settembre 2006

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[seduto in quel caffè]

Pensavate che Friday Prejudice vi avesse abbandonato?
Proprio quando in Italia escono due film di cotali personcine?

(no, non sto parlando di Kevin Smith)

Cambia la tua vita con un click,
ovviamente un click su Friday Prejudice. Il nuovo episodio.

(e scusate l’ora tarda)

Nuovomondo (The golden door)
di Emanuele Crialese, 2006

Basterebbe citare una scena tra tante per poter dire che Nuovomondo è per ora il miglior film italiano del 2006, ne basterebbe una sola. E invece ce ne sono moltissime, tra distacchi silenziosi di barche e porti e di uomini e muli, tra carote giganti e piogge di zecchini, tra lo scoprire che sei italiano, che l’aglio puzza, che sei pronta a tutto pur di scappare, anche verso l’ignoto.

Verso quel nuovo mondo ostile, crudele e analitico, che il tuo mondo dentro non può e non vorrebbe capire, che il tuo sguardo non può che vedere da una finestrella e non può che sognare da un piccolo anfratto del cuore, che forse è meglio immaginare ancora come un lago di latte dove nuotare e amarsi.

Un viaggio storicamente ben definito eppure senza tempo, attuale ma senza meri polemicismi, iperrealista e surrealista eppure mai presuntuoso, poetico senza superficialità, silenzioso e soffocante per via dei campi cortissimi e dei corpi che si scrutano e che si annusano, ma di una cupezza che si può ancora superare con la forza dei sogni e della speranza.

E una storia d’amore sui generis che ti si infila nel cuore come uno spillo.

Piano 17
dei Manetti Bros

Ho talmente tanto aspettato a scrivere di questo film, che a questo punto potrei anche fare un post in cui scrivo di fiori, o di urbanistica, o di musica indie, oppure di che sensazione strana dia tornare a Bologna dopo due mesi e guardarla da fuori con gli occhi di uno straniero, tanto che ti verrebbe voglia di far finta di niente, non dire niente a nessuno e fermarti qui, di nuovo, altri 6 anni. Ecco, forse questo sarebbe più interessante, per qualcuno.

Anche perché di Piano 17 non c’è molto da dire: dopo 10 minuti iniziali e di digitale brutto-ma-brutto, con una passione evidente e gradevole, i Manetti trovano miracolosamente l’approccio giusto al genere puro, e realizzano un noir molto divertente, a tratti anche teso e appassionante, azzeccando soprattutto le parti che riguardano i gangstaer e meno quelle sui "civili" (che sono più caricaturali: c’è qualcosa di paradossale in tutto questo?), e utilizzando una struttura risaputa, complicatissima ma molto sciolta, ovviamente a flashback (non per niente nella cameretta della tipina darkettona c’è il poster di Fantasmi da Marte), usando il flashback-nel-flashback e giocandoci pure autoriflessivamente (il dialogo sui "sogni, che non sono lineari ").

Ovviamente il lavoro non è del tutto riuscito, perché le svaccate non mancano (il finale finale con quella canzone fino ai titoli di coda, dopo una colonna sonora così cool, no, non si può perdonare), alcuni personaggi e dialoghi sono sbagliati in modo imbarazzante, e non si raggiunge la compiutezza dei lavori recenti, per esempio, di Soavi e Placido. Ma per aver dimostrato di non aver bisogno di troppe parole (nonostante la tentazione forte del dialogo pulpfictioniano), e per quei venti minuti pazzeschi che portano dritti al finale sanguinario, gli si perdona tutto il resto. Con parsimonia, forse. Ma di certo non meritava l’indifferenza con cui è stato accolto nelle sale.

[siamo contentini? siamo contentini]

Formiche, cavalli, tamburi, profumi, e i soliti titolisti imbecilli.
Perché domani non esce solo Nuovomondo.

Per quanto.

Su Friday Prejudice, anche questa settimana.
Clicca.

(ma non dimenticare il post precedente…)

[Ehy, Crabman]

- il blog è in attesa del post su Piano 17, secondo lungometraggio dei Manetti Bros, che a dispetto delle aspettative non è poi questa schifezza. Ne riparleremo, oggi non avevo voglia. E come potrei?

