novembre 2006

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United 93
di Paul Greengrass, 2006

Già per il fatto che per una metà abbondante del film (quasi un’ora) non vediamo che una serie ininterrotta di telefonate e telefonate tra i capi dei punti di comando aereo a terra, mostruosamente inadatti ad affrontare ciò che stava avvenendo quella mattina, 11 Settembre 2001, e per il fatto che ciò non crea nello spettatore noia (tipo "ma ci fate vedere questo aereo o no?") ma – al di là della pregnanza politica e umana del caso – un senso di ansia inesplicabile, dovremmo suonare a casa del signor Greengrass (che ha uno sguardo "esterno", e in tutta grazia si vede, eccome) e stringergli la mano.

Aggiunto a questo, è davvero impressionante il modo in cui Greengrass, anche come sceneggiatore, interviene sugli stilemi del film catastrofico ribaltandoli dall’interno, in tempi poi in cui si pensava che il genere non avesse forse più nulla da dire perché "la realtà ha superato la fantasia". Non solo per il "sezionamento" crudele del film, in cui l’aereo e i suoi passeggeri – una enorme tribù di splendide facce anonime da b-movie – diventano protagonisti, in senso tradizionale, praticamente solo nell’ultima mezz’ora (o meno) e tutto d’un tratto, "a cose fatte", ma anche per il modo in cui si evita con cura ogni forma classica di identificazione, personificazione, melodramma, metafora.

Ma tutto questo contribuirebbe, volendo, a rendere United 93 niente più – si badi: non è poco – che un secco e spettacolare prodotto di intrattenimento, assolutamente non cinico nonostante ciò ma in grado di adattare il senso di realtà a quelli che sono i linguaggi del thrilling. Non è denuncia anche se si denuncia, e non c’è retorica perché proprio non serve, non ce n’è bisogno. Ma quello che, al di là dei molti pregi , rende United 93 un film davvero prezioso, è invece il suo impatto emotivo. Davvero impressionante.

Sono, appunto, quei molti minuti finali, con le famose "telefonate a casa" e l’ammutinamento disperato del volo 93, in cui nella "gente" si rivede la stessa innata, "fatale" indecisione, e impreparazione alla morte, di cui erano succubi i generali (quei cinque minuti in cui i passeggeri "perdono tempo" a passarsi la notizia di quanto stava accadendo a New York), e in cui tutta la tensione accumulata – anche perché quell’aereo è una tomba, e quelli sono fantasmi: lo sappiamo tutti fin dalla prima inquadratura del mezzo – esplode in un finale di sette minuti sette, assolutamente straordinario per come sa rappresentare l’avvento del caos e il declino definitivo dell’umano istinto di sopravvivenza.

Sfido qualunque complottista, o semi-complottista come mi è capitato di essere, a non stringere le lenzuola tra i pugni, scalciando i piedi in fondo al letto e asciugandosi le lacrime tra i singhiozzi e i singulti. Come ho fatto io, insomma. Un film quasi incredibile sull’assoluta impotenza degli innocenti di fronte all’inevitabilità della Storia, sul volto sconvolto degli uomini di fronte alla civiltà che collassa, e uno dei film più tesi e strazianti degli ultimi mesi.

Su Youtube, gli ultimi sette minuti del film. Io non lo definirei nemmeno uno spoiler, ma fate voi.

[au revoir]

Philippe Noiret 1930 – 2006

[tonite]

The Frames, La Casa 139, Milano

Boog e Elliot a caccia di amici (Open season)
di Roger Allers, Jill Culton e Anthony Stacchi, 2006

"At this point, the most we can hope for now is an animated film that doesn’t concern breaking out of a zoo of some sort." (Chris Cabin, Filmcritic.com)

Per liberarci in fretta di questo macigno (il post aspetta da diversi giorni), chiariamo subito il punto: Open season è talmente brutto che a posteriori Over the hedge acquista un sacco, ma davvero un sacco di punti. Che è tutto dire. Poi, si sa, sui film d’animazione io sono abbastanza impietoso, ma questo "vero" esordio della Sony Animation è uno dei film più inutili e derivativi che mi sia capitato di vedere in tempi recenti, forse un ciglio meglio di Madagascar ma non abbastanza da saperne definire il distacco. E non solo perché ancora una volta ci sono "degli animali parlanti che escono da uno zoo di qualche tipo". Che già quello, due palle.

