino alla nausea, e – mi ripeto – terribilmente ruffiano. Senza alcuna infamia, certo, perché tutto sommato si segue piacevolmente, è ben recitato e realizzato (e con pochi soldi, tolti i diritti per le canzoni); ma anche senza lode, perché vergognosamene compiacente in ogni piega della sua buona sceneggiatura stracolma di riferimenti mistico-cristologici. E se la buona fede di Vallée e soprattutto la sua sensibilità nell’approccio alla materia sono innegabili, lo sono anche tutti i cliché del caso, e un certo fastidio per un’occasione parzialmente sprecata (o per un eccesso di hype), troppo spesso affogata nella melassa.

Più stimolante semmai, seppur ancora banalotto, il percorso di fuga dalla realtà del giovane protagonista, dalle visioni adolescenziali (la scena del coro di Sympathy for the devil in chiesa sarà anche una bufala, ma è favolosa) fino a quel viaggio in terra santa (arricchita da uno dei più brutti zoom digitali che io ricordi), che dimostra una certa maturità degli autori nel sostenere che il viaggio alla ricerca della propria sessualità e della propria religiosità sono un tutt’uno, che si chiama identità. Sono certo che il pubblico giovane apprezzerà moltissimo: e come dargli torto?

[prestereste dei soldi a quest'uomo?]

Ricomincia la stagione cinematografica degna di questo nome,
ed è online il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Ci metto 26 righe a spiegare perché Time si becca il pensatore.

Friday prejudice, il simpatico cineblog pregiudiziale,
quello che non hai mai letto se non sai di cosa sto parlando.

Cars – Motori ruggenti, John Lasseter e Joe Ranft 2006

Cars – Motori ruggenti (Cars)
di John Lasseter (e Joe Ranft), 2006

Qualche mese fa, quando dopo l’entusiasmo spropositato per l’incredibile Gli Incredibili si cominciò a pensare al futuro e alla prossima fatica della Pixar, di fronte al trailer, al concept, e soprattutto alle diatribe economico-legali tra Disney e Pixar, passò a tutti un pensiero per la testa: Cars sarà un film inevitabilmente imperfetto, forse addirittura brutto, ed è forse – pensavano i più complottisti – una crudeltà preparata da Lasseter per la Disney. Uno sputo in faccia prima di liberarsene del tutto, il canto del cigno e insieme il baratro di un’azienda altrove geniale, prima di passare definitivamente all’autonomia e ai sogni veri. Poi le cose, si sa, non sono andate proprio così. Intanto, Cars l’abbiamo atteso, e atteso, e atteso.

Cars, dunque, faceva paura.

Ma John Lasseter si è dimostrato ancora una volta l’ultimo Walt Disney possibile, il poeta universale dell’animazione 3D, trasformando un film impossibile in un altro tassello di quella che è – lo ripetiamo – l’ultima possibile fabbrica dei sogni.

Cars, dunque, è bellissimo.

Molti storceranno – e già hanno storto – il naso di fronte a una storia che si rifà ai più collaudati meccanismi del romanzo americano di formazione (e soprattutto di riscatto), alle opposizioni più semplici come città/campagna, alle tematiche più ovvie come il consumismo imperante, il valore dello sport, dell’onore, dell’onestà, dell’amicizia, della famiglia (allargata), degli anziani, e via moraleggiando. A un film insomma che forse è più Disney che Pixar, e che forse è il meno bello (approssimativamente) tra tutti quelli prodotti dalla casa statunitense in questi ultimi 11 anni.

Cars, dunque, non è perfetto.

