dicembre 2006

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[il classificone 2006]

1. Lady Vendetta di Park Chan-wook

2. Il labirinto del fauno
di Guillermo del Toro
3. The new world di Terrence Malick
4. Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro di Steve Box e Nick Park
5. La casa del diavolo di Rob Zombie
6. The departed di Martin Scorsese
7. Grizzly man di Werner Herzog
8. The prestige di Christopher Nolan
9. Ghost in the shell – L’attacco dei Cyborg di Mamoru Oshii

10. Match point di Woody Allen
11. Children of men – I figli degli uomini di Alfonso Cuaron
12. Miami Vice di Michael Mann
13. Nuovomondo di Emanuele Crialese
14. La spina del diavolo di Guillermo del Toro
15. 13 – Tzameti di Géla Babluani
16. Il diamante bianco di Werner Herzog
17. Cars – Motori ruggenti di John Lasseter
18. Il caimano di Nanni Moretti
19. Inside man di Spike Lee
20. Il calamaro e la balena di Noah Baumbach
21. Le tre sepolture di Tommy Lee Jones
22. V per vendetta di James McTeigue
23. Marie-Antoinette di Sofia Coppola
24. United 93 di Paul Greengrass
25. Shortbus di John Cameron Mitchell

The black dahlia di Brian De Palma
Truman Capote: A sangue freddo di Bennett Miller
Lady in the water di M. Night Shyamalan
L’incubo di Darwin di Hubert Sauper
Bittersweet life di Kim Ji-woon
Scoop di Woody Allen
Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio
Orgoglio e pregiudizio di Joe Wright
Arrivederci amore, ciao di Michele Soavi
Superman returns di Bryan Singer
Munich di Steven Spielberg
A scanner darkly di Richard Linklater
Anche libero va bene di Kim Rossi Stuart
The queen di Stephen Frears
Mission:impossible 3 di JJ Abrams
I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee
Radio America di Robert Altman
L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino
Thumbsucker di Mike Mills
La stella che non c’è di Gianni Amelio
Ricky Bobby di Adam McKay
Slevin – Patto criminale di Paul McGuigan
Slither di James Gunn
Thank you for smoking di Jason Reitman
Clerks II di Kevin Smith
Rize di David LaChapelle
Alien Autopsy di Jonny Campbell

Hooligans
di Lexi Alexander
Romance & cigarettes di John Turturro
Time di Kim Ki-duk
Flags of our fathers di Clint Eastwood
Piano 17 dei Manetti Bros
Volver di Pedro Almodovar
L’amore sospetto di Emanuele Carrère
Monster house di Gil Kenan
Il diavolo veste Prada di David Frankel
The weather man di Gore Verbinski
Silent Hill di Christophe Gans
Imagine me & you di Ol Parker
N (Io e Napoleone) di Paolo Virzì
Transamerica di Duncan Tucker
Cacciatore di teste di Costa-Gavras
Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti di Cory Edwards
C.R.A.Z.Y. di Jean-Marc Vallée
False verità di Atom Egoyan
Spia + spia – Due superagenti armati fino ai denti di Javier Fesser

La gang del bosco di Tim Johnson e Karey Kirkpatrick
Super nacho di Jared Hess
Ti odio, ti lascio, ti… di Peyton Reed
Cuori di Alain Resnais
Little miss sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris
Jarhead di Sam Mendes
Quando l’amore brucia l’anima di James Mangold
Scary movie 4 di David Zucker
Hostel di Eli Roth
Pasolini prossimo nostro di Giuseppe Bertolucci
Syriana di Stephen Gaghan
La cura del gorilla di Carlo Sigon
Ultraviolet di Kurt Wimmer

Saw 2 di Darren Lynn Bousman
Le colline hanno gli occhi di Alexandre Aja
Hot movie di Aaron Seltzer
Pirati dei caraibi: La maledizione del forziere fantasma di Gore Verbinski
L’era glaciale 2 di Carlos Saldanha
The red shoes di Kim Yong-gyun
Battaglia nel cielo di Carlos Reygadas
40 anni vergine di Judd Apatow