Riprendendo la tradizione dei buddy-movie tanto cara al cinema americano (e a quello d’animazione: ma Monsters Inc sembra essere passato invano), Open season racconta una storiellina flebile flebile sull’emancipazione dal nido familiare, ed è tutto qui. E non avendo evidentemente nient’altro – o niente di niente – da dire, sfoggiando perlopiù una tecnica che però è notevole praticamente solo nel movimento del pelo (ah beh allora) e nella sequenza dell’inseguimento acquatico (va detto, ben fatto), riempie tutto il resto del film di animali e animaletti. Porcospini, scoiattoli, puzzole, e via dicendo. Già sentita, vero? A confronto, un torneo senior al bocciodromo di Mompiano è come fare bungee jumping sul Grand Canyon.

Nemmeno i numerosi bambini presenti hanno gradito, considerato l’incredibile casino in sala, più divertente del film stesso. Tra noi "adulti" invece, pesanti pacche sulla fronte, sguardi al soffitto del cinema, commenti stupefatti, e l’udibile speranza che finisse in fretta. La nicotina in questi casi può aiutare. E se qualche risata la strappa, spesso e volentieri è perché si sta pensando a qualcos’altro. Che so, a Punk’d.


Nelle sale italiane dal 07 Dicembre 2006

In sala con me, la signorina Violetta – che gentilmente mi invitò – e alte personalità dell’intelligenza cinefila meneghina. Però, niente male come prima esperienza ad un’anteprima milanese. Mi sento come una debuttante. O come Molly Ringwald, fate voi.

[Anna Frank eats my shorts]

In un mondo dove la gente si odia, si insulta e si picchia,
un film riunirà i cuori degli uomini nel nome dell’ammore.

Su Friday Prejudice, anche questa settimana.
E sappiatelo, esce uno dei film dell’anno.

(e pure un altro che insomma dai su è in quella zona pure lui)
(e pure un altro dove fanno le cosacce)

Clicca per saperne di più.
Friday Prejudice (ok, ok, hai capito).

Super Nacho (Nacho libre)
di Jared Hess, 2006

"Precious Father, why have you given me this desire to wrestle and then made me such a stinky warrior?"

Dai titoli di testa, anche per chi non abbia visto – come il sottoscritto – Napoleone Dynamite, si capisce che Jared Hess ci sa fare, o almeno, ci saprebbe fare: un orfano cicciottello che sogna il wrestling e viene vessato dalle suore e dai frati del suo convento. Incredibile che la bellissima sequenza di apertura sia poi una delle poche, pochissime cose veramente riuscite di tutto il film. E dispiace un po’, perché su Nacho libre erano state riposte diverse speranze.

Non si piangono di certo lacrime di disperazione, perché anche ad essere in grado di apprezzarlo, nonostante a mio parere sia alquanto impraticabile, l’opera seconda di Hess è comunque un filmetto deboluccio, dalla struttura riciclata e dalle idee scarse. Ma quel che è peggio non è l’incosistenza, riguardo cui si sarebbe passati volentieri oltre per farsi quattro risate, ma che il regista pensi davvero che per fare il "diverso" e l’indipendente basti rallentare i ritmi e spalmare ognuna delle (poche) gag del film su tempi incredibilmente dilatati. La parola con la N regna come una sovrana.

Così, non solo non ci si diverte molto (anche se più di una risata la strappa: potrei elencarvi i punti, ma sarebbe umiliante) ma il tentativo di coniugare l’anima più snob e fighetta, nonché dotata di un ragguardevole notevole complesso di superiorità, con una storia molto tradizionale e banale che mescoli racconto classico, fiaba, e romanzo superomistico, si rivela malriuscito e a tratti fastidioso. E crea peraltro di un buco di target pazzesco, che forse giustifica lo scarso gradimento a fronte dell’ottimo successo commerciale negli states: un film che annoierebbe a morte qualunque ragazzino, ma che è troppo puerile e (furbescamente) ingenuo per tutti gli altri.

