ottobre 2006

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[tonite, I do feel like Borat]

Tra una manciata di ore lascerò questo paese per qualche giorno, per una destinazione che è da ritenersi top secret e/o sconosciuta. Consideratemi irreperibile fino al prossimo 4 Novembre, anche se probabilmente avrò qualche occasione di controllare la email e da queste parti – anche solo per vedere se non sta andando tutto a fuoco.
Al mio ritorno, probabili svolte epocali.

[quindi suppongo anche che Friday Prejudice la settimana prossima andrà in onda con due giorni di ritardo]

Tutto qui. Ma devo aggiungere un’ultima cosa.
Non lo faccio mai, ma stasera avevo intenzione di tornare dal cinema e scriverne subito, a caldo. Beh, proprio non ci riesco. Ho visto The Departed e non so che dire. Sono. Senza. Parole. Credo che, per ora, il mio voto su Cinebloggers Connection valga più di molte di esse.

[intanto qui sotto c'è il mio post su Clerks II e so che molti di voi hanno già in mano pomodori marci, e non vi biasimo del tutto]

A presto, sempre schiavo vostro.

Clerks II
di Kevin Smith, 2006

"Those fuckin’ hobbit movies were boring as hell. All it was, was a bunch of people walking, three movies of people walking to a fucking volcano."

Raccontando di nuovo le vicende di Dante Hicks, 12 anni dopo Clerks, Smith si concede pure qualche piacevole variante (il quasi-melodramma – che però viene dritto dritto da Chasing Amy – o il balletto demenziale sui Jackson 5), ma alla fine torna sempre lì, a quel piccolo cinema innocuamente idiota che ha tirato su dal nulla della sua vitaccia provinciale. A Jay che imita Buffalo Bill del Silenzio degli Innocenti, alle sparate di Randal su Star Wars e sugli "ass to mouth", alle comparsate degli amici (Jason Lee e Ben Affleck). Sapevamo che era così, e volevamo proprio odiarlo, Clerks 2: e invece perché Kevin Smith non ci è mai stato simpatico come ora?

Clerks 2 è un film fatto tra amici per gli amici. Il che lo renderebbe approssimativamente insopportabile. La cosa che non lo rende insopportabile (anzi) è che, tra questi amici, ci siamo pure noi. Tutto sommato è poco più che un filmettino buffoncello, una cazzabubbola attaccata con lo sputo e altri liquidi corporei. Ma tra le solite goliardate citazioniste, le ruffianate musicali (come la terna diabolica sfornata nel finale: 1979, Alanis e Soul Asylum – chi come me è cresciuto negli anni 90 non può non alzare le orecchie), e gli espliciti moralismi tipici del cinema di Smith (tenendo sempre conto che la "risoluzione narrativa" si svolge di fronte ad una session di "inter-species erotica", il che è apprezzabile), Clerks 2 è il miglior sequel possibile di Clerks, ti fa sganasciare dalle risate, e ti dà tante pacche sulla spalla, come un buon amico.

E come un buon amico ti tratta con rispetto e non ti prende in giro, e con un pizzico di ben accostata malinconia ti dà esattamente quello che cercavi e che (di)speravi ci fosse ancora. E forse qualcosa, "qualcosina" di più.

nota: da vedere assolutamente in lingua originale. Ecco, piuttosto attendete il dvd. Un esempio qui di seguito.

Randal – Why haven’t you fucked Myra yet?
Elias – Well we can’t because of Pillow Pants.
Randal – What the fuck’s Pillow Pants?
Elias – Pillow Pants is a little troll that lives in her pussy. Pillow Pants is her pussy troll?
Randal – [...]
Elias – Duh. You know how every girl’s parents put a pussy troll in them when the girls are young, to keep them from having premarital sex?
Randal – Sure.
Elias – Well Myra’s is named Pillow Pants. And so even though she totally wants to have sex with me, Myra says that if I put my… thing in her, Pillow Pants will bite it off. So, I gotta wait until Pillow Pants get peed out of her body on her 21st birthday before we can have sex.
Randal – And Myra told you this?
Elias – Boyfriends and girlfriends talk to each other about sex stuff Randal. You’d know this if you ever had a girlfriend.
Randal – Have you and Myra even kissed yet?
Elias – We would have if it weren’t for Listerfiend.
Randal – Listerfiend is her mouth troll, isn’t it?
Elias – Women.

Thank you for smoking
di Jason Reiman, 2005

"Michael Jordan plays ball. Charles Manson kills people. I talk. Everyone has a talent."

