[giorni dell'abbandono]
No, l’ultimo giorno della Mostra non si può affrontare. Hai passato 10 giorni tra le chiacchiere, le code, gli spintoni, le ascelle (altrui), le notti brevissime, le mattine nebbiose, le chiacchiere, quella tizia che è sempre in coda per la Sala Grande e non fa che urlare, i vip, i semi-vip, i giornalisti, i semi-giornalisti, , le chiacchiere, le montagne di possessori di blog.
No, l’undicesimo giorno no, vuoi solo gironzolare per il Lido e cazzeggiare: dei film della Mostraccia sei stufo marcio, e per di più la sera prima hai visto Lynch e sei satollo. Questo tanto per spiegare come mai l’ultimo giorno non sia riuscito a vedere nemmeno un film intero che sia uno. Dunque, ecco:
Si comincia la mattina con Mushishi (Bugmaster) di Otomo Katsuhiro. Un’ora (circa la metà del film) passata a sonnecchiare e sbadigliare, fino al momento in cui ho deciso di lasciare mestamente la sala. Il film avrà pure le sue colpe, ma mi assumo anche le mie: d’altra parte, è impossibile non rimanere affascinati dall’uso poetico e non invasivo degli splendidi effetti speciali digitali, e nei momenti di veglia ricordo di aver visto immagini di incredibile bellezza. Ma Akira lasciatelo dov’è.
Segue la visione di Pasolini Prossimo Nostro di Giuseppe Bertolucci. E va bene, questo l’ho visto tutto intero, ma più che di un film si tratta di un montaggio (fatto così-così) di materiali su Salò (foto di scena, interviste, backstage) come piace tanto fare al Bertolucci-jr di recente. Belle parole, per carità, ma bah.
Quijote di Mimmo Paladino è un film che Paladino ha trascinato chissà come a fare l’evento speciale a Venezia, sotto la spinta di un patrocinatore eccellente come la Regione Campania. La quale si dovrebbe solo vergognare di aver accettato e promosso un prodotto simile, vergognarsi di averci propinato questo Matthew Barney de noantri, vergognarsi di averci speso anche – si suppone – un botto di soldi. Ma ovviamente, cara Regione, caro Mimmo, questo è tutto uno scherzo: lungi da me parlare davvero di questo film visto che sono scappato a gambe levate dopo 10/12 minuti. Eh, magari poi diventava bellissimo, o semplicemente diventava cinema. Eh, chi lo sa.
Chiude la giornata, dopo le imbarazzanti e improbabili premiazioni collaterali (con perle assolute come il premio degli atei agnostici integralisti al Arevalo il quale ridendo dice "veramente la mia famiglia è molto cattolica", oppure la femminista che sale sul palco con uno scarabocchio e dice "questa è una mia scultura, ma non la assegno a nessuno perché il cazzo domina" o qualcosa del genere), è il momento di quelle ufficiali. Non commento, non posso e non voglio, perché qualsiasi giuria che dia un premio prestigioso come la Coppa Volpi a un tronco di legno con una bocca e un pene non merita nemmeno un mio commento, e perché la maggior parte delle cose premiate fanno parte di quella metà di film in Concorso che non sono riuscito a vedere. Come al solito.
Però alla ri-proiezione del Leone d’Oro Sanxia haoren (Still Life) di Jia Zhang-Ke ci sono andato eccome. Volevo vedere di persona, toccare con mano, capire bene, come questo filmino cinese apparso a sorpresa con la benedizione di San Marco Muller, e che – giuro – non aveva visto quasi nessuno dei miei conoscenti, avesse avuto le carte per battere i miei favoriti tra quelli da me visti (To, Kon, De Palma: tutti e tre film perdenti in partenza) o i favoriti di tutti gli altri (Frears, Resnais, Crialese: tutti e tre film che ho perso). In effetti il film è decisamente bello, e soprattutto molto interessante nel suo mescolare documentario (la questione della diga), finzione (i personaggi in cerca del proprio passato) e accenni stranianti (gli UFO). Ma dopo un’ora, esteticamente soddisfacente nonostante il digitalissimo, ma davvero faticosissima, me ne sono andato. Con un po’ di rimpianto: ma un film così, alla fine dell’ultima giornata del Festival, no, non si poteva affrontare.