Jack Black è in ogni caso ancora bravissimo e, come previsto, è la cosa migliore del film (senza dimenticare l’ottima spalla Héctor Jiménez, responsabile di alcune tra le battute più felici): la sua parlata anglomessicana, la sua mimica, le sue esplosioni canore, sono il vero motivo per cui dargli un’occasione. Mi chiedo quanto abbia senso, a questo punto, vederlo doppiato.

[goodbye]

Robert Altman, 1925 – 2006

Marie-Antoinette, Sofia Coppola 2006

Marie-Antoinette
di Sofia Coppola, 2006

Certe volte il potere di una singola inquadratura ha la capacità di disarmare ogni possibile dubbio e pregiudizio di sorta su un film. E’ il caso di quella che apre il nuovo film di Sofia Coppola, con la regina di Francia sdraiata tra una marea di grandi torte rosa e una cameriera che le prova delle scarpine dello stesso colore, mentre in un contrasto inaudito ed esaltante risuonano le note dei Gang of Four. Marie-Antoinette ci guarda, titoli di testa. In rosa.

Ma la cosa è meno sgradevole o forzata di quanto possa sembrare: sgombrato infatti il campo da una rilettura estrema o kitsch, la Coppola sceglie invece di incrociare la Storia e la sua metaforizzazione – insomma, le vicende reali della giovane moglie di Luigi XVI con quelle di una ragazzina ingenua ritrovatasi con tutti gli occhi addosso, trascinata suo malgrado nell’inquieto torrente dei gossip, e con un marito nerd che la induce a consumi sfrenati a causa di una sessualità poco entusiasmante – con una classe e un’eleganza invidiabili, più spesso inclini ad una satira sociale magari semplice ma gradevole (i dialoghi nella corte, tutti pettegolezzi sospirati), e ad un’ironia che trova i suoi punti di forza dove altri sarebbero caduti (la ripetizione dei rituali sociali).

Ma anche togliendo dalla figura della giovane regina quell’aura di ambiguità che le hanno donato più di duecento anni di vociare popolare, restituendole l’innocenza e la gioiosità perdute, e trasformandola – con una notevole e gradita licenza – nel capro espiatorio delle ipocrisie di un’intera società, quella stessa società che rinnega appena possibile la nemesi della protagonista (interpretata con physique du role da Asia Argento) che poi in realtà non è che l’altra faccia della sua vitalità. Quella stessa società che al primo sospetto di rivoluzione le gira le spalle e non batté più le mani con lei, a teatro.

Ma c’è poco da razionalizzare su questo film, costruito dalla Coppola più sulla base di impressionismi malickiani (il bravissimo direttore della fotografia è lo stesso Lance Acord di Lost in Translation) e innocue ma riuscitissime provocazioni musicali, più su immagini e sensazioni che su tracce narrative stabili. Così il suo cinema si riconferma – ancora una volta, ed è la terza – splendidamente epidermico eppure non superficiale, un cinema insomma da sentire sulla propria pelle, che pur essendo ancora più lento e riflessivo dei precedenti (viene quindi pubblicizzato con toni da truffa) è leggero come l’aria fresca, e – a parte il primo faticoso quarto d’ora, e a meno di non avere già freddo alle ossa – è altrettanto piacevole.

Ecco, quello di sopra era, come promesso, un’opinione che prescindesse da Kirsten Dunst.
Ora potete aggiungerci Kirsten Dunst.

Flags of our fathers
di Clint Eastwood, 2006

Per una volta, non starò tanto a sindacare le qualità oggettive dell’ultimo film di nonno Clint. Che sia bello o meno, un film del genere, mi interessa solo fino a un certo punto. Perché io lo so, ladies and gentlemen, che Flags of our fathers è un bel film, proprio un gran bel film: incontrovertibile, innegabile, i*bile. Ma il punto di cui sopra è un altro, e viene raggiunto in fretta. Il punto in cui la mia pazienza finisce e i miei occhi guardano spesso, troppo spesso, il quadrante dell’orologio, o del telefono cellulare in sua vece.