Niente male come esordio, quello del figlio di Ivan Reitman: scritto in modo perfetto (dal regista stesso) e retto interamente sulle spalle del bravissimo Aaron Eckhart (ma non sono da meno comprimari come Maria Bello, Robert Duvall e un incredibile Rob Lowe ), Thank you for smoking non sarà forse un’eccellenza nel campo della "commedia acida", ma fa sicuramente centro.

L’idea chiave del successo del film è un rimescolamento dell’ottica morale: ovvero, invece di colpire come al solito la sola industria del tabacco, colpisce a destra e – soprattutto – a manca, e attacca – senza troppi peli sulla lingua e con battute irresistibili – tutta l’ipocrisia del mondo politico e di quello dello spettacolo riguardo al fumo. E si concentra su un personaggio che, per quanto sia disgustoso, è l’unico nel film a possedere una sorta di coerenza morale. Quindi: nessun giro di boa, nessun ripensamento, nessuna redenzione. Evviva.

Insomma, nel suo piccolo e con qualche caduta di ritmo (nella seconda parte – la prima è scoppiettante) e di stile (quando indugia nel videoclippico), Thank you for smoking ribalta una condizione vigente e dominante, sia eticamente che narrativamente. Cosa chiedere di più? A noi italiani, che siamo pur sempre "gli europei che fumano nei film", la cosa può scivolare addosso (un po’ come il film, piacevolissimo ma senza standing ovation) ma nell’ottica hollywoodiana la trovata è più uncorrect di quanto si possa immaginare.

[o no?]

Zio Martin. E non ce n’è più per nessuno.

Su Friday Prejudice, anche questa settimana,
bene e male, babeli e fascisci, serbi e russi, amori, vizi e baci.

Friday Prejudice. Un nuovo infernale episodio.

UPDATE: sono tornati su prejudice i link ai trailer e ai siti ufficiali

A scanner darkly – Un oscuro scrutare (A scanner darkly)
di Richard Linklater, 2006

"What if they come in through the back door or the bathroom window like that infamous Beatles song?"

Operazione a rischio, quella di Linklater: perché azzardarsi a ripetere per una seconda volta l’esperimento del rotoscope, dopo il parziale insuccesso dell’interessante ma bruttarello Waking life? Invece, proprio nelle righe di Philip K. Dick, dal cui omonimo e bizzarro libro il film è tratto, il regista texano trova qualcosa di più che una semplice giustificazione per la sua piccola mania.

E non solo perché non si poteva immaginare un modo migliore per rappresentare l’irrappresentabile "tuta deindividualizzante", ma perché la tecnica permette questa volta un’immersione perfetta nel mondo dickiano, in cui la visione e la mutazione (lisergica, onirica o tecnologica che sia) condivide le stesse condizioni ontologiche della realtà, che a sua volta viene privata dei suoi caratteri "reali" per diventare anch’essa visione.

Certo, Linklater non ha proprio la mano leggerissima, e si vede soprattutto nella verbosità e nella logorrea che permeano il film, e che lo caratterizzano prima di ogni altra cosa, ancor prima che la tecnica d’animazione con cui è stato prodotto. Ma il problema (non da poco, visto i messaggi erronei con cui il film viene proposto ad un pubblico che rischia di sbadigliare) è spesso – non sempre – risolto da dialoghi e attori incredibilmente spassosi: per esempio, la lunga sequenza del biglietto sulla porta, o il dialogo sulla bicicletta.

E anche se le tre ottime spalle di Keanu Reeves (Robert Downey Jr., Woody Harrelson e soprattutto Rory Cochrane) non fanno che ripetere a papera con la loro performance lo sbilanciato e irresistibile overstatement di Depp e Del Toro in Paura e Delirio, e nonostante i bruschi cambi di tono, o l’impressione di un mero esperimento (o "scherzo", fate voi), o la sensazione di irrisolutezza che è quasi un marchio di fabbrica di Linklater, o la difficoltà a tenere con scioltezza le fila del racconto e a compattare senza disascalismi la complessità dei temi in gioco, è davvero difficile negare la buona riuscita del film. Affascinante, ironico, quanto basta.

Ha la capacità di farsi dimenticare abbastanza in fretta: ma non si può negare la tentazione di una possibile e repentina seconda visione. In cui ecco, magari tutto si capisca un po’ meglio. E ne varrebbe la pena, perché A scanner darkly, pur nel contesto di un libro che rifugge ai temi e agli stilemi (perlopiù superficiali) che l’industria del cinema ha più spesso utilizzato e cannibalizzato dall’opera del grande scrittore americano, riesce ad essere – almeno – tra le cose più autenticamente dickiane prodotte di recente.

[post in attesa, whatever]

Entrambi entro domani, forse prima.