Ma è davvero impossibile resistere a una resa visiva impressionante e che ancora una volta supera i risultati ottenuti finora (quasi da chiunque), lasciando stupefatti sia quando si sbatte tutta la tecnica in faccia agli spettatori (le sequenze nello stadio nell’inizio, vorticoso per contrasto) sia quando si distilla l’emozione una goccia alla volta, di fronte a un panorama, ad una strada deserta, ad una cittadina addormentata. E difficile non riconoscere l’impressionante quadratura della sceneggiatura, che è sempre stato il punto forte della Pixar, anche qui senza un buco, una sfilacciatura, un’imperfezione, con dialoghi perfetti, personaggi eccezionali (primo tra tutti il carro attrezzi Cricchetto, degno erede della lunghissima e prestigiosa storia delle spalle-comiche della Disney), trattori-mucche e insetti-maggiolini, e due meccanici italoamericani che si chiamano Luigi e Guido.

Cars, dunque, è imperdibile.

John Lasseter, con tutti i perdonabili difettucci, o meglio ingenuità, che il suo Cars possiede, è uno dei pochi demiurghi del cinema contemporaneo a rivestire ogni suo personaggio e ogni suo ambiente di un amore incondizionato, persino più di quanto il geniale e cinico Brad Bird abbia fatto con i suoi Incredibili supereroi. E tutto questo amore si vede, traspare da ogni sorriso, tenerezza, semplicità, buffoneria, persino in quei poster invecchiati appesi alle pareti di Doc Hudson, persino in una lacrima di tergicristallo di una Porsche dal cuore d’oro.

Cars, dunque.


Dopo un tot di anteprime ad ombrello, CARS uscirà nelle sale italiane mercoledì 23 Agosto.

Le colline hanno gli occhi (The hills have eyes)
di Alexandre Aja, 2006

Prima i peggiori pensieri possibili e successivamente alcune critiche molto positive mi hanno permesso di vedere il remake del cultone (per alcuni, non per forza anche per me) di Wes Craven con una notevole dose di serenità. Guardandolo, e apprezzandone in parte lo spirito vendicativo e sanguinario, mi sono reso conto in fretta (complice anche la recentissima revisione dell’originale) di quanto Aja abbia praticamente replicato il film del 1977 aggiungendo ben poco di suo.

Si dirà, il ritmo è completamente stravolto (e adattato ai tempi: basta vedere il finale, che da tronco diventa modaiolamente beffardo), c’è molta più carne (e sangue) al fuoco, c’è una resa figurativa più compiuta. Ma la sostanza rimane quella: nell’ora e mezza scarsa che i due film condividono, non ci sono solo le stesse soluzioni narrative, ma la stessa idea morale – sia nella visione, dove Aja osa ovviamente di più, forte forse della sua estraneità all’horror americano, che nei contenuti – e persino, spessissimo, gli stessi dialoghi e le stesse inquadrature. Solo un omaggio dunque? Quello che alcuni chiamano remake-fotocopia? No, ovviamente c’è qualcosa di più, ma non è per forza un valore aggiunto.

Cosa aggiunge, dunque, il regista parigino dalla pettinatura indie, in quei venti minuti in più? Diciamo pure che allunga il brodo, esplicitando le sensazioni politiche che in Craven erano solo accennate: in una lunghissima sequenza non molto riuscita (fondamentalmente noiosa) trasforma la piccola e mostruosa famiglia nucleare – sia come nucleo come come atomica – in un villaggetto di mutanti e manichini, spostando l’opposizione da famiglia vs famiglia a sogno americano vs incubo americano, e se non fosse chiaro ci mette una bandiera americana infilata in un cranio (e poi in una gola), e un mutante che canta l’inno americano e sputa (giustissime) sentenze sulla crudeltà atomica statunitense.

Fa piacere che si renda chiaro in modo onesto quale sia lo spirito del film, ed è evidente che detto così, pane al pane e vino al vino, risulti alla fine tutto molto più semplice. Ma risulta anche e soprattutto più annacquato rispetto a quando, come in Craven, le argomentazioni sono un po’ più sottili e sottopelle, e non urlate. La stessa cosa che succede con la complicazione delle dinamiche familiari, con i duetti un po’ dualisti e semplicistici che oppongono il repubblicano Big Bob al democratico genero Doug.