- non ci bastava la tristezza infinita per l’annunciato venturo remake di Grasso è bello (Hairspray, 1988) a firma Adam "faccio solo film del cazzo con bambini rompiscatole" Shankman: il ruolo del divino Divine sarà interpretato da John Travolta. John Waters si rotola nella sua tomba di raso rosa. (via Cineblog.it, e c’è anche la foto).

- gironzolando sull’ormai essenziale Youtube, scopro una enorme riserva di sketch tratte da Family Guy aka I Griffin, che dopo anni di apprezzamento del sottoscritto è diventato, con l’impennata di genio dell’ultima stagione, una delle cose più belle che passi al momento sulle tv nostrane. Vi segnalo qualche perla: l’ormai storica corsa wonkiana di Peter, la visita medica, la parodia di American Beauty e quella di Touched by an Angel. Roba che Matt Groening gli viene un colpo.

- grazie a Violetta, il film più atteso della prossima stagione cinematografica è inequivocabilmente Borat.

- che bello, sono arrivato secondo agli InsegnaProvvisoria BlogAwards 2006! E anche tu! Cielo, se non è un genio, quest’uomo. Eh, c’ho anche il banner. Banner, Bruce Banner.

- meanwhile, sabato mattina sono stato ospite telefonico – insieme ad amichetti come Carla C., Ataru e Violetta – dell’adorabile Daniela Lami di Mattinata in blu (esatto, non ve l’ho detto perché sono timido e vergognoso), nella puntata dedicata nientemeno che ai blog cinematografici. E sul suo blog sono stato inserito in una rosa di 10 blog che gli ascoltatori di Mattinata in blu possono votare come "blog preferito". Che dire? Che onore.

- via enver e poi via inkiostro, la canzone nostalgica che tutti aspettavamo: 90210 dei Blume. Endless loop.

- ascolti in casa Kekkoz: David & The Citizens, The Mountain Goats, Håkan Hellström, Joanna Newsom, Lisa Germano. Giusto per non citare quel gruppo là. Sì dai, quelli di Portland.

- su Seconda Visione, una conversazione veneziana con il dott. manu e Lonchaney (dopo il film di Lynch) ha dato vita a un post dalle dimensioni storico-critiche epocali: I film più dannosi degli anni ’90.

- a proposito di Venezia, per chi non fosse ancora saturo di commenti festivalieri, non posso non segnalare l’incredibile e spassosissimo post di Coma: 57 piccoli frammenti.
 
- per chi si fosse perso la deriva OT del post precedente, stavolta devo proprio dirlo: su Italia 1 non è iniziato solo l’eccellente House, ma anche My name is Earl, una delle migliori serie comedy americane della scorsa stagione. Cult dal primissimo minuto. I’m just trying to be a better person. Ma nel paese delle pupe e dei secchioni, MNIE va in onda tutti i lunedì alle 23:45. Paese strano, eh. Vedetevela.

- a proposito: sta iniziando a marcia alta la nuova stagione dei serial americani, ormai parte essenziale della nostra vita cinefiliaca. Oltre alla seconda stagione di Weeds e Prison Break (dio le benedica), iniziate ad Agosto, si incomincia a spulciare tra i primi pilot, tra cui sceglieremo i nostri beniamini. Per ora solleticano la mia curiosità (e il mio torrent client) The class, Angela’s Eyes, Heroes, Jericho, e soprattutto (chissà perché) Studio 60 on the Sunset Strip. Staremo a vedere.

- è tempo di campagna acquisti per la Cinebloggers Connection: v’è bisogno di aria nuova, e soprattutto v’è bisogno di pallette, pallette, pallette. Le semplici e democratiche regolette vogliono che i nuovi ingressi (con almeno due mesi di vita) vengano proposti da un giudice e appoggiati da altri due. Bene: qui di seguito propongo cinque blog (sarebbero potuti essere molti di più): intanto appoggiate questi, poi agli altri magari ci pensate voi.

Cineblog in attesa del vostro appoggio:
[di passaggio] di Unodipassaggio
Cinemax della "Regina Pigra" Daniela
Nessuno t’amerà mai come t’ho amata io di Noodles
ma sono vivo e non ho più paura! di gparker
Delikatessen
di BenSg.