(niente, era tanto per postare qualcosa nel frattempo)

Time (Shi gan)
di Kim Ki-Duk, 2006

Ultimamente, quando si parla di Kim Ki-duk, mi tocca fare l’avvocato del diavolo. Cinebloggers a parte, sempre sorprendenti nel loro massacrarsi a vicenda su ogni titolo possibile, sono veramente tanti – sicuramente una maggioranza – quelli che hanno bocciato senza tanti fronzoli l’ultimo filmetto del nostro predilettissimo regista di Bonghwa. Io stesso, viste le premesse, non ero più nemmeno così disperato dal fatto che la città che ha disastrosamente scelto di darmi i natali avesse ignorato bellamente la pellicola alla sua uscita, adducendo come scusa l’inerte cartello "chiusura estiva", prima che un ridente paesino della provincia decidesse di programmarlo a metà ottobre nella sua rassegnuccia proto-catechistica.

Sono d’accordo con molti di voi, usando la categoria del "bello" un po’ a casaccio ma premiandone i risultati, sul fatto che Time è forse il meno bello tra i film di Kim Ki-duk. Persino meno de L’arco: meno curato, meno "forte", meno (nel bene e nel male) sorprendente. Ma stranamente, toh!, (cambiando terminologia ad hoc) è più "riuscito" del precedente. Ma mai ci saremmo aspettati da costui un film – seppure così profondamente suo - così leggero, con toni che, a dispetto di un’inquietante linea narrativa di amore, identità e ossessione, sfiorano a tratti la commedia sentimentale.

Genere che non è propriamente nelle corde del nostro (lo si capisce dal fatto che faccia più ridere quando non vuole piuttosto che quando la butta in pochade), così come non lo è la parola parlata: la sceneggiatura non è così pessima come la si è dipinta altrove, ma oltre a contenere alcune frasi di inenarrabile bruttezza, non riesce a replicare quell’incredibile e silenzioso distacco immersivo (lo so, è un ossimoro, e non so nemmeno che diavolo sto dicendo) che rendeva grandi, grandissimi, i suoi film del passato.

Ma come direbbe Guido Meda, Kim c’è. E dopo un film passato a chiedersi se il nostro si sia parzialmente rincoglionito, e abbia girato per la prima volta un film indiscutibilmente brutto (o comunque davvero, ma davvero, difficile da difendere), arrivano almeno 10 minuti finali che, rimandando a molto del suo cinema precedente (soprattutto ai paradossi spaziotemporali di Bad guy), fanno quadrare il tutto con disperata precisione, e riconciliano del tutto con un film che, sempre nell’ambito di un’operetta un-po’-da-poco, senza troppi vertici (tutta la formidabile sequenza della pistolera) e con molti baratri (il parco con le statue para-kimkidukiane), sull’amore e su altre sciocchezze ha sì, eccome, qualcosa da dire. E lo dice con una semplicità disarmante, e con meno spocchia del solito (e del previsto).

Doppiaggio italiano indegno persino di Kiss me Licia, tra i peggiori che io mi ricordi di aver sentito nella mia breve vita. Chissà come suonavano meglio in coreano piccole perle di saggezza come "lavati", "ora sono più vecchia ma ci sto", oppure (e soprattutto) "andiamo a sparare, dico, con i proiettili veri?".

Scoop
di Woody Allen, 2006


"I was born of the Hebrew persuasion, but I converted to narcissism."

Ci sono due modi di vedere, e quindi di intendere, il nuovo film di Woody Allen. Il primo modo – e il più in voga – consiste nel prenderlo come l’ennesimo film "di passaggio" tra i tanti della sua filmografia più recente, come un film leggero leggero da sopportare un po’ a malincuore dopo Match Point, ma sicuramente piacevole, in grado di adattarsi senza troppi sforzi a bocche affamate di quattro risatelle.

Il secondo modo consiste invece nel vedere in Scoop una specie di programmatico ribaltamento prospettico, ironico e ancorpiù autoironico, che contrappone una vitalità e un ottimismo di sconcertante ingenuità (un po’ come la sua protagonista, e guai a chi la tocca) al solito – chiamiamolo così – "pessimismo alleniano". Cosa abbastanza palese nella soluzione finale, che sembra una sorta di sberleffo del metodo-matchpoint, ma che si riscontra anche nel resto del film.

Supposto che questi modi esistano davvero, trovo che non ve ne sia uno giusto e uno sbagliato: entrambi convivono all’interno di un film che – in modo terribilmente intelligente e insieme godibilissimo: a quanti riesce ancora? – riesce ad accontentare sia quelli scontentucci e in vena di criticismi, sia quelli disposti a trovare ancora – e si può fare, facilmente – ancora dei brandelli di genio persino in questi esperimenti di allenismo light.