Ciò nonostante, The hills have eyes ha anche i suoi bei momenti, con la violenza esplicita Aja ci sa fare davvero, e Brenda esulta ancora (la scena più bella e terribile di entrambi i film) quando vede esplodere Papà Giove insieme alla sua roulotte. Se vi accontentate, in giro c’è sicuramente di peggio, e con i remake si possono fare ben altri disastri. Tipo, per esempio, io non mi accontento del tutto.

Il film è stato proiettato in anteprima in molte sale italiane, la sua data d’uscita ufficiale è il 25 Agosto.

Superman returns
di Bryan Singer, 2006

Al suo sesto film, sbarcato giusto in tempo dalla nave degli X-men prima che affondasse del tutto, Bryan Singer si trova a dirigere un film che, nonostante il budget enorme e l’hype degli ultimi mesi (e quindi difficile da sbagliare, almeno economicamente), poteva essere un salto nel buio, o meglio un buco nell’acqua. Al di là delle leggende metropolitane sulla “maledizione di Superman”, fare un film sull’uomo d’acciaio non è cosa da tutti. C’è in ballo la mitologia, la religione, e una ridicola calzamaglia azzurra.

Ma come già Sam Raimi prima di lui con l’uomo-ragno della Marvel, Singer riesce ad aggirare i rischi legati alla rappresentazione filmica della bidimensionalità dei fumetti DC, e confeziona un grande spettacolo di intrattenimento ed effetti speciali, un filmone ultra-pop, catastrofico ed emozionante, ingenuotto e confezionato per le masse sulla base di schemi oliatissimi quanto perfetti (Superman che arriva sempre all’ultimo momento, per dirne una), ma che fa intravedere nello spiraglio tra una CGI e l’altra una visione del mondo che non sarà inedita ma che è meno banale di quanto ci si aspettasse, e che a volte (Lois Lane che sviene sul tappeto giallo, la stessa che galleggia nell’aereo, l’affondamento della nave, eccetera) si trasforma in una ricercatezza che è solo di Singer, e che rende forse Superman returns il suo film più personale dai tempi del magnifico I soliti sospetti. E di sicuro il più compiuto e divertente.

La cosa più interessante è forse il modo in cui viene approcciata la materia cristologica, presente sì già nel personaggio, ma su cui il film calca ancora di più la mano. Abbiamo un figlio mandato sulla terra a “mostrare la luce” al volonteroso ma debole popolo umano, abbiamo la morte con tanto di “crocefissione stellare”, abbiamo la resurrezione con tanto di tomba vuota ospedaliera e sudario abbandonato. Abbiamo persino una via crucis nel fango e nella kriptonite, unico tratto davvero dark di un film altrove coloratissimo, ironico e piacevolmente plasticato.

Si può discutere quanto si vuole su queste tendenze messianiche del cinema hollywoodiano contemporaneo (già presenti in moltissimi film superomistici recenti, vedasi Spiderman 2), ma che tutto questo cristianesimo spinto non sfoci nel ridicolo è già qualcosa. Anzi, è di più: Superman returns, persino nelle pieghe più geek (le battute che ammiccano agli appassionati, come la citazione ironica della famosa “è un uccello, è un aereo”, oppure il nome di Gotham City che spunta da un telegiornale), e persino in quelle più morbose, un film riuscitissimo.

Merito di un reparto tecnico pazzesco (coinvolte diverse industrie di effetti speciali), di una sceneggiatura di ferro (con una sorpresa che è ovvia fin dal primo minuto ma che stordisce per metà film) per di più piena di ottimi dialoghi – quasi tutti in bocca al cattivo – e merito appunto anche di quest’ultimo, un gigionissimo Kevin Spacey che, per quanto criticato da qualche parte, è un Lex Luthor crudele e magniloquente.

Kate Bosworth con i capelli castani è decisamente più bella che in versione bionda, ma continua a non convincermi del tutto. Comunque meglio di Margot Kidder. Brendan Routh, dalla sua, è talmente legnoso che il cristone digitale che ogni tanto lo sostituisce è quasi più espressivo.