X-Men: Conflitto finale di Brett Ratner
Boog e Elliot a caccia di amici di Roger Allers, Jill Culton e Anthony Stacchi        
Doom di Andrzej Bartkowiak
Æon Flux di Karyn Kusama

NOTE
- buona parte delle seguenti note è pressoché incollata da quelle dell’anno scorso, perché sono pigro. Curiosamente, anche quest’anno c’è una "top 9" e una "top 25". Giuro che non l’ho fatto apposta.
- nello stilare il classificone mi sono basato sul sistema della connection, quindi sui miei "voti" dati durante l’anno. Insomma, i "settori" del classificone corrispondono alle "pallette".
Quindi, nessuna sorpresa.
- nonostante ciò, qualche "voto" è cambiato con il passare del tempo, e così anche la posizione. Niente di drastico, comunque.
- ogni commento è ben gradito, polemiche e vespai compresi. Con la cognizione però che questo è solo un gioco, e che preso così è anche piuttosto divertente.

Ci si rivede da queste parti nei primi giorni del 2007.
Buon anno a tutti. E ancora grazie.

L’arte del sogno (La science des rêves)
di Michel Gondry, 2006


"Will you marry me when you are seventy and have nothing to lose?"

Attendevamo così tanto il terzo film di Michel Gondry dopo le meraviglie di Eternal sunshine of the spotless mind da non poter non avere qualche paura. Per l’assenza di Charlie Kaufman in sede di sceneggiatura (qui tutta farina del sacco di Gondry), per lo spostamento eurocentrico e paneuropeista (il film è ambientato in Francia e recitato in francese, inglese e spagnolo), per mille altri irragionevoli motivi. Ma, sempre se vi fidate, potete stare tranquilli: La science des rêves è un film magnifico.

In fondo lo spirito (romantico, romanticissimo) che lo muove è lo stesso del precedente: una storia tanto ironica e divertente quanto sottilmente disperata sull’impossibilità di amarsi e sull’incontro e lo scontro tra la realtà, la memoria e il sogno. Ma questa volta, invece che sottolineare l’irresistibile ma irriproducibile cerebralità kaufmaniana, Gondry decide di raccontare la sua storia d’amore con un’incredibile leggerezza, a volte davvero commovente in modo inspiegabile (perché gli basta una frase, o uno sguardo), che ha le sue radici più profonde nella tradizione della Nouvelle vague, ma che va anche oltre.

Perché è vero che il piglio registico è più tradizionalmente "europeo" che in ESOTSM (predilezione per la camera a mano, apparente predominio del piano diegetico su quello visivo), ma lo è solo in apparenza: perché quando la fantasia e l’estro del quarantatreenne regista versaillais prendono forma, ogni struttura implode, ghiaccia, esplode, prende fuoco, riconfermando Gondry come uno dei massimi affrescatori di sogni del cinema contemporaneo. Sogni che sono i nostri desideri, ma anche le nostre più profonde paure. Come quella di affrontare un mondo che alterna noia e avversità, e a confronto del quale la fase REM è un giaciglio ben più comodo e poetico su cui costruire la propria identità.

Quindi, quando la storia di Stéphane e Stéphanie si è dipanata, non ci importa quasi più lo spassoso e complicato rimescolamento della realtà compiuto da Gondry, che pone l’ultima parte del film – quasi irraccontabile, e sicuramente non razionalizzabile – e su un piano altro rispetto al mondo a cui il cinema ci ha abituati. Rimane piuttosto nel cuore quella vita vera da ricostruire a partire da, e abbandonando, i propri sogni. Una foresta in una barca bianca che cerca il suo mare. E una carezza, una tiepida e dolcissima speranza.

Nei cinema dal 19 Gennaio 2007

Nota: questa volta siamo sfuggiti al disastro del titolo. Bene. Speriamo solo che la Mikado (nella nuova gestione De Agostini) lanci il film in modo decente e faccia realizzare un doppiaggio quantomeno intelligente. Inutile dire che L’arte del sogno andrebbe visto nella sua versione originale, visto il crogiuolo di lingue coinvolte, ma sapremo accontentarci. Ci contiamo.