Sia infine quelli che vogliono stare in mezzo, e che si accontentano di un bel bicchierone mezzo pieno. E mica di veleno.

[we love this guy]

Questa settimana ben 2 film con Robertino.
Ed entrambi imperdibili.
Bentornato, vecchio.

Per tutto il resto, clicca su Friday Prejudice.

Il nuovo episodio. E dai, clicca, su.

[el pube è un pilota / 2]

Prima o poi va fatto: visto che è un argomento molto in voga, che è terribilmente interessante, che ho visto ancora un po’ di pilot (e non solo) di nuove serie tv americane, e che ho alcune notazioni da aggiungere su serie di cui si è già parlato e riparlato, continuo quanto ho iniziato in questo post.

30 Rock
NBC

Scritta e interpretata da Tina Fey, irresistibile comedian del Saturday Night Live e responsabile della bella sceneggiatura di Mean Girls, la serie viene presentata da qualche parte come una versione "più corta e forse più divertente" di Studio 60. Anche 30 Rock è infatti ambientata nel backstage di un programma televisivo, e non è la sola cosa che le accomuna. Va da sè che non c’è assolutamente confronto con il capolavoro di Aaron Sorkin. Ma insomma, c’è Tina Fey, Alec Baldwin è mostruosamente bravo, e alcune battute e situazioni fanno davvero centro, come il flashback griffiniano in cui Tracy Morgan agita una spada laser per strada in mutande urlando "I’m a Jedi". Rischia pure di annoiare in fretta, ma per ora si fa vedere con simpatia. E poi, più breve è davvero, quindi ben venga.

Dexter
Showtime

Dopo Weeds, Showtime si conferma come uno dei canali dai contenuti seriali più originali e "forti". Micheal C. Hall, orfano di Six feet under, interpreta un sessuofobo patologo legale che, segnato da un’innata e ineliminabile tendenza ad uccidere e dal desiderio di renderla "costruttiva", di notte diventa uno spietato serial-killer "di gente cattiva". Ironico, ben girato, ben interpretato, intelligente, gustoso. Solo 10 episodi da un’ora scarsa: via, e chi se li perde?

Smith
CBS

Ho visto il pilota di Smith e ho detto: wow, c’è Ray Liotta! Virgina Madsen! Sickboy di Trainspotting! Wow, che ricca ricchissima confezione, chissà quanti soldi hanno speso! Wow, ci sono le rapine e le esplosioni! Wow, c’è Hide and seek degli Imogen Heap! No, la fava, non c’è nulla che mi abbia invogliato a vedere il secondo episodio. Ray Liotta lo prenderei a schiaffi ogni volta che ride o che apre bocca, ma non è solo quello il problema. Comunque sia, a confermare la mia impressione negativa, la serie è stata cancellata dopo tre episodi. E sai che dolore.

The Nine
ABC

Si potrebbe pensare: sarebbero capaci tutti a fare buoni ascolti con un traino come Lost (che va in onda prima di The Nine), che bisogno c’è di fare anche un buon prodotto? E invece gli autori di The Nine hanno avuto l’unica vera "Idea con la I maiuscola" (per ora) della stagione: una rapina in banca ha "qualche" complicazione, e diventa un lunghissimo sequestro. I nove del titolo, prima sconosciuti, sono ora fortemente legati da quello che è accaduto in quelle 52 ore. Ma noi non sapremo per un bel po’ quello che è successo in quella banca. Ci vuole poco a creare un’ossessione, però cavoli, complimenti.

Ugly Betty
ABC

Uno dei più grossi successi di questa stagione è il remake di una (giuro) telenovela colombiana, trapiantata negli states grazie alle manine solerti di (giuro) Salma Hayek. Detta così, lo so, non è molto attraente: e invece Ugly Betty è coloratissimo, piacevole, divertente, America Ferrera è adorabile, e premettendo che la programmazione della ABC offre di meglio, Ugly Betty merita tutto il suo successo e anche parte del nostro tempo libero. L’unico vero suo limite è la somiglianza della premessa di base (ma anche di parte dello svolgimento) con Il diavolo veste Prada. Ma stai a guardare il capello.

[inoltre]

Dopo un secondo episodio incredibile e la bella conferma del terzo, mi rimangio qualsiasi dubbio possa aver sollevato sulla visione di Heroes. Bello bello. Six degrees si mantiene su un livello quantomeno dignitoso. Con Jericho sono stato invece un po’ troppo cattivo: adesso che c’è qualcosa da scoprire (il segreto che cela l’inquietante Robert Hawkins) e che probabilmente in ballo c’è ben altro che una "semplice" guerra atomica, il tutto si fa più interessante. Yuk Yuk. Continuo a vedere The class perché sono innamorato di Lizzy Caplan, ma in realtà mi sto affezionando a tutti. Nah? Infine, a costo di ripetermi: Studio 60 on the Sunset Strip non è semplicemente bello. E’ più bello. Potrei stare ore a fare l’apologia di ogni singolo personaggio (e di ogni interprete) di questa serie. Se non ve lo siete già procurato, siete dei pazzi. Pazzi. Pazzi.

