settembre 2006

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Fangzhu (Exiled)
di Johnnie To
Venezia 63 – Concorso

La prima volta del regista hongkonghese in concorso a Venezia, sorta di sequel del leggendario The Mission, è anche uno dei film più belli di questa Mostra: una rappresentazione esaltante dello scheletro puro, dell’ossatura del cinema di Johnnie To. Grandissimi attori, nessuno escluso, tra cui un Anothy Wong semi-rasato; un’ironia diffusa, come quando prende in giro la sua fissazione con il caso; una manciata di sequenze che escono dallo schermo per immergersi direttamente nel culto: l’inizio leoniano, l’incredibile inquadratura finale, sparatorie che coinvolgono porte, tende e una lattina di redbull. Un grandissimo film, nella composizione, nel montaggio, nei dettagli, che siano un rivolo di sangue o una croce su una moneta. Emozionante ed essenziale: uno dei migliori To degli ultimi anni, uno dei migliori To di sempre.

Esco dalla sala saltando come un grillo e urlando "leone d’oro leone d’oro", e incontro il cast, tutti ma proprio tutti, intenti a farsi intervistare. Sì, ho una foto con Anthony Wong. E non solo.

Taiyang yu (Rain dogs)
di Ho Yuhang
Orizzonti

Mancava tanto così perché fosse anche decente, il piccolo film di Ho: e invece è solo onesto. Perché non ha la capacità nemmeno più elementare di catturare l’attenzione del pubblico, lasciando fuoricampo le poche cose interessanti, e suscitando interesse solo quando sbatte in colonna sonora nel modo più facilone Motherless child. A questo punto, poteva farlo più spesso, perché per il resto si sonnecchia e ci si dice sottovoce "speriamo finisca in fretta che voglio un caffé". Assolutamente insignificante.

Tachiguishi retsuden (The amazing lives of the fast food grifters)
di Mamoru Oshii
Orizzonti

Se penso alle faticosissime corse che ho fatto stamattina per arrivare in tempo per la sala, non mi capacito. Entro a film iniziato (cosa che non faccio mai, ma a Venezia si fa di necessità virtù) e mi trovo davanti l’intro di un film potenzialmente interessante. Peccato che questa intro duri un’ora e quarantacinque. Incredibile che il regista dei Ghost in the shell abbia fatto una roba simile: animazioni bidimensionali pupazzesche tipo primo-Gilliam in un mockumentary che racconta il Giappone del dopoguerra attraverso le figure di "scroccatori di fast-food". Ma scherziamo? Magari: se il film fosse davvero un lungo scherzo, forse ci sarebbe stato da divertirsi, anche se comunque senza entusiasmi. Invece Oshii, sotto i suoi nonsense che non fanno ridere (tranne qualche sparuto caso, le risate si risparmiano, eccome), si prende estremamente sul serio, e ci crede, ci crede fino in fondo. Vallo a capire. La narrazione monotonissima chiude il quadro di un film inspiegabile, mortalmente noioso, e su cui vorrei passar sopra come ad una curiosità morbosetta, in attesa del prossimo grande film.

Opera Jawa
di Garin Nugrowo
Orizzonti

La "dormitina" è un classico della Mostra, ma per ora avevo resistito anche al peggio. Non ce l’ho fatta con questo "musical" indonesiano tra virgolette. Dopo qualche minuto di questi lamenti mantra, immagini patinate e cesti di vimini a forma di cialda, sono crollato tra le braccia di Morfeo. Mi sono risvegliato mentre un uomo infilava la testa sotto la gonna di una tipa, e lì ho detto "no" e sono uscito dal cinema, lamentandomi pure io, già che c’ero. Magari era bellissimo, chi lo sa. Mmh, no. Chiedo venia ai puristi.

