United 93
di Paul Greengrass, 2006
Già per il fatto che per una metà abbondante del film (quasi un’ora) non vediamo che una serie ininterrotta di telefonate e telefonate tra i capi dei punti di comando aereo a terra, mostruosamente inadatti ad affrontare ciò che stava avvenendo quella mattina, 11 Settembre 2001, e per il fatto che ciò non crea nello spettatore noia (tipo "ma ci fate vedere questo aereo o no?") ma – al di là della pregnanza politica e umana del caso – un senso di ansia inesplicabile, dovremmo suonare a casa del signor Greengrass (che ha uno sguardo "esterno", e in tutta grazia si vede, eccome) e stringergli la mano.
Aggiunto a questo, è davvero impressionante il modo in cui Greengrass, anche come sceneggiatore, interviene sugli stilemi del film catastrofico ribaltandoli dall’interno, in tempi poi in cui si pensava che il genere non avesse forse più nulla da dire perché "la realtà ha superato la fantasia". Non solo per il "sezionamento" crudele del film, in cui l’aereo e i suoi passeggeri – una enorme tribù di splendide facce anonime da b-movie – diventano protagonisti, in senso tradizionale, praticamente solo nell’ultima mezz’ora (o meno) e tutto d’un tratto, "a cose fatte", ma anche per il modo in cui si evita con cura ogni forma classica di identificazione, personificazione, melodramma, metafora.
Ma tutto questo contribuirebbe, volendo, a rendere United 93 niente più – si badi: non è poco – che un secco e spettacolare prodotto di intrattenimento, assolutamente non cinico nonostante ciò ma in grado di adattare il senso di realtà a quelli che sono i linguaggi del thrilling. Non è denuncia anche se si denuncia, e non c’è retorica perché proprio non serve, non ce n’è bisogno. Ma quello che, al di là dei molti pregi , rende United 93 un film davvero prezioso, è invece il suo impatto emotivo. Davvero impressionante.
Sono, appunto, quei molti minuti finali, con le famose "telefonate a casa" e l’ammutinamento disperato del volo 93, in cui nella "gente" si rivede la stessa innata, "fatale" indecisione, e impreparazione alla morte, di cui erano succubi i generali (quei cinque minuti in cui i passeggeri "perdono tempo" a passarsi la notizia di quanto stava accadendo a New York), e in cui tutta la tensione accumulata – anche perché quell’aereo è una tomba, e quelli sono fantasmi: lo sappiamo tutti fin dalla prima inquadratura del mezzo – esplode in un finale di sette minuti sette, assolutamente straordinario per come sa rappresentare l’avvento del caos e il declino definitivo dell’umano istinto di sopravvivenza.
Sfido qualunque complottista, o semi-complottista come mi è capitato di essere, a non stringere le lenzuola tra i pugni, scalciando i piedi in fondo al letto e asciugandosi le lacrime tra i singhiozzi e i singulti. Come ho fatto io, insomma. Un film quasi incredibile sull’assoluta impotenza degli innocenti di fronte all’inevitabilità della Storia, sul volto sconvolto degli uomini di fronte alla civiltà che collassa, e uno dei film più tesi e strazianti degli ultimi mesi.
Su Youtube, gli ultimi sette minuti del film. Io non lo definirei nemmeno uno spoiler, ma fate voi.