[altre ed eventuali]

- Weeds comincia stanotte su Raidue. Avete capito bene, Raidue. Avete capito bene, stanotte. A Mezzanotte e Quaranta. Lo so che è un orario infame e bastardo, ma esiste una cosa chiamata videoregistratore. Il mio consiglio rimane comunque di recuperarlo in lingua originale: nella traduzione non potrà che perdere, e tanto. Nel frattempo, la seconda stagione di Weeds riconferma la meraviglia della precedente, beccando l’unico passo falso (l’ottavo) ma anche uno degli episodi più belli (il nono).

- vedere in parallelo i nuovi episodi dei Simpsons e quelli dei Griffin (Family Guy) fa venire quasi malinconia: il ritmo e il genio del cartoon di Seth MacFarlane è ormai assolutamente irraggiungibile, e Matt Groening – a parte l’ormai storica apparizione degli White Stripes – non può nemmeno lucidargli le scarpe. Vedere per credere.

- la seconda stagione di My Name Is Earl poteva sembrare debole rispetto alla prima, ma il quarto episodio mi ha fatto cambiare completamente idea. Stupendo. Randy for president. Time After Time.

[marchette]

Già che ci sono, segnalo tre blog di notevole interesse.

- l’amichetto CineEdo, dopo mesi di insistenze, ha finalmente aperto un blog. Non un cineblog, bensì un blog di cucina, tra sushi e grolle dell’amicizia. E lui ne sa qualcosa, ve lo assicuro. Si chiama Eat it. Buon appetito.

- visto il successo ottenuto immediatamente, il divertentissimo blog di "calembour cinefili" dell’amichetto Maxime non avrebbe nemmeno bisogno della mia segnalazione, ma lo faccio lo stesso: Qualcuno volò sul nido del culo.

- una blog-community sul cinema? Ancora non ho bene capito cosa sia, ma senza dubbio è attraente: Cinemozioni.

N (Io e Napoleone)
di Paolo Virzì, 2006

Sulla carta, l’ultimo film del regista livornese era davvero interessante: mescolare la perizia della ricostruzione storica con la levità della commedia italiana (o della commedia all’italiana, fate voi), senza farsi mancare se possibile una velata e malcelata riflessione sul presente. Qui, più che sul (post)berlusconismo, come ci si poteva aspettare, si parla del "popolino che si esalta per ogni cosa che sia peggiore di lui". Poteva persino essere un progetto rischioso. E che meraviglia, il rischio.

Purtroppo Virzì fa l’errore di abdicare la sua indole più leggera, quella che aveva fatto sì che venissero alla luce film davvero rari come Ovosodo o Ferie d’Agosto, a questa nuova ambizione, concentrandosi troppo sulle ottime scenografie e sui costumi, ricordandosi a tratti la sua identità ma esprimendola senza un briciolo di equilibrio, e di conseguenza – addirittura – annoiando, e abbandonando un po’ a se stessi i personaggi. Brutto errore. Perché il cinema di Virzì non è certo esente dalle macchiette, ma non si può negare che Piero, Sandro, Caterina, persino Tanino, in fondo fossero dei bei personaggi. Il Martino di Elio Germano è poco più che un character. E come diceva Winston Wolf, "just because you are a character, doesn’t mean you have character".

Forse è colpa di Auteuil, che gli ruba la scena con il suo Napoleone fascinoso, forse meglio scritto che interpretato ma indubbiamente "attraente": ecco, questo riesce bene a Virzì e soci. Cioè, fare di noi spettatori ciò che Napoleone fa di Martino, di Emilia e della popolazione dell’Elba, ingannarci con la seduzione del potere e farci scoprire napoleonici per un paio di frasi fatte, una battuta, una "pacca sulla spalla", e un bicchiere di limonata col rutto, in attesa di salpare per la Francia. E gli riesce molto bene. Ma nel frattempo il resto del cast si sta agitando sullo sfondo con un lieve imbarazzo da recita scolastica, cercando in tutti i modi di parlare un toscano quantomeno credibile, alcuni facendosi perdonare (Monica Bellucci, che a quanto pare si è inventata un mischiotto di accenti tutto suo, è parecchio divertente e – come spesso accade, forse inconsciamente – autoironica), altri assolutamente no. Come Sabrina Impacciatore. Non vorrei aggiungere altro, se non che invece Massimo Ceccherini è di una bravura quasi miracolosa.

