settembre 2006

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Le pressentiment
di Jean-Pierre Darrousin
Settimana della critica

La SIC apre i battenti ufficiali con l’opera prima di un volto noto del cinema francese. Il passaggio di consegne non porta sempre a risultati eccellenti, e Darrousin è sicuramente preoccupato più della costruzione dei personaggi e della (eccellente) recitazione, che di quella della scena. Ma poco male: il suo Le pressentiment non solo è un film fondamentalmente riuscito, e godibile anche per chi non gradisce questo cinema (ancora) così europeista, ma ha diversi pregi non indifferenti. Prima di tutto, l’ambientazione periferica. Secondo, la capacità di non utilizzare la struttura onirica del flash-forward in modo gratuito ma assolutamente in funzione del progetto filmico. Terzo, la sottile ironia sorniona della sua performance, capace di far sorridere ed esprimere il suo messaggio solo con uno sguardo. Quarto (e forse nemmeno ultimo), la capacità di scavo all’interno di un personaggio che cerca di convivere tra le "buone intenzioni" – che spesso non coincidono con il bene assoluto, si riflette – nei confronti del mondo e della gente, e l’innata ipocrisia sociale (sia nei "quartieri alti" da cui fugge che nei "quartieri bassi" in cui si ritrova) di quest’ultima. Con una visione non banale della morte, e un’occhio rivolto ad un’ultima speranza di innocenza, un’innocenza che balla saltellando sul letto, con le cuffie nelle orecchie.

Syndromes and a century, Apichatpong Weerasethakul 2006

Sang sattawat (Syndromes and a century)
di Apichatpong Weerasethakul
Venezia 63 – Concorso

Il nuovo film del regista di Tropical Malady (da me mai visto, ma solo per pigrizia: per chi lo conosce è forse inutile parlare dei ritmi – in confronto a cui Tsai Ming-Liang sembra Michael Bay) è un oggetto abbastanza bizzarro: dopo una cinquantina di minuti ambientati in una clinica della campagna thailandese, in cui si crea la base per un film, peraltro sottilissima ma molto ironica e con diverse trovate divertenti, gli stessi personaggi e situazioni simili vengono riproposti nel contesto di un moderno ospedale cittadino. Dove, ovviamente, i dottori non hanno quello stesso rapporto con le persone, e non c’è comunicazione, e c’è la tv, i telefonini, e l’alcol, e non ci sono le palme, e una volta qui era tutta campagna, e non ci sono più le mezze stagioni. “Antonionismo da esportazione”, dice ridendo il socio accanto a me. Sante parole? Gran finale d’aerobica in un parco cittadino: una sintesi? Esperimento curioso, se vogliamo, ma se il messaggio è davvero quello de Il topo di campagna e il topo di città, permettetemi, mi sento un po’ preso in giro.

Chicha tu madre
di Gianfranco Quattrini
Giornate degli autori

Dopo 20 minuti di film sudamericano così cheap, uno, per forza, si chiede se dare una chance ai restanti 70 minuti, oppure se guadagnare 70 minuti di sonno. Indovinate cosa ho scelto.

Hollywoodland
di Allen Coulter
Venezia 63 – Concorso

Allen Coulter ha fatto il regista per una quantità sterminata di serie tv: e ci rimanesse, magari. Il suo Hollywoodland non solo perde il confronto con l’altro film visto nello stesso giorno e ambientato nello stesso periodo e persino nello stesso quartiere (ovviamente The Black Dahlia) ma è proprio bruttarello. Oppure inutile, insulso, atroce: fate voi. L’unico vero mystery è come questo filmetto da pomeriggio di Canale 5 sia finito in concorso a Venezia. Adrien Brody è da prendere semplicemente a schiaffoni, fortissimi schiaffoni. Ben Affleck almeno si impegna: il che, è chiaro, non significa che ce la faccia.

Khadak
di Peter Brosens e Jessica Woodworth
Giornate degli autori

Girato da due documentaristi in Mongolia, Khadak è un film che potrebbe attirare automaticamente le simpatie di molti: una specie di storia fictionale (con accenni soprannaturali) inserita in un apparato visivo che appartiene al miglior documentario (eccellente fotografia in primis). Peccato che il film di Brosens e la Woodworth sia poco più che un film "equo e solidale" (come lo definirebbero quelli di Seconda Visione), roba da far brillare gli occhi a qualche cinefilo esoticista. In definitiva una fregatura, e per di più abbastanza noiosa. Forse non del tutto fuffa-festivaliera, però, merito di una lunga pluri-sequenza lynchana verso il finale, in cui il protagonista sfida le leggi spaziotemporali e si ritrova in una stanza minimalista dove un gruppo di giovani suona un irresistibile prog mongolo. Peccato che il film si chiuda con quella che è una vera kimkidukata, d’accatto e abbastanza spregevole.

Falkenberg Farewell
di Jesper Ganslandt
Giornate degli autori

Non che sia il massimo della leggerezza, il film del giovane Ganslandt: racconta di un gruppo di giovani svedesi, della loro ignavia, del loro far nulla quotidiano, sornione e disilluso, della loro disperazione, di un suicidio. Il tutto alternando le immagini di un’estate, quasi-dogma ma tendenzialmente impressioniste e comunque capaci di attimi di incredibile lirismo visivo, alle pagine di diario di uno di loro, orientato versa una scelta senza ritorno. Il film è imperfetto e ingenuo nel suo tentativo di essere malickiano, ma è innegabile che lasci un segno profondo: si provino, in Italia, a fare un film sui giovani così doloroso, e insieme così semplice e immediato, su una generazione senza più un futuro che non siano le chiacchiere di convenienza in un bar per rompere l’orrore del silenzio, e della morte che si avvicina. Davvero bello.