Children of men
di Alfonso Cuaron
Venezia 63 – Concorso

Nonostante da queste parti sia stato (non da tutti, eh, ma da molti) massacrato, sia dalla critica che nelle abituali conversazioni del Lido, il film di Cuaron, che racconta una distopia abbastanza tipica – un mondo allo sfascio a causa della fine della fertilità – con un taglio visivo che nasconde gli effetti speciali di montaggio al di sotto di un uso quasi esclusivo di camera a mano e infiniti, spettacolari, a volte inimmaginabili piani-sequenza, è un prodotto di grande intrattenimento, forte e compiuto. E non solo: evitando di parlare solo di terrorismo, argomento ben più modaiolo e che qui si sarebbe incastrato alla perfezione (vedi la terrificante sequenza iniziale), preferisce concentrarsi sui rischi del panico collettivo nei confronti del diverso e dell’alieno, sulla xenofobia di massa, sul degrado delle politiche di immigrazione sui "centri di accoglienza", rappresentando una "Guantanamo del futuro" che mette davvero paura. Children of men non piacerà a tutti nemmeno quando sbarcherà su "altri lidi", forse perché si appropria di elementi da cinema d’autore nella realizzazione di un film che – nonostante la cupa ambientazione londinese – più mainstream non si può (anche se più duro del solito, vedi la fine che fanno la maggior parte dei personaggi, o il modo in cui vengono ritratti sia i "potenti" che i "resistenti"), o forse perché si fa tentare da qualche innocua banalità (il personaggio del meraviglioso Michael Caine è il solito ex sessantottino che si fa le canne, il rasta nevrotico non ne parliamo), ma resta comunque un film tanto furbo quanto bello, e grazie alla formidabile performance tecnica di Cuaron (già citata, ma in questo caso potremmo non parlare d’altro per ore) è uno dei più emozionanti visti in questi giorni al Lido.

[un millesimo post]

Per questi due anni e otto mesi, e per questi mille post,

GRAZIE A TUTTI

WWW, What a Wonderful World
Di Faouzi Bensaidi
Giornate degli autori

Seppure i pochissimi film veramente belli e davvero degni di questa Mostra per ora appartengano alle sezioni principali, le GDA si riservano quelli più curiosi e sorprendenti. Come WWW, che a dispetto di un titolo orrendo, è un’operetta marocchina davvero ben girata e fotografata, molto grafica (pure troppo grafica, a tratti), eclettica e variegata, e tanto naif da far tenerezza. Balletti di macchine e di voci, amori telefonici e cortei che invadono la città deserta, un finale tragico e improvviso: un filmetto da niente, ma potenzialmente adorabile.

The fountain
di Darren Aronofsky
Venezia 63 – Concorso

Si può dire "puttanata"? Facciamo di no, per ora, facciamo le persone serie. The Fountain è Highlander girato da un Mel Gibson rincoglionito dai sedativi. Aronofsky è come un ingegnere a cui viene dato il budget per costruire un ponte, e si presenta anni dopo dai committenti con una casetta costruita con il Lego, e appena la poggia sulla scrivania crolla. Usciti dal film, è difficile pensare che sia stato mai realizzato un film più brutto, a memoria d’uomo. Almeno, a me non viene in mente niente. Un’ora e mezza di mescolotto misticista, primissimi piani, reiterazioni per arrivare all’ora e mezza di cui sopra, e una parte finale che, forse in onore al direttore della mostra, è la copia spiccicata di una pubblicità dello yoghurt Muller. Un film vergognosamente brutto. Anzi, che dico, una colossale, galattica puttanata.

Hei yangquan (I don’t want to sleep alone)
di Tsai Ming-Liang
Venezia 63 – Concorso

Una cosa è certa: in questa Mostra si discute un sacco, e si discute prima e dopo le proiezioni. Esempio limite, l’ultimo film del grande Tsai Ming-Liang, che a molti "tsaiani" non piacerà, figuriamoci agli altri. Ma poi, sotto sotto, il disaccordo trova dei chiari compromessi: la nuova opera del regista, per la prima volta in Malesia, è sì il suo film più difficile e quello in cui abbandona definitivamente la graficità di alcune sue opere e la cinefilia di altre (e quindi la compiacenza di un pubblico meno avvezzo alle sue lentezze), nel diventare l’affresco oscuro e affascinante di una città e di un’umanità – ancora – in preda ad un’assenza di parola, ad una ricerca imperterrita del corpo, di forme d’amore, di famiglia, di quiete, mentre il fumo delle foreste invade le case e le gole, rendendo impossibile anche l’atto più semplice, parlare, scopare, respirare, amare. Tsai ci costringe, ancora una volta, a guardare, e riguardare, e guardare ancora, in un circuito quasi pornografico che ben conosciamo, i suoi corpi silenziosi, prima con ironia e poi con angoscia, e infine – ancora una volta, e più di sempre – con speranza. Un bellissimo film, forse – anzi, più che forse – di transizione, ma capace, con le sue inquadrature fisse e tipicamente sviluppate più in profondità che in ampiezza, di una potenza visiva spesso ipnotica.