UPDATE: abbiamo 5 nuovi giudici

The queen
di Stephen Frears, 2006

Non è facile scrivere di The queen dopo diversi giorni di lodi al Lido e dopo che più o meno tutto il mondo ne ha parlato, e sempre allo stesso modo. Soprattutto quando si è sommariamente d’accordo, seppure con qualche piccolo ma evidente grado di entusiasmo in meno rispetto ad altri: ma The queen, accolto con grande successo da critica e pubblico a Venezia, è davvero un gran bel film, caratterizzato – nonostante, per esempio, lo stridere di nervi tra questo Blair e il Blair "iracheno" – da una piacevolezza miracolosa e quasi alchemica, un divertimento cauto e sagace, difficilissimo da trovare con materiali così scivolosi, perché pur raccontando una vicenda recente, e mescolando in modo rischiosissimo la dimensione pubblica – e quindi già storica – e quella privata, non lontana inoltre da talune buffonerie british, riesce a non cadere in tranelli caricaturali.

Anzi, l’immagine della regina Elisabetta II che restituiscono l’incredibile, classy e ironico, copione di Peter Morgan (forse un po’ ruffiano nel suo accontentare tutti lasciando il sarcasmo e i veleni al contorno e al contesto – ma non è propriamente un difetto) e la regia di un elegantissimo Frears tornato (quasi) ai fasti di un tempo, riesce ad essere allo stesso tempo austero e affettuoso, in qualche modo sacrale – perché è una donna che non vediamo piangere se non di spalle, o fuori fuoco (vedi la splendida scena del cervo) – e tragico nel suo struggimento personale. Non solo merito di Helen Mirren, quindi: ma l’attrice – una tra le sessantenni più belle e sexy che io ricordi, in abiti civili – regala comunque (anche se nelle sale ci tocca sorbirci un doppiaggio professionale ma piatto, invece del posh originale) una delle interpretazioni femminili più compiute e formidabili – per equilibrio, intelligenza e abnegazione – degli ultimi tempi.

La stella che non c’è
di Gianni Amelio, 2006

Come già nel caso di Le chiavi di casa, non sarò io certo a riversare incenso profumato sul capo di Gianni Amelio, forse perché il suo cinema non mi sa conquistare (o non mi sa conquistare più?) in modo totale. Ma proprio come nel film di due anni fa, al regista calabrese è riuscito quello che è davvero un piccolo miracolo: là era raccontare una storia di disabilità senza cadere nel facile melodramma, qui era raccontare una storia ambientata in uno scontro-di-culture scegliendo un taglio intimista che ha fatto svanire ogni rischio di svaccata politica-sociale e – anche grazie al sempre ottimo Bigazzi – ogni possibilità di cinema-cartolina.

Ovvero: con pochissime armi e pochissimi mezzi, che possono essere quelli di uno sguardo, di un saluto o di una lacrima, Amelio preferisce raccontare, più che la banale storia dell’italiano stupito di fronte ad un paese come la Cina e alle sue contraddizioni (pur facendolo in parte, e in modo eccellente), la storia di un uomo di buona volontà, e di una convinzione utopica che coincide con un ultimo e ossessivo senso possibile della vita. E la storia della donna che viaggia al suo fianco. E di raccontare questo loro viaggio (da cui traspare, senza bisogno di descriverla, tutta la loro vita) con un garbo e con una leggerezza – soprattutto considerati l’attualità del discorso e dei temi messi in campo – che potrebbero essere davvero sconvolgenti per chi è abituato ai toni nefasti della televisione nostrana (altro che film per la tv), e che sanno davvero coinvolgere, al di là dell’aridità – spesso ricercata e funzionalissima – di molte scelte stilistiche.

Poi, che Castellitto sia un gigante lo sapevamo già, ma è Tai Ling, con quella semplicità, quell’immediatezza, quello sguardo impreciso e quelle pause sofferte, a bucare, a trapanare lo schermo. Davvero un peccato, negarle il premio Mastroianni.


"Un poema allo stesso tempo socialista e anarco individualista: per questo magico."
manu, Seconda Visione

[God save her. At least.]

Attenti ragazzuoli, che la stagione è iniziata davvero.

Su Friday Prejudice, questa settimana, si parla di:
regine, pirati, pakistani sfortunelli, e Harvey Keitel.