Il film è stato proiettato ieri in anteprima in moltissime sale italiane, la sua data d’uscita ufficiale è il 1 Settembre.

Silent Hill
di Christophe Gans, 2006

A dispetto di un trailer che aveva fatto alzare a molti – me compreso – le orecchie dall’entusiasmo pregiudiziale, anche per la prestigiosa firma dello script a cura di Roger Avary, l’adattamento del celeberrimo videogioco della Konami non è stato accolto alla sua uscita nel migliore dei modi. Anzi. Eppure, così com’era successo nell’interessante versione cinematografica della nemesi storica di Silent Hill, ovvero il Resident Evil della Capcom diretto da Paul Anderson, anche il film del francese Gans fa meno danni di quanto si potesse temere. Questo perché, nonostante la durata davvero eccessiva (due ore di survival game che non fa nemmeno troppa paura sono un po’ indigeste) e una parte centrale in cui si tende a ripetersi e a fare dell’horror risaputo (molti si lamentano dell’eccesso di bimbe dai capelli lunghi neri, e non a torto: qui c’è pure l’odiosa bimba di Tideland), Avary e Gans riescono a cogliere più volte nel segno.

Il primo grazie a intelligenti invenzioni narrative che incastrano tra di loro le suggestioni di tutta la serie ludica non limitandosi a "rifare" il primo episodio (il non-incontro tra Rose e Chris nei corridoi della scuola, la polvere che sale da terra come i rewind di Rules of attraction, il flashback un po’ didascalico ma inquietante), restituendo così l’originale senso di inquietudine dell’opera originale e parlando (senza strafare, ovviamente) di come di fronte agli abissi dell’essere umano persino il diavolo sia un male minore. Il secondo grazie ad una messa in scena a tratti inetta e esagitata ma altre volte davvero fulminante (le infermiere-zombie, l’uomo con la testa a piramide e lo spadone), che inizia con la riproposizione della nebbiosità tipica del gioco e che termina con un pre-finale che più barocco non si può. Chiude il tutto un finale silenzioso e malinconico che sembra uscito da un film coreano, e che si fa apprezzare non poco.

Non sono qui a sostenere che tutto vada per il verso giusto, perché ci sono mucchi di banalità, cumuli di ingenuità e parecchia noia, frasi insulse e senza significato messe in bocca ai personaggi solo perché suonano bene o perché suonano minacciose. Siamo ancora lontani insomma da un’interazione artistica compiuta tra cinema e videogioco sul grande schermo, persino in casi (come Silent Hill, appunto) che si presterebbero alla perfezione. Forse la sintesi migliore la si è ottenuta non allontanandosi troppo dalle dinamiche videoludiche (e sto parlando di Advent Children). Ma senza dubbio lo spettacolo non manca di un certo fascino.

[l'estate sta finendo]

E un anno se ne va.
Evviva.

Ma per ora dobbiamo accontentiarci degli ultimi fondi di barile,
massacrati nel nuovo episodio di Friday Prejudice.

A cui accederete anche cliccando qui. Se non si fosse capito.

Friday Prejudice, ma questa volta niente bombe o pensatori.
Questa volta non si fanno prigionieri.

La ragazza con l’orecchino di perla (Girl with a pearl earring)
di Peter Webber, 2003

Non leggerete niente di inedito da queste parti, a proposito del film tratto dal best-seller di Tracy Chevalier: e cioè, leggerete che la preoccupazione principale di Peter Webber e del suo entourage è quella di riprodurre sullo schermo una collezione di "Vermeer in movimento", in realtà molto più statici dei quadri stessi, dimenticando per strada tutto quanto il resto. Tralasciando non solo la passione, i personaggi, la storia, gli sguardi, persino i pochi e timidi accenni metacinematografici (lo stupore di una ragazza di fronte alla camera oscura, e alla magia della luce che prende vita? E Griet non è forse l’archetipo della ragazza di campagna sedotta dal fascino del regista di turno e angustiata dalle avances del produttore?).