Il discorso è abbastanza semplice, e si può esplicare in due versioni. La prima: se voglio andare a vedere un film di Clint Eastwood, non voglio trovarmi davanti un film come questo. Oppure, la seconda: se voglio vedere un film così, cosa del tutto legittima – che un giorno potrebbe persino capitarmi – non vado a scegliere un film di Clint Eastwood, non voglio doverlo fare. Non che Flags sia carente in clintisvudianità, sempre che quest’ultima esista davvero (perché, se esiste, ha un nome orribile). Per carità. Ed è anche curatissimo, e rinnega ogni manicheismo (ma su, diciamocelo, a livello tematico una roba così son buoni tutti a farla), e c’è un indiano che frigna e vomita, e ci sono le scene di guerra più incredibili che io abbia mai visto. Che campi lunghi inarrivabili, impeccabili, i*bili. Che ottimo reparto effetti speciali, insomma.

Il film in sè, invece, cioè tutto quello che sta intorno a questa tanto splendida quanto interminabile e noiosissima invasione giapponese, cioè tutto quello che al confronto di quei carrelloni a mare suona schifosamente pretestuale, c’è ben poco. O almeno, ben poco che mi/ci interessi. O almeno, pensandola in modo freddamente analitico, una scena stupenda come il ritrovamento del corpo di Iggy può far perdonare quell’orrore debaricentrato che è tutta ma proprio tutta la parte finale in cui Tom McCarthy prende la parola e George Grizzard muore in sei ore? E non serve da richiamare sempre in ballo il "cinema classico", cosa che ho fatto io stesso con il suo film precedente: va bene, è classico e tutto quello che volete, ma se la classicità si muta in prevedibilità, il grande cinema rimane poco più che una buona intenzione.

Forse è tutta colpa del doppiaggio oratoriale? Non credo che lo saprò mai. In ogni caso, davvero spassose le citazioni di Lost. Sì lo so, è una stronzata, ma mi diverte finirla così.

[compito a casa]

Elaborare un’opinione che prescinda da Kirsten Dunst.

[boom boom boom]

Sono le bombe di questa settimana. Una, garantita dalla casa.

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Clicca.

scusate la brevità ma non avete idea del tempo che ci vuole per fare i prejudizi con una connessione fantasma. e in più, sono distratto dalla disperata ricerca di un motivo, un motivo qualsiasi, per salvare in corner l’ultimo film di Clint Eastwood. e non è detto che io ci riesca.
a presto, se la mia gola la smette di gonfiarsi forse sopravviverò.

Ti odio, ti lascio, ti… (The break-up)
di Peyton Reed, 2006

Questa volta sarò davvero breve. Pochissime infatti le cose da dire sulla commedia di Peyton Reed, che dopo Down with love definire un disappunto è dire poco. Comunque: i dati a suo favore sono un un inizio davvero azzeccato, e una prima mezz’ora in cui si riesce a dire qualche verità su quanto i cervelli dei maschietti e delle femminucce diventino bacati quando si accoppiano.

Peccato che poi il film diventi null’altro che un’alternanza infinita di ripicche e reazioni. Ripicca, reazione, ripicca, reazione. A parte il finale che ti ammazza letteralmente, o sequenze da fast-forward come quella del concerto mancato, dura pure venti minuti di troppo e alla fine non ce la fai davvero più. Il film invece, ce la stava facendo, e invece no.

Ma Vince Vaughn è davvero gigante, in qualunque sfumatura. Un idolo delle folle, signori.

Slither
di James Gunn, 2006

"This shit is about as far from God as shit can get!"

Uscito in Italia a fine giugno nella solita indifferenza generale estiva, il primo film completamente scritto e diretto da James Gunn, sceneggiatore talentuoso che si è fatto le ossa per anni e anni alla Troma (ha quasi quarant’anni anche se ha ancora la faccia di uno studentello malato di fumetti) prima di farsi notare con lo script del cult (inedito da noi) The specials, merita davvero di essere recuperato ed è a un pelo – davvero sottile – dall’essere un gioiellino del suo genere.