Ma questo Ceccherini straordinariamente moderato, quasi poetico (il suo incontro con Mirella fuori dall’uscio – "bisogna resistere" – giusto un attimo ma che lascia stupefatti), non basta certo a risollevare del tutto un film davvero deboluccio. Un film passabile se vogliamo. Forse anche piacevole, suvvia. Ma all’altezza di nessuna delle sue ambizioni. E poi, va da sè, in un’ottica ipersoggettivista, l’attualità e il postberlusconismo trovateveli pure voialtri. Per me è semplicemente e profondamente un film di Virzì, e sta al finale dimostrarlo fino in fondo. Insomma, gli ideali e le utopie, individuali politiche o collettive che siano, alla fine dei giochi sono schiacciati sempre dalla dolcezza delle cose quotidiane. Dalla semplicità e dalla bellezza del compromesso con se stessi. E che due palle.

Prima che qualcuno me lo chieda: le bocce della Inaudi non si vedono, quelle della Bellucci sì.

[addio]

E’ morto a Roma Gillo Pontecorvo.

[C - Io e Ceccherini]

Una settimana con solo 5 film? Facciamola breve.

Friday Prejudice, il nuovo episodio. Clicca.

Miami Vice
di Michael Mann, 2006

- Hola, chico
- Hola, chica

Dal corpo della ballerina che apre il film, quasi in medias res e senza titoli di testa, a quello basculante di Colin Farrel che varca mestamente la porta dell’ospedale, passando da corpi che sparano, esplodono, scopano, corrono, e voci che parlano, telefonano, ingannano, il cinema di Mann si riconferma profondamente materiale, corporeo, sanguigno. Schietto. Nella sua cupezza e sporcizia, un Cinema Puro, in qualche modo. Sporco lavoro, si potrebbe pensare. Senza badare troppo a fronzoli ed abbellimenti, si direbbe. Eppure.

Eppure, distaccando pretese e risultati – ma nemmeno di troppo, suvvia – dallo straordinario Collateral, Mann dà ancora una volta una grande lezione di cinema di genere e non solo, e lo fa sì riadattando qualcosa che conosce benissimo (la serie cult degli anni ’80 che ha masticato per lungo tempo), ma ribaltandone l’impianto dell’estetica e del look, adattandolo ai tempi (bui) e non cedendo alle lusinghe del vintage. E mantenendone intatta nonostante ciò l’atmosfera, prima di tutto nel ritrarre Miami, città di frontiera per eccellenza, più western che noir, e più violenta e barocca di qualunque San Francisco nelle sue ipocrisie e contraddizioni, sia i suoi eroi, duri come il marmo (e i loro corpi, sotto la doccia o danzando, parlano da soli), e sovrastati da una colonna sonora persistente che abbina – a volte in modo convenzionale, più spesso in modo imprevedibile e meravigliosamente illogico – roba come Mogwai e Linkin Park senza riuscire a farne una cacofonia: ne sareste capaci mai?

In definitiva, un film impressionante per compattezza e robustezza, per intrattenimento e per quella sorta di impalpabile amarezza, per soprattutto per il modo in cui riesce, pur nell’esasperazione totale – anzi grazie all’esasperazione stessa – degli stilemi verbali e "fisici" dell’action, ben noti a lui e al grande pubblico, a non farli pesare in alcun modo. Anzi, a restituirne ancora una volta la patina epica che l’altrui troppo (che stroppia) aveva tolto loro. Il risultato è un’intricatissima corsa ad ostacoli, una concitata caccia al ladro tra spacciatori e poliziotti undercover che non lascia un filo di fiato. Ma, c’è un ma: come solo i grandi riescono a fare, Mann a un’oretta dall’inizio schiaccia il pulsante pause e si trasferisce per un po’ a La Habana ("Sono un fanatico del Mojito", "Conosco un posto dove fanno il miglior mojito del mondo") a creare amori impossibili, balli latini, e ovviamente coiti. E paradossalmente, nella sua assoluta e vacua incredulità, è tra le sequenze più belle del film.

Infine, brevemente, una sparatoria finale troppo perfetta per essere vera, e un finale bello, bellissimo, di più, quasi commovente. Toh, un altro grande film. E dio mio, quanto voglio un motoscafo.

[un post a pois]

Ho un tot di cose da dire, quindi diamoci da fare.
E leggete tutto, diamine.