The Prestige, Christopher Nolan 2006

The prestige
di Christopher Nolan, 2006

“Do you love me?”
“Not today.”

Messo subito in campo – come già accennato in un commento – che l’attesissima nuova opera di Christopher Nolan è davvero un film eccellente, strabiliante al di sopra delle più rosee aspettative, è evidente per chi abbia avuto l’occasione e la fortuna di vederlo – e ne è esempio l’incredibile post stracciaocchi di Ohdaesu – quanto sia difficile parlarne senza fare affidamento ai dubbi e alle certezze causati dai complicatissimi sviluppi narrativi del film stesso. Perché The prestige è fatto di trucchi (più che altro di metatrucchi) simili a quelli proposti, ormai si sa, dai fascinosi illusionisti ottocenteschi dalle fattezze (e che fattezze) di Hugh Jackman e Christian Bale.

Al di là della discussione, altrove attivissima, sullo “svelamento anticipato” proposto con scaltrezza dall’abilissima sceneggiatura dei fratelli Nolan, in realtà completamente funzionale ad uno sviluppo metaforico che è sia riflessione sincronica sui meccanismi del cinema (nei rapporti tra costruzione del piano filmico e sospensione dell’incredulità), sia riflessione storica sul senso e sulla natura più archetipica del cinema (perché lo “scarto” tra illusione e magia, tra ingenuità e progresso, avviene, non a caso, negli ultimi anni dell’ottocento), rimane ben poco da dire. Oppure troppo.

La verità è che The prestige, sebbene la sua bellezza fuor dell’ordinario sia anche in qualche modo legata, come si è appena cercato di far capire, ai suoi inganni strutturali e alla sua accuratezza formale (non dimentichiamocelo, un film estremamente raffinato sotto il profilo visivo), è un film che sorprende per l’incredibile piacevolezza che accompagna il racconto (una storia di amore e ossessione assolutamente appassionante) oltre che per la cura nei dettagli e nella definizione dei personaggi (grazie a interpretazioni perfette come l’ineffabile presenza di David Bowie, pura fotogenia), in un’ottica che riavvicina un oggetto tendenzialmente – e pericolosamente – cerebrale, al puro piacere del cinema d’intrattenimento, e che lo fa con un’intensità che si poteva sperare ma che davvero non ci si aspettava.

Senza contare la frustrante – e quindi riuscitissima – sensazione di smarrimento e inquietudine che coglie inevitabilmente lo spettatore alla fine del film e nei giorni a seguire, a prescindere dalla quantità di dettagli che possano essere stati svelati da un occhio non del tutto passivo (o distratto) (o ubriaco). Perché dopotutto, mentre guardi una mano, con l’altra mano l’llusionista ti rapisce, e ti tira una sberla. Abracadabra.

“Now you’re looking for the secret… but you won’t find it because you’re not really looking. You don’t really want to know the secret… You want to be fooled.”

Dreamgirls
di Bill Condon, 2006

"You got the same wig as me?"
"Yeah."
"You got same the same dress as me?"
"Yeah."
"Then shut up."

L’adattamento cinematografico dell’omonimo musical di Broadway ci ha messo ben venticinque anni a trovare un posto sullo schermo. Una volta arrivato, ha trovato un consenso di critica quasi unanime, e – dalle prime anteprime, visto che negli States usciva ufficialmente ieri – anche un ottimo successo tra il pubblico. Ora, tutto questo clamore è forse esagerato, perché Dreamgirls non è un film eccezionale. Ma con tutte le dovute cautele, si poteva fare molto di peggio, e non annoiarsi troppo con un film simile è già un bel risultato.

Vent’anni di black pop (dal 1963 ai late seventies) ispirati alle vicende della Motown e delle Supremes (con Beyoncé Knowles, spaventosamente figa e anche – stranamente – molto brava, a fare la Diana Ross della situazione) spalmati in due ore con piglio frizzante anche se vagamente televisivo, con una predominanza dei numeri musicali "da palcoscenico" intrammezzati da alcuni musical dialogues (ottimo It’s all over), e una qualità altalenante: un primo terzo davvero scoppiettante, alcune (parecchie) cadute di ritmo e cessioni alla banalità da melò del pomeriggio, una decisa risalita e un finale collaudatamente strappalacrime. A qualcun altro.