Che poi, non è che sia così facile identificare il "suo" genere, con quella commistione di horror puro (non fighetto ma diretto all’osso, cruento e sanguinario come poche cose recenti, almeno di questo tipo) e commedia secca (non parodia, anche se implacabilmente divertente) che, come si sa, è un’alchimia difficile che riesce a pochi, pochissimi. Per dire, a Gunn riesce benissimo. Sia nei passaggi prettamente comici, a cui si dedicano gli ottimi dialoghi, sia in quelli horror, dove ha la meglio l’impressionante reparto make-up, tra Michael Rooker in guisa di calamaro gigante, un’enorme donna-utero, e un’invasione aliena che ha forme vagamente – o un po’ più che vagamente – falliche, vaginali, e persino anali. Uau.

Un vorticoso omaggio ultracinefilo, spesso esplicitato, in modo quasi patologico, nei nomi dei personaggi e dei luoghi, all’horror "di serie B": se davvero si può dire così, visto che il film è il frullato di un sacco di roba diversa, dal cinema del primo Cronenberg (la mutazione di Grant Grant da La mosca, la scena della vasca da Il demone sotto la pelle) a quello di Yuzna (tutta la sequenza finale, paro paro da Society) e di Romero (gli zombies, ovviamente – d’altronde Gunn ha scritto il bel remake di Dawn of the dead), da Tremors agli Ultracorpi, e molto altro ancora.

L’idea di cinema è la stessa della Tromaville di Lloyd Kaufman (il cui Toxic Avenger appare in un televisore, e più che un onere dovuto suona come un dazio affettuoso), ma con un innegabile marcia in più da un punto di vista visivo e narrativo, senza troppi peli sulla lingua né riguardi nei confronti dei cuori (e degli stomaci) deboli.

Uno Spasso con la S maiuscola. Anche se la sopracitata indifferenza italiana ha fatto eco al letterale disastro al botteghino americano. Ve lo meritate, Joe Sonzero.

(Bill) "Hell, if he had a ‘gina, you’d'a married him, too".
(kid) "What’s a "’gina"?
(Bill) "It’s a country. You know, where Ginese people come from".

[omiabèlamadunìna]

Tra qualche ora mi trasferirò in un piccolo paese del norditalia.
Si chiama Milano.
Dubito che voi lo conosciate.
(e no, non ci vado per una vacanzina, ci vado per rimanerci)
(almeno, ci provo)

Quindi, se vivete a Milano e dintorni, fatevi sentire.
(nella colonna destra c’è il come, decidete voi il quando e il perché)

Vi aspetto, aspettatemi pure voi. Aspettiamoci.

avvertenza STOP probabile temporanea assenza internet STOP abbiate pazienza STOP qualcuno mi presti la sua connessione STOP almeno di giovedì STOP dimentica STOP comunque cerco sempre lavoro eh STOP non si sa mai STOP schiavo vostro STOP kekkoz

L’amico di famiglia
di Paolo Sorrentino, 2006

I detrattori del regista napoletano, con L’amico di famiglia avranno pane per i loro denti: accorrete, genti di tutte le età, ad accusare Sorrentino di manierismo, di spocchia, di formalismo, di presunzione. Perché in effetti il suo nuovo film è proprio così: estremamente presuntuoso, e irreparabilmente irrisolto nel suo tentativo di mantenere un registro narrativo coeso, passando senza troppa cognizione dall’epitome dell’inessenziale (nella prima parte) a una sintesi frettolosa e riassuntiva (nella parte finale). Ma diavolo, se i nostri registi fossero tutti così, che cinema, che avremmo.

Al di là della bellezza di molti singoli momenti, a partire dagli incredibili titoli di testa (che molti definiranno lynchani, e non a torto) dove la voce di Antony giganteggia e ammalia, e della ricerca spasmodica dell’inquadratura originale, in quello che è palesemente il suo film meno riuscito Sorrentino si conferma tuttavia e comunque un autore dalla poetica forte e coerente, disperata e misantropa, e non un mero metteur en scene, seppure di raro e innegabile talento. Perché se i nostri registi fossero tutti così, che cinema, che avremmo.