Sur la trace d’Igor Rizzi
di Noel Mitrani
Settimana della critica

E’ facile fare nomi nel caso del film di Mitrani, e fanno tutti gli stessi: Coen, Kaurismaki, eccetera. Non del tutto a torto: la neve quebechiana che illumina di bianco questo quieto thriller canadese non può ricordare, anche per l’ironia sparsa e per l’inquietudine mista a leggerezza, quella di Fargo. Ma Mitrani non è stupido, e sa vivere di vita propria, nonostante rischi di rovinare tutto ma proprio tutto con la scelta di raccontare il passato del protagonista con un’onnipresente voce off. Niente di eccezionale, ma a modo suo potrebbe diventare un piccolo caso.

La noche de los girasoles
Jorge Sanzhez Cabezudo
Giornate degli autori

Un’opera prima, un film spagnolo, un film corale: sono cose che fan paura. Ma Cabezudo stupisce positivamente: con un bel cast di facce note e meno note, e utilizzando una struttura abusata ma sempre affascinante come quella dei "capitoli" (che iniziano prima della fine del capitolo precedente, permettendo di tener vivo l’interesse sullo spettatore sulla successione di domanda e risposta), racconta una storia bella e triste, semplice ma pregnante, e soprattutto nerissima, senza vincitori né alcuna speranza, sull’irreparabile declino del senso della giustizia nel mondo. Peccato per la resa visiva sacrificata e per la durata un po’ eccessiva, ma comunque abbondantemente promosso.

Sakebi (Retribution)
di Kurosawa Kiyoshi
Fuori concorso

Rischia di non piacere a nessuno, la "puntatina" di Kurosawa nel ciclo produttivo dei J-Horror Theatre. Ma anche se non ci troviamo di fronte ai suoi capolavori come Kairo o Charisma, in un tempo in cui si credeva che nessun j-horror ci avrebbe più soddisfatto, il grandissimo Kurosawa gira un film intelligente e pauroso. Lo fa magari riducendo i suoi stilemi, i suoi piani (e campi) infiniti, e abbassando le pretese metafisiche: ma il suo tocco si sente comunque, sia quando mostra di essere ancora un regista magistrale anche nelle situazioni più ritrite, sia quando è gustosamente e inusualmente scorretto (l’urlo perforante del fantasma), sia quando mostra ancora, dopo Doppelganger, sprazzi di ironica follia (il tuffo nella ciotola), che però non ci dispiacciono affatto.

Yeyan (The banquet)
di Feng Xiaogang
Fuori concorso

Che Feng non fosse un regista eccezionale, che fosse uno buono giusto per le masse inerti del nuovo pubblico cinese, lo sapevamo. Ma The banquet è il tipico film di un regista commerciale che cerca di fare l’autore a tutti i costi. Se pensavate che Hero fosse vacuo ed estetizzante, resterete a bocca aperta di fronte a questo pallosissimo Amleto mandarino con una fuoriparte Zhang Ziyi in versione perfida, in cui quando non si combatte al ralenti (e maluccio, nonostante Yuen Woo-Ping), si cammina al ralenti, si parla al ralenti. Un film al ralenti. Tremendo e massacrante, dura pure 130 minuti: io sono uscito dopo un centinaio e mi sono pure chiesto perché diavolo abbia aspettato tanto a levare le tende.

Gedo Senki (Tales from Earthsea)
di Miyazaki Goro
Fuori concorso

E’ ufficiale: il genio non si trasmette per via ereditaria. Il primo film del figlio di Miyazaki, pur essendo una produzione Ghibli e nonostante il successo in patria, è un’esperienza assolutamente da dimenticare, e da non ripetere. Goro fa di tutto per sembrare il padre in ogni singola inquadratura, ma non c’è un briciolo, nemmeno un briciolo di poesia in tutto il film. Oltre a ciò, l’animazione è molti passi indietro rispetto agli standard attuali della 2D nipponica, e non solo. Un film noiosissimo, e imperdonabilmente brutto.