Ma tutto ciò raccontato con una tenuta narrativa decorosa e senza tentazioni all’ingrasso: per una volta, un registro settato sulla mediocrità non fa troppi danni. Vabbè, è scritto e diretto da un bianco, e al di là della sua evidente passione Condon non è questa cima, e non sfugge nemmeno a qualche luogo comune sui neri di Detroit. Il numero musicale su Family, poi, è una delle più tremende esperienze di imbarazzo spettatoriale che mi siano capitate, talmente fuori luogo da sembrare brutta apposta. Son cose.

Ma insomma, tutto sommato Dreamgirls si fa guardare. Gran parte del merito va però attribuito il cast all black, l’unico elemento del film a elevarsi davvero sopra la media. E se Eddie Murphy eroinomane e rinsavito dai suoi ormai insopportabili travestimento è davvero una bellissima riscoperta, e comprimari  come l’invecchiatissimo Danny Glover fanno il loro porco lavoro, tutti impazziranno per la mia coetanea Jennifer Hudson, American Idol cicciottella e antipatica già in odore – fortissimo – di Oscar.

Che poi normalmente se io sento una cantare così, urlando come una pazza fino a che non le si stacca la gola, cambio immediatamente stazione/disco, o spacco direttamente lo stereo a bastonate. Tipo, se pensavate di regalarmi la colonna sonora di Dreamgirls per Natale, ecco, lasciate stare. Grazie lo stesso. Carino da parte vostra ma no grazie. Nel contesto però – strano a dirsi – ci sta tutta, eccome.

Nelle sale italiane dal 26 Gennaio 2007

[goodbye]

James Brown, 1933-2006

[sono stati i Duke, sono stati i Duke]

Buon Natale a tuttissimi quantissimi.

[in attesa i post su Dreamgirls, L’arte del sogno, e The Prestige]
[perché è pur sempre un cineblog]

La guerra dei fiori rossi (Kan shang qu hen mei)
di Zhang Yuan, 2006


In queste ore pare che splinder abbia il suo solito ciclo mestruale. Quindi probabilmente non leggerete questo post. Ma se state leggendo queste righe, ecco, allora significa che state leggendo questo post.

Il nuovo film del regista Zhang Yuan, noto soprattutto per il Diciassette anni che fece incetta di premi minori a Venezia nel cinesissimo anno del Leone d’Oro a Non uno di meno, ci ha messo diverso tempo a trovare il suo posto nelle nostre sale. Passato a Berlino, ad Alba e addirittura al Sundance, nel suo paese coproduttore (ovvero il nostro) arriverà solo all’inizio del prossimo anno.

Ma l’attesa, pur non enorme, va detto, ma incuriosita – e c’è da aspettarsi una distribuzione sbriciolata ai minimi termini – non era nemmeno così meritata: Zhang Yuan confeziona un filmetto gentile, insignificante e noiosetto, che cerca di barcamenarsi tra una visione "critica" della società cinese, con un inno all’anarchia pura in contrasto con la militarizzazione (e castrazione) degli istinti primari infantili, e un ritratto pessimista ma troppo ambiguo di un destino di solitudine che attende proprio chi esce dai ranghi e scappa per imparare di nuovo a giocare.

Azzeccando magari qualche scena, ma sbilanciandosi troppo poco nel tentativo di fare uno Zero in condotta davvero fuori tempo. Ma al di là dei temi, che sono interessanti più sulla carta che sullo schermo, il problema principale di La guerra dei fiori rossi è il modo in cui vengono affrontati: perché insomma, vedere un gruppo di bambini che marcia in fila indiana nel cortile mentre accanto a loro si svolge una rigidissima esercitazione militare – seguìto dai bambini stessi che scherzano facendo il saluto e che "giocano alla guerra" – regala davvero un nuovo significato alla parola "didascalico".