Se il romanzo – che non ho letto – si muoveva per forza su percorsi complessi per via dei molteplici livelli storico-narrativi (l’opera di Vermeer, la vita di Vermeer, i cazzi-suoi di Vermeer), il film invece fa insomma solo una sequela bei quadrettini uno dietro l’altro. Per carità, quadrettini di tutto rispetto (la fotografia è del chabroliano Eduaro Serra), ma che non salvano di certo lo spettatore da un film le cui ambizioni si rivelano infine un mero pacco. E per di più, noiosissimo. La reiterazione serva-timorosa-reverente-che-pulisce-lo-studio + Colin Firth-capellone-che-arriva-dal-buio la dice lunga.

La bellezza e il fascino inquieto della bocca di Scarlett Johansson sono inversamente proporzionali alla versatilità delle sue espressioni: timorosa, reverente, timorosa, reverente. Eccetera.

[farewell]

Bruno Kirby è morto di leucemia all’età di 57 anni.

(AICN, Cinematical, Cineblog.it)

[i film che non ti stanchi mai di rivedere]

"After that it got pretty late, and we both had to go, but it was great seeing Annie again. I… I realized what a terrific person she was, and… and how much fun it was just knowing her; and I… I, I thought of that old joke, y’know, the, this… this guy goes to a psychiatrist and says, "Doc, uh, my brother’s crazy; he thinks he’s a chicken." And, uh, the doctor says, "Well, why don’t you turn him in?" The guy says, "I would, but I need the eggs." Well, I guess that’s pretty much now how I feel about relationships; y’know, they’re totally irrational, and crazy, and absurd, and… but, uh, I guess we keep goin’ through it because, uh, most of us… need the eggs."

nota:
a questo film, che pur ho visto e rivisto manciate di volte (anche in questi due anni e mezzo, perché no), non ho mai dedicato un post "tradizionale", una signora Eccezione (non l’unica, ma sono pochissime) alle regole ferree e autoindotte di questo blog. e non vedo perché farlo proprio ora. e poi, come potrei?
uno dei film della mia vita.

[la notte del mio secondo blog]

Lo so che il blog va avanti a singhiozzo, ma è Agosto, no?
Che ve ne fate di un blog di cinema, voi siete in spiaggia!

Friday Prejudice invece continua imperterrito.
Ecco a voi l’episodio di questa settimana.

Friday prejudice, un blog che non conosce stagioni.

Dateci una stagione estiva, vi prego.

Impostor
di Gary Fleder, 2002

C’è stato un periodo della mia vita in cui non ho letto altro che libri (e racconti) di Philip Dick. Uno degli autori più amati e citati dal cinema statunitense (e non solo), e nonostante ciò – secondo molti – quasi mai compreso fino in fondo, o quasi sempre, in qualche modo , adattato (nel bene e nel male) agli scopi dell’uno o dell’altro regista. Strano quindi che io abbia aspettato 4 anni per vedere Impostor, uscito all’ombra del ben più noto (e ben più riuscito) Minority report. La paura superava la curiosità?

Forse sì, perché quel nome, Gary Fleder, puzza sempre un po’ di medietà (o di mediocrità, fate voi), nel riprendere il già visto e farne una specie di versione cheap (Tarantino in Things to do in Denver, Fincher in Kiss the girls), una specie di b-side non autorizzata del tormentone dell’estate. Impostor è un po’ così: non orribile o osceno, e nemmeno troppo apolitico (carattere che i dickiani più convinti additano spesso ai film ispirati all’autore), ma quantomeno inutile, e dimenticabile in fretta.

Un filmetto sci-fi senza troppe pretese, tranne l’intelligente twist finale raddoppiato che trae in inganno chi il racconto l’ha letto, e senza troppe trovate, nonché molto, troppo naif. Perché va bene fare l’orgogliosa serie-B a tutti i costi, perché va bene che Minority report è costato 100 milioni e Impostor 40 e quindi sei giustificato. Ma, in ogni caso, un tantino di stile ci vuole. Sennò davvero, povero Phil.