Friday Prejudice.
Back in town. Yo.

[hai lasciato piazze piene, urne vuote]

Come si può evincere dalla graziosa iconcina giallognola qui nella colonna destra, mentre il sottoscritto ignaro di tutto era a Venezia a massacrarsi le palpebre, il qui presente blogghetto è stato nominato per i Macchianera Blog Awards 2006, ovviamente nella categoria "Blog Cinematografico".

Compagnucci di categoria sono Bassoatesino, Cineblog.it, Emanuela Zini, Seconda Visione, Violetta Bellocchio e Zitti al cinema: perché qualcuno dovrebbe votare me?

Si vota fino al 16 Settembre. Se proprio volete farlo, basta cliccare sull’icona oppure qui e il signor Neri vi spiega tutto.

63ma Mostra del Cinema di Venezia
Un riepilogo

Tutti i post dalla Mostra

VENEZIA 63 – IN CONCORSO
Darren ARONOFSKY – The Fountain - Usa
Allen COULTER – Hollywoodland – Usa
Alfonso CUARÓN – Children of Men – Gran Bretagna, Usa
Brian DE PALMA – The Black Dahlia – Usa
JIA Zhang-Ke – Sanxia haoren (Still Life) – Cina
KON Satoshi – Paprika – Giappone
Joachim LAFOSSE – Nue propriété – Belgio, Lussemburgo, Francia
ÔTOMO Katsuhiro – Mushishi – Giappone
Johnnie TO – Fangzhu (Exiled) – Hong Kong, Cina
TSAI Ming-Liang – Hei yanquan (I don’t want to sleep alone) – Taiwan, Francia, Austria
Paul VERHOEVEN – Zwartboek – Paesi Bassi, Belgio, Germania, Gran Bretagna
Apichatpong WEERASETHAKUL – Sang sattawat (Syndromes And A Century) – Tailandia, Francia, Austria

VENEZIA 63 – FUORI CONCORSO
FENG Xiaogang – Yeyan (The banquet) – Cina, Hong Kong
David FRANKEL – Devil Wears Prada – Usa
David LYNCH – INLAND EMPIRE – Usa
MIYAZAKI Goro – Gedo senki (Tales from Earthsea) – Giappone

Fuori Concorso Mezzanotte
FAZLI Bayram – Baaz ham sib daari? (Have you another apple?) – Iran
KUROSAWA Kiyoshi – Sakebi (Retribution) – Giappone
RYOO Seung-wan – Jakpae (The City of Violence) – Corea del Sud

ORIZZONTI
AOYAMA Shinji – Koorogi – Giappone
HO Yuhang – Taiyang yu (Rain Dogs) – Malesia, Hong Kong
David LEAF, John SCHEINFELD – The U.S. vs. John Lennon – Usa
LIU Jie – Mabei shang de fating (Courthouse on the Horseback) – Cina
Garin NUGROHO – Opera Jawa – Indonesia, Austria
OSHII Mamoru – Tachiguishi retsuden (The amazing lives of the Fast Food Grifters) – Giappone
Mimmo PALADINO – Quijote – Italia

Eventi speciali Orizzonti

Giuseppe BERTOLUCCI – Pasolini prossimo nostro – Italia, Francia
Daniele VICARI – Il mio paese – Italia

GIORNATE DEGLI AUTORI
Faouzi BENSAIDI – WWW, What a Wonderful World – Marocco, Francia, Germarnia
Jesper GANSLANDT – Falkenberg Farewell – Svezia, Danimarca
Jean-Pascal HATTU – 7 Ans – Francia
Diego LERMAN – Mientras tanto – Argentina, Francia
Gianfranco QUATTRINI – Chicha tu madre – Perù, Argentina
Daniel SANCHEZ AREVALO – Azul oscuro casi negro – Spagna
Jorge SANCHEZ-CABEZUDO – La noche de los girasoles – Spagna, Francia, Portogallo
Christoffer BOE – Offscreen – Danimarca
Jessica WOODWORTH e Peter BROSENS – Khadak – Belgio, Germania, Olanda