Coprodotto dalla Downtown Pictures di Marco Müller, e l’intervento italiano è a volte diretto, per esempio nel montaggio di Jacopo Quadri (che fa il suo accademico lavoro senza troppe sbavature) e nelle musiche dell’ex-bellocchiano Carlo Crivelli. Sono proprio queste ultime forse a dare la mazzata finale ad un film già di per sè abbastanza malriuscito: invadenti e inutilmente pompose, ricercano un contrasto usando toni da commedia o da thriller, ma risultano soltanto note stonate.

Grandi speranze per la deliziosa Li Xiaofeng. Papà papà, mi compri quella cinese lì?

Nelle sale italiane dal 12 Gennaio 2007

Una scomoda verità (An inconvenient truth)
di Davis Guggenheim, 2006


"I’m Al Gore, I used to be the next president of the United States. I don’t find that particularly funny."

Il film di Davis Guggenheim, figlio del premiatissimo documentarista Charles, è una sorta di "versione filmata" dello slide show che che Al Gore, ex (e forse anche futuro) candidato dei Democratici per la Presidenza degli Stati Uniti, tiene da molti anni in giro per il mondo, illustrando con l’ausilio di dati scientifici e con un tono tendenzialmente demagogico, ma senza dubbio di grande effetto, le cause e le possibili conseguenze del global warming. E soprattutto negli Stati Uniti, la cui attuale amministrazione, come tutti sappiamo (vero? vero che lo sappiamo? eh?), non ha aderito al protocollo di Kyoto (come direbbe il Bush di Crozza, "perché non so cosa vuol dire protocollo") l’argomento è tra più caldi che si possano affrontare.

Mentre metà abbondante del film è appunto lo slide show filmato, il resto si concentra sulla figura pubblica e anche privata di Gore, narrata dalla sua viva voce. E fa un effetto un po’ strano sapere tutti questi particolari su di lui, visto che dalle nostre parti ai tempi della sua candidatura era considerato più che altro – o meglio, raccontato come – una mera controparte di Bush, mentre dal documentario ne esce l’immagine di un uomo entrato nella vita politica proprio per combattere queste battaglie, e uno che di ambiente si è sempre occupato come priorità politica e umana. Ed è questo forse l’aspetto più interessante – o forse il più inatteso – del film: non solo argomenti tanto interessanti quanto inquietanti (a tratti terrificanti e spaventosi), ma anche un film su un uomo e la sua personale ossessione.

Che poi questa ossessione sia vera o meno, che insomma Gore sia in buona fede o meno, che sia tutta campagna elettorale come molti maligni hanno scritto (anche se il film ha ottenuto giustamente un’accoglienza critica molto più che entusiasta) o meno, non sta a noi deciderlo. E non ci importa nemmeno. Perché quello che An inconvenient truth trasmette è un messaggio giusto, è un messaggio che trascende assolutamente le schermaglie politiche, ed è un messaggio che abbiamo voglia (e paura) di sentire, che abbiamo bisogno di sentire. In un certo senso, guardando il film si fa persino poco caso all’immagine agiografica, quasi da martire, che Guggenheim fa di Gore, e che soprattutto Gore fa di se stesso. Perché quello che è certo, e quello che conta, è che simili dubbi non annullano né sminuiscono l’incredibile, incredibile impatto emotivo – e l’importanza – di ciò che ci viene detto.

L’unica cosa che rimane da dire è che questo film va visto. Punto. Qualche critico negli States l’ha definito un "dovere morale", e per gli statunitensi – responsabili di un terzo del riscaldamento del globo – non è propriamente un’iperbole. Per quanto riguarda noi italiani, se anche qualcuno ha vivaddio deciso per noi che aderiamo al protocollo di Kyoto, non mi sembra il caso di sentirci meno colpevoli e non significa che dobbiamo comprarci tutti un Cayenne.

Quindi, andate a vederlo. Il film esce al cinema il 19 Gennaio 2007. Andate a vederlo. Non è un affaire politico, la destra e la sinistra qui non c’entrano niente. Andate a vederlo. Non volete spendere soldi? Procuratevelo in qualche altro modo. Non avete nemmeno un’ora e mezza di tempo? Uff. Fatevi un giro da queste parti, e poi ne riparliamo.

[prestigioso]

L’ultimo episodio di Friday Prejudice del 2006. Clicca.