Anche se poi L’amico di famiglia, in fondo, se ridotto all’osso, non è che una variazione, complicata in qualche modo dalla moltiplicazione dei personaggi e con alcune banalizzazioni (come il Fabrizio Bentivoglio venetofono e countrymaniaco) del suo film precedente. Insomma, Geremia de’ Geremei è un altro uomo che sottovaluta le conseguenze dell’amore. Un amore che si trova dove meno te lo aspetti, tra le pieghe del disgusto e della iattura, tra il maleodore e la vecchiaia, un amore che ti restituisce il senso della vita anche solo per un attimo, ma che non potrà mai salvare un mondo in cui tutto diventa merce e bugia, un mondo ipocrita e malato.

Immerso nello sterco dell’uomo, l’amore che vi fiorisce per caso non potrà mai sbocciare.

[goodbye]

E’ morto Jack Palance.

[era ora]

Un’uscita che riesce a oscurare persino Clint Eastwood?

Questa settimana, su Friday Prejudice.

Monster house
di Gil Kenan, 2006

Quando uscì The polar express evitai di uscire di casa e feci finta di niente, perché volevo troppo a Robert Zemeckis e desideravo continuare a volergliene. Nel caso di Monster House, secondo esperimento di film d’animazione prodotto con la tecnica della performance capture, dal momento che alla regia c’è il giovane esordiente Gil Kenan ho fatto finta di niente. Anche se è il film è evidentemente farina del sacco di Zemeckis e Spielberg.

Il film è infatti un tipico prodotto Amblin, la principale casa di produzione di zio Steven, si vede ed è un bene: infatti possiede tutta la freschezza e la piacevolezza dei film per ragazzi – e non per bambini – "di una volta": una casa infestata, lo spettro dei Goonies che si aggira senza sosta per tutta la pellicola, citazioni autoreferenziali, due coraggiosi ragazzini emarginati, Jason "Earl" Lee in versione rocker-fattona, e un incredibile flashback timburtoniano: se si riesce a sopportare la più brutta tecnica d’animazione mai inventata – si fa fatica nonostante la regia curatissima, e non si capisce perché zio Bob tenga tanto a questa robaccia – c’è davvero da divertirsi.

L’imbarazzante risoluzione dei titoli di coda ha graziato il film dalla minaccia di un piccolo divieto. Ci tappiamo il naso.

La gang del bosco (Over the hedge)
di Tim Johnson e Karey Kirkpatrick, 2006

Tratto dalla gradevole comic strip di Michael Fry e T. Lewis, il film di Johnson e Kirkatrick non riesce a riportare sullo schermo in modo compiuto lo spirito del fumetto. E probabilmente non era nemmeno loro intenzione. Al di là di "cattivi" poco riusciti e dei personaggi spariti nel nulla – come le fidanzate dei due protagonisti – sono i personaggi che restano a peccare di personalità. Diventando da flemmatici a insopportabili (RJ e Verne), da curiosi a insipidi (quasi tutti gli altri), o peggio ammiccanti come la puzzola Stella (doppiata dalla bravissima Wanda Sykes).

Non si può negare però che il nuovo cartoon della Dreamworks, dopo un paio di robacce da queste parti detestate, non abbia corretto un po’ il tiro. Over the hedge è sommariamente piacevole, ed è molto ben disegnato, se vi basta. E se non vi basta, regala pure qualche momento imprevedibilmente intelligente: la sequenza sul rapporto tra umani e cibo è – miracolo – degna della Pixar, spassoso l’opossum scespiriano che finge di morire gemendo "Rosebud!", così come, nel finale, l’effetto della caffeina sullo scoiattolo. Che era una gag già presente in modo diverso anche in Hoodwinked.

Insomma, non è nemmeno troppo fastidioso, ma è inconsistente e innocuo. Non sa di niente.

Quell’ometto delizioso di Ben Folds canta tre canzoni nella colonna sonora, il che fa non poco piacere. Ma usa come pezzo di chiusura uno dei suoi meno belli (lo schitarroso Rockin’ the suburbs, che dà il titolo a un disco ben più stimolante), ripulendolo peraltro dalle bad words. E fa un po’ meno piacere. Ma a uno che rifà Such Great Heights usando come percussioni coperchi, bicchieri e una cuccia si perdona tutto.