Paprika
di Kon Satoshi
Venezia 63 – Concorso

Il nuovo film del regista di Tokyo Godfathers è una cavalcata irresistibile, inesauribile e coloratissima tra sogno e realtà, tra cortei di pupazzi danzanti e il rimpianto di un’adolescenza perduta. Un amico l’ha definito "il capolavoro sbagliato di un genio": una definizione azzeccatissima, perché Paprika è tanto rutilante, esagitato, senza freni e senza tregua nella realizzazione, tanto enorme nel suo avvenirismo, e tanto esplicito nella magniloquenza con cui affronta l’opposizione sogno/realtà applicata alla guerra tra tecnologia e senso del sacro, da non poter essere (o sembrare) irrisolto. Eppure è magnifico, affascinante, bellissimo, e sarà sicuramente tra i migliori film che vedremo in tutta questa questa mostra. No, non si può non amare un film così.

Offscreen
di Christoffer Boe
Giornate degli autori

Il secondo film delle GDA all’interno di una giornata sfortunatissima – come spiegato nel post precedente – è invece una delle opere migliori e sicuramente tra le più originali viste in questi giorni. La trama è semplice: Boe presta un telecamera ad un suo attore (che interpreta se stesso con una bravura e un’ironia fuori da ogni possibile spiegazione), che ne viene rapito fino alle estreme (e violente) conseguenze. Offscreen ha diviso subito, e dividerà ancora, senza possibili mezze misure. Tra chi l’ha trovato una specie di Dogma fuori tempo, spocchioso e gratuito, e chi, come me, l’ha trovato un nuovissimo e potentissimo tassello di quel metacinema che autoalimentandosi e giocando con le sue stesse perversioni sa torcere il fegato agli spettatori, e senza lasciare nemmeno un briciolo di speranza tra le maglie di quest’ossessione amorosa che diventa gradualmente e horrorificamente ossessione scopofila. Bomba.

Mientras tanto
di Diego Lerman
Giornate degli autori

Anche qui non si parla solo del film. Si avverte, eh.

Paradossi della Mostra di Venezia: tu, pirla con l’accredito verde, un giorno ti vedi 6 film e un altro giorno solo 2. E ti ci impegni, a vederne più di 2, ma non ci sono cazzi. E così, per il litigio continuo con le maschere della Sala Grande, ti perdi il film di Frears e il film di Resnais. La rotazione testicolare è al massimo, e ammetto un po’ di colpa per l’impossibilità di svegliarmi stamane a un’ora decente. Comunque.

Ti rifugi in una sala qualunque, solite accessibilissime GDA: ma il film di Lerman è peggio di quello che speravi, peggio che sbagliato, una specie di film corale con tutti i crismi del caso, con la solita struttura collettiva basata su incroci e incastri che però non funzionano quasi mai, e tantomeno sollevano il nostro interesse. Un film grigio e deprimentissimo che ti conviene dimenticare in fretta. E così è.

The city of violence, Ryu Seung-wan

Jakpae (The city of violence)
di Ryoo Seung-wan
Fuori concorso

Una delle più attese proiezioni di mezzanotte della mostra, e non solo perché The city of violence è l’unico film coreano, ma perché è il nuovo film di un regista che si è mostrato – nei suoi film precedenti No blood no tears, Arahan e il bellissimo Crying Fist – autore eclettico, versatile e intelligente. Qui, come si vociferava già da tempo, realizza un film costruito e basato quasi esclusivamente sulle botte. Indendiamoci, botte girate con una tecnica impareggiabile ed esaltante, e con un montaggio creativo e irresistibile: ma già è difficile fare un film simile senza essere tacciati di vacuità o di post-tarantinismo (uffa), figuriamoci fare un buon film. Invece Ryu, con una storia che sembra uscita da un John Woo d’annata (amicizia virile, tradimento, malinconia, vendetta) e soprattutto grazie a uno stile che si rifà allo yakuza-eiga di strada di Fukasaku (le inquadrature, la patina, le musiche) omaggiandolo quasi esplicitamente, fa persino di più. Fa un film divertentissimo, giocoso e tragico al tempo stesso, prevedibile ma senza la pretesa di non esserlo. E con una sequenza che si merita il premio di scena pop-cult del periodo (applausi a scena aperta: e chi se l’aspettava?): i due protagonisti che si imbattono in quattro bande di ragazzini violenti, conciati da giocatori di baseball e di hockey, da breakdancer, e da ragazzine liceali in divisa. Ludibrio.