- massima priorità: Marco del CEC di Udine – per intenderci, quelli che organizzano il Far East Film, iddio li benedica – mi conferma la voce che già era arrivata con sommo gaudio alle mie orecchie durante la Mostra del Cinema di Venezia. Grazie alla collaborazione tra il CEC e Ripley’s Home Video, uscirà in Italia a Noleggio il 24 Novembre – e il mese successivo in vendita – il DVD italiano di PTU, splendido film di Johnnie To, ultimo grande maestro del cinema hongkonghese. Potrebbe essere il primo di una lunga serie: dipende anche dal successo di quest’iniziativa, e quindi dipende anche da noi. Quindi, "toeiani" di tutta italia, unitevi! Pubblicizzate l’evento! Comprate il DVD! Fatelo comprare a tutti i vostri amici più cari! E già che ci siete, visitate e linkate e promuovete e commentate questo blog che i ragazzi di Udine hanno creato per l’occasione: Johnnie To Mania. Evviva.

- piccole e grandi rivoluzioni nella Città del Capo: il Monolocane di Francesco ha chiuso i battenti, con nostro sommo dolore. E io, stolto, mi sono pure perso l’ultima puntata. Sigh. Ma dall’altra parte, Seconda Visione ricomincia domani 10 ottobre, e  – ta dah! – raddoppia. Due ore con i nostri beniamini, dalle 22:30 alle 0:30. Ce la faranno? Ce la faranno.

- non so voi, ma io ultimamente sono pazzo dei Midlake. Toh, suonano al Covo di Bologna tra meno di due settimane. Toh. Ogni scusa è buona, per tornare a Bologna.

- Michela mi mette al corrente di un bellissimo progetto chiamato Uno per cento. Si tratta di un "movimento che ha lo scopo di creare una rete di persone il più possibile fitta e coesa affinchè si possa portare a breve in Parlamento una proposta di legge volta a creare un vero e proprio sistema economico, stabile e trasparente, per la Cultura in Italia". Davvero una bellissima iniziativa, dateci un’occhiata. Qui il loro Manifesto.

- passando a cose più facete: Evolution Of Dance. Il video più visto su Youtube, ever.

- ho visto ancora qualche sparuto pilot di nuove serie mmerigane, e altre sono state già accantonate per note di demerito. Presto forse un altro post con i "consigli per gli acquisti": intanto dico solo che il secondo episodio di Heroes è un’impennata davvero bestiale. Gulp. Sbaraquack. Ma tanto non importa, tutto ciò è – ovviamente – offuscato dalla prima puntata della terza stagione di Lost. Splendida splendente. "So I guess I’m out of the book club". Stiamo tutti già male, malissimo.

- vi piace il mio nuovo logo, là sopra? A me sì. Qualcuno ha un suggerimento per il prossimo? Orpo, un giovane cinefilo sulla scia di Twitch.

- l’unica considerazione che mi resta da fare sulla guèra di Lady in the water dopo le parole di Coma ("quando un gruppo di persone – tra cui non figurano evidenti casi di ritardo mentale o totale inettitudine in materia – si trova su posizioni così diverse, è chiaro che il punto si trova nelle persone, non nel film") è che il modo in cui negli ultimi giorni si è teso – da una parte e dall’altra – a criticare il film e i suoi spettatori quasi sullo stesso piano mi lascia alquanto di stucco. Punto.

- no, non ho ancora visto Miami Vice.

- infine: il sottoscritto è ormai ufficialmente a caccia disperata di un lavoro. Se sei a conoscenza di un’occupazione nel nostro bel paese che ben si abbini con le capacità che ciecamente saprai riconoscermi, ti basterà cliccare sul nuovo e autoironicissimo banner "hire kekkoz" e richiedere così ufficialmente il mio Curriculum Vitae. Aggiungo che se vuoi costruirmi un banner decente, sarebbe cosa graditissima. E che se vuoi mettere il banner sul tuo bellissimo e simpaticissimo blog, troppa grazia, basta chiederlo. Mangio poco e dormo per terra, però non so stirare. Astenersi perditempo. Tipi come me, per dire. Dillo a tutti i tuoi amici milionari.


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Clicca qui per assumere kekkoz
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Signor Kekkoz, La prego di inviarmi il Suo Curriculum Vitae"><img border="0" alt="Clicca qui per assumere kekkoz" src="http://giovanecinefilo.interfree.it/hirekekkoz2.gif" /></a>

[tonite]

Pere Ubu, Centro Stabile Cultura, San Vito di Leguzzano (VI)

Lady in the water
di M. Night Shyamalan, 2006

Una premessa: non era mia intenzione
"tirarmela" riguardo questo post. E lo dico, perché da fuori tutta questa manfrina sembrava antipatica persino a me stesso. Semplicemente, non ho avuto il tempo e, diciamocelo, soprattutto una gran voglia di scriverne, pur avendolo visto ormai tre giorni fa. E ora che l’ho scritto, l’ho fatto in fretta e furia. Anzi, guardate, questo post è brutto. E guai a chi dice il contrario.