SETTIMANA DELLA CRITICA
Jean-Pierre DARROUSSIN – Le pressentiment – Francia
Grzegorz LEWANDOWSKI – Hyena – Polonia
Noël MITRANI – Sur la trace d’Igor Rizzi – Canada

LA SIGLA

[un souvenir]

[giorni dell'abbandono]

No, l’ultimo giorno della
Mostra non si può affrontare. Hai passato 10 giorni tra le chiacchiere, le code, gli spintoni, le ascelle (altrui), le notti brevissime, le mattine nebbiose, le chiacchiere, quella tizia che è sempre in coda per la Sala Grande e non fa che urlare, i vip, i semi-vip, i giornalisti, i semi-giornalisti, , le chiacchiere, le montagne di possessori di blog.
No, l’undicesimo giorno no, vuoi solo gironzolare per il Lido e cazzeggiare: dei film della Mostraccia sei stufo marcio, e per di più la sera prima hai visto Lynch e sei satollo. Questo tanto per spiegare come mai l’ultimo giorno non sia riuscito a vedere nemmeno un film intero che sia uno. Dunque, ecco:

Si comincia la mattina con Mushishi (Bugmaster) di Otomo Katsuhiro. Un’ora (circa la metà del film) passata a sonnecchiare e sbadigliare, fino al momento in cui ho deciso di lasciare mestamente la sala. Il film avrà pure le sue colpe, ma mi assumo anche le mie: d’altra parte, è impossibile non rimanere affascinati dall’uso poetico e non invasivo degli splendidi effetti speciali digitali, e nei momenti di veglia ricordo di aver visto immagini di incredibile bellezza. Ma Akira lasciatelo dov’è.

Segue la visione di Pasolini Prossimo Nostro di Giuseppe Bertolucci. E va bene, questo l’ho visto tutto intero, ma più che di un film si tratta di un montaggio (fatto così-così) di materiali su Salò (foto di scena, interviste, backstage) come piace tanto fare al Bertolucci-jr di recente. Belle parole, per carità, ma bah.

Quijote di Mimmo Paladino è un film che Paladino ha trascinato chissà come a fare l’evento speciale a Venezia, sotto la spinta di un patrocinatore eccellente come la Regione Campania. La quale si dovrebbe solo vergognare di aver accettato e promosso un prodotto simile, vergognarsi di averci propinato questo Matthew Barney de noantri, vergognarsi di averci speso anche – si suppone – un botto di soldi. Ma ovviamente, cara Regione, caro Mimmo, questo è tutto uno scherzo: lungi da me parlare davvero di questo film visto che sono scappato a gambe levate dopo 10/12 minuti. Eh, magari poi diventava bellissimo, o semplicemente diventava cinema. Eh, chi lo sa.

Chiude la giornata, dopo le imbarazzanti e improbabili premiazioni collaterali (con perle assolute come il premio degli atei agnostici integralisti al Arevalo il quale ridendo dice "veramente la mia famiglia è molto cattolica", oppure la femminista che sale sul palco con uno scarabocchio e dice "questa è una mia scultura, ma non la assegno a nessuno perché il cazzo domina" o qualcosa del genere), è il momento di quelle ufficiali. Non commento, non posso e non voglio, perché qualsiasi giuria che dia un premio prestigioso come la Coppa Volpi a un tronco di legno con una bocca e un pene non merita nemmeno un mio commento, e perché la maggior parte delle cose premiate fanno parte di quella metà di film in Concorso che non sono riuscito a vedere. Come al solito.

Però alla ri-proiezione del Leone d’Oro Sanxia haoren (Still Life) di Jia Zhang-Ke ci sono andato eccome. Volevo vedere di persona, toccare con mano, capire bene, come questo filmino cinese apparso a sorpresa con la benedizione di San Marco Muller, e che – giuro – non aveva visto quasi nessuno dei miei conoscenti, avesse avuto le carte per battere i miei favoriti tra quelli da me visti (To, Kon, De Palma: tutti e tre film perdenti in partenza) o i favoriti di tutti gli altri (Frears, Resnais, Crialese: tutti e tre film che ho perso). In effetti il film è decisamente bello, e soprattutto molto interessante nel suo mescolare documentario (la questione della diga), finzione (i personaggi in cerca del proprio passato) e accenni stranianti (gli UFO). Ma dopo un’ora, esteticamente soddisfacente nonostante il digitalissimo, ma davvero faticosissima, me ne sono andato. Con un po’ di rimpianto: ma un film così, alla fine dell’ultima giornata del Festival, no, non si poteva affrontare.