[scampoli di duemilasette]

(quattro) post in attesa.
Nei prossimi giorni, su questo blog. Stay fed.

[twentyfive is the magic number]

I miei venticinque dischi del 2006.

Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy (Anchorman – The legend of Ron Burgundy)
di Adam McKay, 2004

"Guess what, I do. I know that one day Veronica and I are gonna to get married on top of a mountain, and there’s going to be flutes playing and trombones and flowers and garlands of fresh herbs. And we will dance till the sun rises. And then our children will form a family band. And we will tour the countryside and you won’t be invited."

Per parlare di questo film si potrebbe ripetere molto di quanto già detto riguardo Ricky Bobby in questo post: stesso regista, stesso protagonista e sceneggiatore (Will Ferrell), alcuni membri del cast in comune, e soprattutto lo stesso stile: ovvero, una commedia di stampo e di struttura classica (e quindi, in un modo o nell’altro, molto prevedibile e collaudata) ma declinata attraverso una sceneggiatura surreale, caustica e irresistibile.

Ma Anchorman, che non è uscito nelle nostre sale ma si può trovare (a fatica) in dvd in italiano, e che comunque va giudicato anche per quello che è, tutto sommato (ovvero una minchiata, ecco, pure se in un’accezione gentile) ha persino qualcosa in più. Ha una quantità maggiore e indecente di scene in cui ci si trattiene a fatica da risate starnazzanti: perlopiù sono i dialoghi a fare questo effetto, ma anche sequenze come la street battle tra le crew televisive (in cui spuntano Luke Wilson, Ben Stiller, Vince Vaughn e Tim Robbins) oppure quella della morte del cane (in cui spunta Jack Black: ma che sono, tutti amici?), o la scena animata a Pleasure Town.

E poi c’è il personaggio marginale ma stupefacente di Brick, il meteorologo idiota intepretato da Steve Carell. Se più persone avessero visto Anchorman, io compreso, non lo si sarebbe trattato così male solo perché ha fatto quella schifezza di 40 Year Old Virgin. Oh scusami, Steve.

"Discovered by the Germans in 1904, they named it San Diego, which of course in German means a whale’s vagina."
"No, there’s no way that’s correct."
"I’m sorry, I was trying to impress you. I don’t know what it means. I’ll be honest, I don’t think anyone knows what it means anymore. Scholars maintain that the translation was lost hundreds of years ago."
"Doesn’t it mean Saint Diego?"
"No. No."
"No, that’s – that’s what it means. Really."
"Agree to disagree."

Un montaggio di alcune scene del film con Steve Carell.

Afternoon delight. Sounds like you have mental problems, man.

Alien autopsy – Una storia vera (Alien autopsy)
di Jonny Campbell, 2006

"You know, strictly speaking, it’s not actually a fake. lt’s more of a remake. You’ve got to remember that."

Uscito in italia alla fine di Agosto, Alien Autopsy è una commedia britannica che racconta una versione "romanzata" delle vicende che portarono alla produzione del famoso "filmato dell’autopsia aliena", oggetto di discussione per molti anni e rivelatosi – proprio nei giorni in cui il film usciva in patria, niente male come pubblicità ma non utilissima – un falso girato tra amici in un appartamento. Anche se il suo autore Ray Santilli continua a sostenere che si trattò di una replica di un filmato realmente esistito, e andato perduto.

Forse a noi italiani mancano un po’ di riferimenti, prima di tutto perché non sappiamo chi diavolo siano i due protagonisti Ant & Dec, presentatori televisivi di enorme successo nel Regno Unito, e perché quel filmato dell’autopsia aliena spuntato fuori dal nulla nel 1995 colpì il nostro immaginario collettivo meno di quanto fece nel mondo anglosassone. Per dire, molto meno di quanto non fece X-Files, senza contare che la moda degli UFO da noi è passata da un bel po’. Ragion per cui nessuno si è accorto di quest’uscita: pur senza entusiasmi eccessivi, è un peccato.