The departed – Il bene e il male (The departed)
di Martin Scorsese, 2006

L’ho detto più volte, quando passano così tanti giorni dalla visione di un film la voglia di scrivene mi passa. Ma pur avendo già espresso sinteticamente la mia posizione, non posso – e in fondo non voglio – esimermi. Dunque, in poche parole:

Se una o più cinematografie appassionano tanto, quanto è difficile accettare che ne venga proposto un rimaneggiamento? Non per una supposta intoccabilità del testo, argomentazione ben situata tra l’inutilità e la stupidità. Il problema è che spesso e volentieri viene dimenticato il mondo da cui un’opera proviene, pure in modo esplicito come in questo caso, da gran parte della stampa e – ancora peggio – dal pubblico. Ed è un peccato. Anche se è un discorso che da queste parti ci si è persino stufati di fare, perché la cosa riguarda non solo Hong Kong, ma anche e soprattutto Giappone e Corea. Tutti conosco Verbinski, meno Nakata. Troppi Jim Sonzero, quasi nessuno Kurosawa Kiyoshi. Per dire, molti conosceranno Yann Samuell, pochissimi Kwak Jae-young.

La preoccupazione aumenta a dismisura per il remake di un film come Infernal affairs che, nel panorama non propriamente idilliaco del cinema hongkonghese recente, era qualcosa di più che un semplice gran-bel-film, ma un’opera capace di coniugare i divi e il grande spettacolo popolare della macchina industriale pancinese, e quindi un film tanto appassionante quanto vendibilissimo, e una qualità (intellettuale ed emozionale) davvero stupefacente.

Ma nelle mani di Martin Scorsese, la storia dei due infiltrati, un poliziotto tra le bande mafiose e un gangster alla centrale di polizia, e del loro rapporto edipico e conflittuale con i loro "padri", grazie ad un tono sofferto, cupissimo e programmaticamente tragico, a una messa in scena incredibile che sa persino sperimentare (con modestia) su moduli e modalità visive e narrative – per esempio tramite i flash improvvisi, le fiammate violente, alcuni fermoimmagine quasi impercettibili – diventa non solo il miglior film del regista dai tempi del sottovalutatissimo Bringing out the dead, non solo un film pressoché inattaccabile se non – appunto – con il senno dell’opera da cui è tratto con una certa fedeltà (ma un confronto simile, finito il divertente giochino, lascia sempre il tempo che trova), ma uno dei film più belli di quest’anno.

Con una certa fedeltà, si diceva: ma nonostante The departed si pieghi tutto sommato a una replica allungata del film di Adrew Lau, è proprio il tono a fare la differenza, e a farla parzialmente in favore del film di Scorsese. Laddove colà vi sono ralenti e carrelli, e un’epica tragica, disperata e spudoratamente struggente, qui si procede agli antipodi, con una secchezza quasi spaventosa (tutti gli omicidi valgano come esempio calzante) e con un montaggio geniale che in barba al melodramma spezza decine e decine di climax (anche quelli acustici: il solito tappeto sonoro scorsesiano in questo fa il suo lavoro alla perfezione) lasciando con il groppo in gola, e portando ad un finale che, pur nel giocoso disascalismo dell’inquadratura conclusiva (vi ricordate Velluto blu?), lascia assolutamente senza parole.

Allora, al di là del fatto che (o proprio perché) dietro la macchina da presa c’è un simile mostro sacro, è così difficile accettare il fatto che il remake abbia superato l’originale? In realtà, questa domanda non me la vorrei porre, non mi interessa, e la ignorerò il più possibile. In fondo, se Infernal affairs fosse uscito in Italia invece che essere relegato agli scaffali delle videoteche, così indiscreti e indistinti, non sarebbe forse anch’esso uno dei film più belli dell’anno? Però, se proprio qualcuno ci tenesse, allora sì: ho l’impressione che The departed, di quel bellissimo film che è Infernal affairs e che ora non vedete l’ora di recuperare, e che amerete, sia un remake superiore, e comunque un magnifico, grandissimo film.

Un film fatto di quieti di sconcerto e di tempeste di meraviglia. Se fossi in voi mi leccherei le dita fino a consumarle.