INLAND EMPIRE, David Lynch 2006

INLAND EMPIRE
di David Lynch
Fuori Concorso

Il nuovo film di uno dei più grandi maestri del cinema americano, ora Leone d’Oro alla carriera, va al di là di ogni più rosea aspettativa, e soprattutto sfata le paure legate alla scelta del regista di liberarsi volutamente della questione formale girando in un digitale a tratti davvero rozzo (ma è evidente che questo è l’unico modo in cui questo film poteva essere girato): INLAND EMPIRE è il cinema di Lynch, anzi, è tutto il cinema americano, anzi, è tutto il cinema che scoppia ed esplode frantumandosi in molteplici frammenti, che vanno a ricomporre in una sorta di caos razionalizzato una storia di (lo diranno tutti, ma di più è impossibile rivelare e tantomeno raccontare) “cinema e vita, sogno e realtà, passato e presente”, in cui il set e la vita si mescolano con una tale geniale e perversa complessità da far sembrare il magnifico Mulholland Drive un’opera preparatoria. E nel finale questa tesi non sembra nemmeno più così campata in aria. Ma al di là di ogni possibile interpretazione, di quelle che abbiamo già fatto e di quelle che faremo alla prossima attesissima visione (sempre che, come si vocifera, la BIM non faccia tagliare questo film immenso, mastodontico e invendibile), INLAND EMPIRE è anche e soprattutto un’esperienza cinematografica immensa, quasi senza precedenti, che fa impallidire qualunque cosa sia potuta apparire sullo schermo in questa Mostra, non solo per una delle orette – quella centrale – più spaventose della mia vita di spettatore, ma più in generale per quel senso di angoscia che ti stringe lo stomaco, e che ti farebbe urlare o scoppiare in lacrime, che ti farebbe rimanere in quella stanza tutta la notte, con quelle donne, in quella sala dalle luci intermittenti, a danzare. Quel senso di inesplicabile inquietante gioiosa irrequietezza che si prova soltanto di fronte ai Veri Capolavori.

Il mio paese
di Daniele Vicari
Evento Speciale Orizzonti

Prendendo spunto dal documentario L’italia non è un paese povero (Joris Ivens, 1960, commissionato da Enrico Mattei), dopo due lungometraggi abbastanza apprezzati Vicari passa al documentario, attraversando l’italia da Gela a Marghera, cercando di raccontare il presente, il futuro e le contraddizioni della realtà industriale contemporanea nel nostro paese, tra il baratro dei fondi per la ricerca, il conflitto tra necessità industriali e le proteste ambientali, eccetera. Ottime intenzioni non fanno però un ottimo film: Il mio paese è purtroppo un documentario che nella continua ricerca della situazione e del montaggetto creativo, si perde in un bicchier d’acqua creando sequenze di bruttezza imbarazzante, e più in generale un senso di noia davvero penetrante. E pensare che ci sarebbe voluto così poco.

Koorogi (Crickets)
di Aoyama Shinji
Orizzonti

Il film del regista giapponese, normalmente abbonato al festival di Cannes, storia di un anziano muto, cieco e "maialone sbrodolone" (grazie al Bada per la definizione) e della sua badante, seppure non fosse tra le cose peggiori viste in questi giorni alla Mostra, mi ha fatto perdere la pazienza dopo una mezz’ora, e ho lasciato la sala. Meglio così: ho scoperto che l’ora successiva era molto divertente, se raccontata da chi aveva avuto il coraggio di rimanere tutto il tempo.

Baaz ham sib daari? (Have you another apple?)
di Bayram Fazli
Fuori concorso

Esiste un cinema iraniano d’evasione e di intrattenimento? Ovviamente sì, ma quanti hanno avuto l’occasione di vederne degli esemplari? Dato che i festival europei non si cagano più i settecento epigoni di Kiarostami, ecco che nelle sezioni mezzanottiane spuntano prodotti come il film di Fazli. Sorta di adventure desertico alla Mad Max dai risvolti comico-surreali, sicuramente allegorico – anche se interpretarla è un altro discorso – ma dal respiro purtroppo cortissimo (dopo un’oretta di smette di ridere e gli occhietti si chiudono), Have you another apple? è un divertissement che sembra un film italiano di serie B di almeno trent’anni fa, ma almeno è pieno di carrelli velocissimi, situazioni assurde e buffissime, e, in barba al cinema mediorientale più noto dalle nostre parti, di gente che corre: a piedi, in moto, in cavallo. Poco più che una curiosità, ma ci si diverte.