Una volta adoravo Gary Sinise, ora la sua faccia non la sopporto più.

Le colline hanno gli occhi (The hills have eyes)
di Wes Craven, 1977

Il secondo film di Craven cinque anni dopo L’ultima casa a sinistra è uno dei massimi cult-movie degli anni ’70, slasher gore su una doppia-famiglia americana e sul loro atavico istinto di sopravvivenza, ma anche e soprattutto film essenziale per capire il clima culturale del cinema di genere americano alla fine di quel decennio, immerso tra la confusione politica e la rifondazione culturale – e familiare, in questo caso – in seguito agli orrori della guerra fredda e del Vietnam.

Un film tesissimo e incredibilmente violento, ma stemperato dall’inspiegata ironia del volto meravigliosamente orribile di Michael Berryman, che si apre con un preambolo inquietante e non si chiude affatto (se non con un climax di brutalità da brividi freddi), e che riesce nonostante la forte contestualizzazione storica a dire ancora qualcosa sul modo di rappresentazione orrorifica della – diciamo – lotta di classe.

Da recuperare, prima di vedere cosa sia riuscito a mantenere Alexandre Aja di tutto questo fascino sporco e perturbante nel remake in uscita in Italia il prossimo 25 Agosto. Probabilmente poco?

La cura del gorilla
di Carlo Arturo Sigon, 2006

Il primo lungometraggio di Sigon, tratto dal romanzo di Sandrone Dazieri, è quello che mio padre definirebbe, con una locuzione da lui spesso utilizzata, un "vorrei ma non posso", traslata da me più frequentemente nel ben più divertente e ggiovane termine wannabe.

Insomma, La cura del gorilla è il wannabe di ciò che Arrivederci amore, ciao è la risoluzione, ovvero di un’applicazione dei meccanismi di genere presenti (anzi, eccedenti) nella buona letteratura contemporanea nel nostro paese, in autori come – appunto – Dazieri e Carlotto, ma anche Genna e Pinketts, alle formule del cinema italiano. La cura del gorilla è un wannabe cinema di genere, ma riesce ad essere a malapena cinema.

Non che non ce la metta tutta, anzi: ma cercando in tutti i modi di trasformare Claudio Bisio – attore teatricamente eccellente, Zelig permettendo – in una faccia da cinema, e non riuscendoci del tutto (anche a causa di una tremenda e interminabile voce off, evidentemente fasulla e forzata come spesso accade), a partire dal cast (ancora Catania sopra le righe?) e finendo ai dialoghi, lascia tutto intorno la brutta sensazione di un film ancora incollato alle pieghe più bieche del salvatoressismo d’accatto, dai rimandi visivi, alle ambizioni di Nirvana, alle tentazioni televisive, a Gigio Alberti eterno fattone che si fa le canne.

C’è sicuramente di peggio in Italia, e La cura del gorilla è più fastidiosetto che davvero brutto, perché almeno – lo si ripete – Sigon per primo ce la mette tutta, aggirando la sceneggiatura intricata e i pessimi dialoghi, e azzeccando a tratti qualche atmosfera, un buon incipit sanguinario, e poco altro. Appunto.

Straordinario però Bebo Storti nella parte del detective dalla scorza dura e dal cuore morbido, mentre Stefania Rocca è un’attrice da teatrino del liceo, (inascoltabile e) inguardabile. Una wannabe attrice.

[santa innocenza]

Tomo tomo, cacchio cacchio, senza far rumore,
ai primi di Agosto esce uno dei film più belli dell’anno.

Ve lo racconto nel nuovo episodio di Friday Prejudice.
(eh sì, dove c’è la scritta blu dovete cliccare)

Friday Prejudice, il tuo blog stacanovista preferito,
fresco e estivo come un Magnum Essence.