E’ davvero facilissimo demolire un film come Lady in the water. Perché è un film che contiene al suo interno non solo la sua stessa autocritica, come spesso accade, ma anche la sua autodifesa: ammetto che una scena come quella del critico possa risultare irritante, anche se io la trovo cruciale, spassosa e paradossalmente perfetta nell’economia del film. E inoltre, perché racconta una storia e al tempo stesso ne svela il meccanismo, forse con ingenuità ma con una notevole presunzione. Quella che da qualche parte nel paese chiamano sboronata. Vi siete imbestialiti, avete deriso il signor Shyamalan? In fondo vi capisco, e non vi biasimo.

Ma io no. Al di là del fatto che un film che "non la manda a dire a nessuno", prendendo deliberatamente per i fondelli tutti, spettatori compresi e non solo, è da queste parti cosa gradita, l’ultimo film del regista di film fenomenali come Unbreakable e The village riesce a coniugare (miracolosamente) due pensieri quasi inconciliabili. Da una parte, una fiaba vera, romantica e "immersiva", classicissima e con tutti i crismi e gli attanti del caso, come avrebbe voluto quel sant’uomo che mi si è chiesto esplicitamente di non pronunciare. Dall’altra parte, una presa di posizione cerebrale, quasi-intellettuale e strutturalista, dove in una sorta di meta-fiaba il quotidiano viene sì immerso nel magico – come sempre accade nel suo cinema – ma mantenendo allo stesso tempo il un distacco ironico-critico. Come è possibile? L’arma scelta da Shyamalan – quasi del tutto inedita nel cinema del seriosissimo regista – è l’ironia, è il gioco. E’ la buffoneria – attraverso la gestualità e il balbettamento di Giamatti, bravissimo – a farla da padrona, salva tutta la baracca e, anzi, coglie perfettamente nel segno.

Quello che conta sopra tutto il resto è però il fatto che Lady in the water, o almeno il Lady in the water che ho visto io, è un film davvero piacevolissimo, appassionante, e dotato di una sincerità rara di questi tempi, e assolutamente disarmante. E pur cambiando radicalmente la struttura dei suoi film precedenti (lo sapete già: non c’è più la "sorpresona", deo gratias, ma una linearità assoluta che ben si combina allo studio, ingenuo ma riuscitissimo, delle suddette morfologie fiabesche), è perfettamente in linea con la poetica dell’autore. I temi della predestinazione legata al senso della vita (insomma, il nostro "posto – o ruolo, fate voi- nel mondo"), si ricollegano direttamente alle sue opere precedenti, soprattutto a Unbreakable e a Signs, di cui è quasi il "gemello buono", e forse il complementare.

Non condivido nonostante ciò l’entusiasmo di alcuni legato a questo film, che tra l’altro risulta – questo s’ha da dire – meno curato, "splendente" e virtuosistico dei film precedenti, nonostante la presenza dietro la mpd di un gigante come Christopher Doyle, perché l’ho trovato più che altro – nei risultati, più che nelle intenzioni dell’autore, che preferisco ignorare bellamente – un riuscito divertissement, che per le ragioni sovracitate non riesco a prendere sul serio fino in fondo. Almeno, il fatto che Shyamalan lo faccia in questo modo assurdo ed esagerato, non significa che debba farlo anch’io. Ma se proprio devo schierarmi, lo faccio inequivocabilmente a suo favore. E lo faccio anche volentieri.

[another hype]

Sparring Partner.

[è una guèra]

"La sublimazione della sua opera" (Bonekamp)
"Immensa delusione" (Andrea)
"Il capolavoro è fatto" (JerryGarcia)
"Un film orribilmente pedestre, coi pupazzoni." (Violetta)
"Fiaba semplice e magica" (Jiro)
"Brutto senza se e senza ma" (manu)
"Ringraziamo con le lacrime agli occhi" (Deliriocinefilo)
"Decostruiscimi questo. Stronzo." (Ohdaesu)

Ora ditemi. Secondo voi, mi sto tirando indietro?

[maiémi vàis e scùp]

Gente! Domani non esce nemmeno una pecora nera!

Questa settimana, su Grazia.
Ah no, scusate, su Friday Prejudice. Il nuovo episodio. Clicca.

(mi piace riciclare le buffonerie altrui)

Ditelo a tutti i vostri amici.

(e sì, ho visto Lady in the Water e sono pronto a schierarmi,
ma lo farò solo domani sera)