Nue propriété
di Joachim Lafosse
Venezia 63 – Concorso

Il film del regista belga Lafosse, rifacendosi ad una struttura basata sullo shock che ricorda Haneke (ma senza possederne l’eccellente rigore), e con una messa in scena che sembra fissare sul cavalletto l’impianto mobilista dei Dardenne (ma senza riuscire a commuovere a tal punto), racconta un dramma familiare con un ammirevole piglio realistico, semplicissimo eppure coerente, e dalla funzionalità ancora più impressionante grazie alle strepitose interpretazioni della Huppert e di entrambi i fratelli Renier sui piani lunghi. Impossibile dire di più evitando odiatissimi spoiler: ma è davvero magnifica la lunga sequenza in cui Jérémie Renier in primo piano ansima nascosto dietro un albero, mentre lontano, sullo sfondo, le macchine arrivano nel vialetto della sua casa.

Devil wears Prada
di David Frankel
Fuori concorso

Il diavolo veste Prada è un film rassicurante, perché è una di quelle commedie statunitensi in cui in ogni momento ipotizzi che cosa potrà succedere cinque minuti dopo (a volte persino mezz’ora o un’ora dopo), e ciò puntualmente accade. Ovviamente, questo non va a suo vantaggio, come non ci va la struttura trita e ritrita – ascesa caduta ascesa? emmobbasta – e il modo in cui l’una e l’altra parte in causa, l’alta moda e gli "amici veri" vengono ritratti, da principio con la fintissima malignità del titolo mentre alla fine – come da copione – viene data una possibilità, e un’anima, a tutti. Il diavolo, si dice, non è così brutto come lo si dipinge. Al di là di tutto ciò, e di altro che non sto a dire, che rende il film relativamente abbietto sotto il profilo morale (e poi, personalmente, gli "amici veri" li avrei massacrati di botte), quest’opera lieve lieve e confezionata alla perfezione per il boom di botteghino è risollevata – e non poco – da una scrittura molto fresca, da alcune perle di dialogo ("I love my job, I love my job"), e soprattutto da un cast favoloso: inchini pubblici e ovazioni per Emily Blunt e Stanley Tucci.

Hiena
di Grzegorz Lewandowski
Settimana della critica

Un horror polacco alla Settimana della Critica? Eh, sì. Purtroppo, sì. Il film di Lewandowski inizia pure bene, alternando il fascino infantile dello storytelling alla grigia e deprimente realtà da cui si vuole fuggire (mai sentita questa?), ma esaurisce il suo potenziale dopo una decina o una quindicina di minuti al massimo. Da lì in poi, gli tocca ripetersi fino alla nausea. La storia e il tono si rifanno alle favole tradizionali e all’horror occidentale, ma invece di riproporne la linearità si confonde tutto con una trama ellittica: tra immaginazione, paranoie, e provocazioni narrative fini a se stesse, non si capisce un’acca. A meno di concentrarsi bene, ma via, chi ce lo fa fare?

Però: ex-aequo con la geniale scena della ciotola di Kurosawa, la scena del caffé vince il premio come "miglior trasalimento horrorifico collettivo" di Venezia 63.

Mabei shang de fating (Courthouse on the horseback)
di Liu Jie
Orizzonti

Si sa, quando un film della Cina continentale non mi fa cadere le braccia già sono contento: in questo caso, visto che il film pur essendo ambientato nelle montagne periferiche (e quindi a odore-fuffa festivaliera) è leggero e piacevolissimo, a tratti persino divertente anche se sempre triste e malinconico, esco dalla sala davvero contento. Un film che vuole parlare di molte cose, del passare del tempo, del progresso e della storia, dell’impossibilità di amare e della morte, ma lo fa con grande delicatezza e pudore.