Perché nonostante il voto inspiegabilmente basso su IMDB, il film è una visione molto piacevole, lo stile è meno piatto di quello che ci si poteva aspettare da un prodotto di tale derivazione televisiva, ci sono un paio di camei davvero eccellenti (Bill Pullman e Harry Dean Stanton), e l’umorismo piacevolmente british, spesso quietissimo, è ricco di trovate. Recuperabile.

L’era glaciale 2 – Il disgelo (Ice age: The meltdown)
di Carlos Saldanha, 2006

Non era difficile intuire una parabola discendente nella qualità dei film della Blue Sky, lo studio d’animazione della Fox. Bastava guardare Robots. Gesù, Robots. Ebbene, The meltdown fa persino peggio. Al punto che vengono dei seri dubbi sul notevole apprezzamento che anni fa ebbi nei confronti del primo episodio, che trovai l’unica possibile alternativa davvero valida al dominio artistico della Pixar. Sbagliavo? Mah.

Forse è l’assenza di Chris Wedge (Saldanha era il co-regista degli altri due film – secondo me Wedge dopo aver letto una sceneggiatura simile ha pensato bene di scansarsi, pur continuando a doppiare Scrat), o forse semplicemente l’assenza di un qualsiasi motivo di interesse: i personaggi nuovi sono insensati e fanno cose insensate (Ellie scopre di essere un mammuth e non un opossum? Mh, ok, migriamo. Ma per favore), i personaggi vecchi non hanno più alcuna motivazione narrativa (Diego ha paura dell’acqua? Yawn), la storiella familiar-castrante sa terribilmente di attaccaticcio, le gag sono volgarotte eppure il target è evidentemente bassissimo, molto più del solito. Persino Sid non strappa più una risata che sia una. Giuro.

Ma è chiaro che tanto, da qualunque parte lo si guardi, tutto in The meltdown è un pretesto per proponarci un’altra (persino più corposa) manciata di gag con protagonista l’insopportabile scoiattolo Scrat. Potesse morire una buona volta, Scrat. Muori, maledetto scoiattolo.

[revisionismo]



"Questa è una domanda a cui non le voglio rispondere adesso.
No anzi credo che non le risponderò mai."

[per me si va]

desicaboldibonolisbisiosalemmerubinighinisantarelliestradascott

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

[goodbye]

Peter Boyle (1935 – 2006)

[tonite]

Cansei de Ser Sexy @ Transilvania Live, Milano
official site, myspace, wikipedia, last.fm

[Alala video directed by Cat Solen]

The host (Gwoemul)
di Bong Joon-ho, 2006

"L’avete mai sentito dire? Il cuore di un padre che perde un figlio… Quando il cuore di un padre si spezza quel suono viaggia per chilometri. Ecco, avevo proprio bisogno di dirvelo."

Non si poteva chiedere di più, dal terzo film di uno dei migliori registi della Corea del Sud, già responsabile del bizzarro Barking dogs never bite e soprattutto del meraviglioso Memories of murder, perché The host è qualcosa più che un – innegabilmente – ottimo film di intrattenimento. Che già basterebbe. E lo è proprio nel senso in cui abbiamo imparato negli anni ad amare il cinema di Seoul e dintorni, ovvero una perfetta sintesi di uno schietto animo commerciale (il film è costato – e ha incassato – moltissimo, e produttivamente è un autentico blockbuster), l’interesse tutto coreano per lo studio dei generi e il pastiche (un family drama with monster?), l’amore spudorato per il melodramma e il disamore per le "risoluzioni semplici", e un discorso politico e sociale spesso sotteso che in questo caso non si ferma alla metafora ma – ancora una volta, grazie ai riferimenti alla cronaca – colpisce dove fa più male.

The host è insomma tutto ciò, un film complesso ma mostruosamente divertente – nel mio caso con sbalzi di entusiasmo quasi infantile – con tocchi di ironia inattesa (i figli che si addormentano mentre il padre fa "il" discorso) ma con un finale delicatissimo, intimo e commovente. E poi, un film visivamente stupendo, con una ricercatezza nella scelta dell’inquadratura che nel cinema mainstream occidentale generalmente ci sognamo, e un numero incredibile di scene al cardiopalma e girate con una straordinaria perizia tecnica (spesso piani lunghi, lunghissimi , con il mostro che "danza" insieme ai e sui movimenti di macchina) ma alternate a una "cornice" che si prende i suoi tempi e che va a pescare nei cuori dei personaggi grazie solo a uno sguardo (il cast in questo è eccezionale, nessuno escluso – ovvia la preferenza per Song Kang-ho).