Momento emotion, dopo la proiezione mi sono fatto la mia tipica foto VIP con Ryu Seung-Wan. In sala c’era anche Park Chan-wook, visibilmente divertito ma con una faccia tipo sono-in-borghese-lasciatemi-stare. Però, era possibile farsi sfuggire una foto anche con lui? No, non era possibile. Tremavo. Evviva.

Zwartboek
di Paul Verhoeven
Venezia 63 – Concorso

Ieri sera, in coda per questo film, il dott Murda ed io abbiamo avuto un breve e amichevole alterco sulla figura di Verhoeven. Errore nostro di arroganza, non concepiamo che film essenziali per la crescita di un genere come Robocop e Starship troopers siano tacciati di essere "trashate" o "cazzate". Però questo è un film con i nazisti, e non ci sono robottoni, e non ci sono neanche i mediocri intrighi e Basic Instinct o i b-errori come l’ultimo innominabile film del regista olandese, e c’entra poco anche con i primordi della sua carriera. Quindi bisogna pulire la lavagna e ricominciare da capo. Se l’esperienza americana ha insegnato a Verhoeven a gestire bene ritmi e formule del racconto classico (a partire della struttura del macro-flashback), quello che ne esce è però poco più che un film classico. Un drammone storico come tanti altri, molto pomposo e forse più violento ed esplicito della media, ma tutto sommato, per larga parte, un film con i nazisti. Da segnalare però come questo sia uno dei pochi film mainstream che io ricordi in cui la liberazione (dell’Olanda, ma credo che il discorso si possa estendere anche ad altri paesi occupati da Hitler) viene ritratta anche nelle pieghe più oscure e brutali. E per mostrare l’autorizzazione ufficiale di un plotone d’esecuzione nazista a guerra finita, o una doccia di escrementi umani mentre la gente in strada festeggia e sventola bandiere, ci vuole una bella dose di coraggio. Così come per mostrare un nazista buono (attenzione, non un nazista pentito) e la storia d’amore tra quest’ultimo e una giovane ebrea bella e perseguitata. Che sopravvive (storia vera) grazie ad una fortunona gastonica, e che ha il corpo e il volto terribilmente ipnotici di Carice Va Houten, bellissima e bravissima: la scena in cui urla tra lacrime e tremiti "quando finirà tutto questo?" mette la pelle d’oca. L’inquietudine e l’emozione insomma non manca, ma la valutazione rimbalza, da parte mia, da un apprezzamento un po’ soffocato a una totale assenza di entusiasmo.

Azul oscuro casi negro
di Daniel Sanchez Arevalo
Giornate degli autori

Entrando in sala, uno degli organizzatori delle GDA ci fa: "questo è il C.R.A.Z.Y. di quest’anno". E non aveva torto: esattamente come il film di Vallée, anche quello di Arevalo è un film generazionale terribilmente gradevole e, onestamente, a rischio ruffianeria, non senza certe esternazioni melò tipicamente spagnole. Ma evita di cascare (a meno che non ci siamo cascati noi) in errori fatti da altri film simili, anche in Italia, con qualche marcia in più: grazie ad una sceneggiatura freschissima, ad un cast di giovani talentuosi, a temi non originalissimi ma difficili da esprimere senza risultare facilotti, il film di Arevalo è piacevole, divertente e commovente. Personalmente mi ha tirato due o tre mazzate nelle gambe, in quanto ad immedesimazione, e due lacrimucce l’ho versate. Via, forse l’ho gradito oltre i suoi effettivi meriti, ma è un film che mi piacerebbe rivedere. E che rivedremo.