E un mostro grosso, grossissimo, che sì afferra le persone con la coda e vomita ossa, ma che soprattutto, con la sua apparizione subitanea – la scena sul fiume è roba da antologia del cinema di genere – e con la sua presenza continua (e non "negata" come accade ormai da molti anni nel cinema horror occidentale e non solo) ribalta tutto da solo molte concezioni e convenzioni contemporanee dello "spavento" dai tempi di Alien. Permettendosi anche di concentrarsi anche su altro, sulla storia di una famiglia che lotta per la sopravvivenza, di uomini che si (ri)scoprono padri, e si (ri)scoprono figli e fratelli, e anche su quella di un paese, inconscio prigioniero culturale, vessato da un’occupazione a metà come quella di molti altri, e di una terra che si solleva dall’acqua, e si rivolta mordendo.

The host è un film che riappacifica totalmente con un cinema che ci mancava tantissimo, che – tolti i soliti noti ormai assunti alla notorietà globale – stavamo per dare per spacciato, ma che, finché ci sarà gente di cinema come Bong, continueremo ad amare e seguire con passione.

Non vedremo questo splendido film in Italia, e forse non ce lo meritiamo. Tre cinepanettoni, e nessun mostro grosso? Sappiate che con un briciolo di impegno e pazienza – voi sapete come, sennò chiedete pure al sottoscritto – ora potrete possederlo in una qualità molto più che dignitosa. E vendicarvi così dei signori che l’hanno bellamente ignorato.

Oppure potete comprarlo qui. Seh.

Memorabilia: [The Mostro Grosso Blog Aggregator]

Ricky Bobby – La storia di un uomo che sapeva contare fino a uno (Talladega Nights: The ballad of Ricky Bobby)
di Adam McKay, 2006

Di cose che non sopporto, ce ne sono parecchie, in Ricky Bobby. E chiamiamolo così che siamo più contenti tutti, evitando ogni altra possibile polemica su quel neretto là sopra, che è davvero un tantino imbarazzante. Ci sono gag tirate avanti per interminabili minuti senza ritegno. Ci sono gli infratormentoni come "Shake and bake". C’è una morale facilona e ingenua e un ricongiungimento familiare assolutamente improponibile. Tanto per dire, c’è Will Ferrell.

Ma Ricky Bobby è un film che, almeno nella versione originale, fa sganasciare dalle risate. Non perché sia più intelligente o brillante della media, anzi, ma perché lo script e la regia azzeccano subito il tono (vagamente televisivo nei linguaggi e nei riferimenti, ma nell’accezione migliore possibile) con scene come quella della preghiera a tavola – incredibilmente spassosa nonostante l’insostenibilità dei tempi comici – e perseverano portandolo alle estreme conseguenze, con il risultato di un film davvero molto naif, ma con un parco attori spaventoso (tutti terribilmente in parte – Sacha Baron Cohen che guida leggendo lo Straniero di Camus, santo subito) e una sceneggiatura talmente piena di perle che invece di questo post avrei potute trascriverne un paio, che sono pigro.

Per esempio.

"Hey, um… you know sweetie, Jesus did grow up. You don’t always have to call him baby. It’s a bit odd and off puttin’ to pray to a baby."
"Well look, I like the Christmas Jesus best, and I’m sayin grace. When you say grace, you can say it to grown up Jesus, or teenage Jesus, or bearded Jesus, or whatever you want."
"I like to think of Jesus as a mischievous badger. I like to think of Jesus as an Ice Dancer, dressed in an all-white jumpsuit, and doing an interpretive dance of my life. I like to picture Jesus in a tuxedo T-Shirt because it says I want to be formal, but I’m here to party. I had a dream where Jesus was a dirty old bum, and I was about to sock him in the face because, well he’s a dirty old bum, but then I thought, theres something special about him…"
"Because it was Jesus, right…"
"Yeah…"