2006

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[amen]

"I can’t decide which I find scarier: religious fundamentalists, people who think the Bush administration deliberately blew up the Twin Towers, or anyone who actually enjoyed the Pirates of the Caribbean sequel after the first hour. Why aren’t conspiracy wackos trying to explain why that sea monster kept coming back to attack that pirate ship for what felt like at least 200 computer-generated battles? And isn’t there some shady international cabal behind the glut of animated films that feature cows, raccons, and bears behaving like frat boys, and shouting "Rock on!" once the farmers or hunters or vacationers have turned their backs?"

Libby Gelman-Waxner, "Kicking Asp", Premiere, November 2006

[post in attesa]

Cuori (Coeurs)
di Alain Resnais, 2006

Capisci che un film non è proprio riuscito quando ti giri continuamente durante la proiezione per controllare se anche le persone accanto a te stanno provando le tue stesse sensazioni (nell’ordine: noia, nervosismo, insofferenza, eccetera) oppure se stanno vedendo un altro film ed è semplicemente il tuo gusto che non si è ben appaiato con le tue aspettative. In questo caso, notevoli queste e decisamente sconfortato quello.

Perché va bene che hai 84 anni e quindi non sai precisamente che cosa diavolo stai facendo (la costruzione è effettivamente mediocre persino nel caso dell’unico personaggio vero e sensato, quello di Sabine Azéma) e il tuo livello mentale è probabilmente quello dell’anziano scorbutico Arthur, ma c’è davvero un limite a tutto. L’idea di "cinema corale" di Resnais è in realtà una serie di scenette autonome e separate che danno l’impressione di un’improvvisata recita teatrale parrocchiale in cui dopo ogni scenetta gli attori si cambiano sul palco. Un’idea di cinema abbastanza primitiva e fastidiosa, e senza una vera idea di sceneggiatura.

Bello da vedere, ecco: la regia è eccellente (con alcuni bellissimi piani-sequenza con focale corta, come quello di apertura, riprese dall’alto che schiacciano i personaggi) e altrettanto la fotografia di Eric Gautier. Ma è tutto terribilmente artificioso e freddo (ma non nel senso in cui vorrebbe esserlo: la neve nei cuori qui non attacca, monsieur Resnais), forse anche per la recitazione costruita su un uso eccessivo e fuoriluogo della pantomima, e grazie a cui le sequenze vanno dalla più totale indifferenza alla voglia di entrare nello schermo e fare una strage. E la mia un-tempo adorata Laura Morante, sì, come temevo, si accende almeno una sigaretta tremando.

Ma la cosa per cui ci ricorderemo per sempre Coeurs, e che probabilmente tornerà a farci visita sul letto di morte, è la dissolvenza con la neve. Oh! voi anime perdute che avete ancora tanta voglia di vedere questo film, sappiate che ogni. singola. scena. di Coeurs è separata dalla successiva da una lunga dissolvenza incrociata con l’immagine della neve cadente. Signore e signori, lo snowfade. Ma siamo pazzi? Stiamo scherzando? No, non avete idea.

May, Lucky McKee 2002

May
di Lucky McKee, 2002

“So many pretty parts and no pretty wholes.”

Ragioni per cui recuperare e vedere May? Angela Bettis. Tutto l’incipit, memorabile, con un flashback da un occhio strappato e pezzi di bambola che cadono nel buio. “What the hell is a scupel?”. I titoli di testa cuciti. Il prurito agli occhi. L’eccezionale Anna Faris in versione lesbo. I flash-forward improvvisi. Il tatuaggio di Frankenstein. “Are you a pirate?”. Lucky McKee che limona in ascensore. “I like weird. I like weird a lot”. Un pacchetto di sigarette come feticcio. Tutto il finale, che a raccontarvelo vi fareste due risate, e che invece per qualche bizzarra ragione risulta quasi struggente. “See me!”. E Angela Bettis, ancora.

Ragioni per ignorare May, come già ha fatto la distribuzione italiana? Al momento non me ne vengono in mente. Un bellissimo horror citazionista (omaggiati esplicitamente Argento e Romero, ma non sono i soli), indipendente in tutto, sia nella scrittura spesso ironica e tagliente sia nelle scelte stilistiche, perché non ha paura di rallentare quando è il caso (con il rischio di sembrare un corto troppo allungato, ma ugualmente godibile) né di spingere sul tasto del gore (ma è un gore gentile, e comunque indispensabile). Un piccolo film su una ragazza “aliena” che mostrandosi “umana” cerca di far entrare a far parte del nostro mondo, ma riesce solo a osservarci dall’esterno, e che capisce con orrore e vive sulla sua pelle l’assoluta inevitabilità della solitudine, causata dall’innata imperfezione degli uomini e delle donne. La cui bellezza risiede sempre nelle singole parti, e mai nel tutto.

Se vi ho fatto venire l’acquolina in bocca, con meno di 8 euro ve lo portano a casa. Sono o non sono un angelo?

[christmas advice]

In italia, nelle videoteche e nei negozi specializzati.
Giurin giurella.

[open season? god, I wish]

Nonostante i mille giorni di vacanza, solo quattro film in uscita.
E ci tocca fare affidamento sui francesi. Sono triste.

Ecco a voi il nuovo episodio di Friday Prejudice.


e mi raccomando, non ignorate l’ultimo post qui sotto solo perché non avete visto il film…

She’s the man
di Andy Fickman, 2006

Prima di tutto, non chiedetemi per quale ragione io abbia visto questo film. Un attimo di debolezza notturna, la malinconia della perduta gioventù, la speranza di un briciolo di sano e disimpegnato divertimento, ragazze ventenni che interpretano studentesse di sedici anni. Fatto sta, l’ho visto. Inutile recriminare, Padre.

Scherzavo. She’s the man è bellissimo. Nel suo genere, ovvero quello della "teen comedy", anzi meglio del sottogenere "riadattamento di una commedia di Shakespeare ambientata in una high school così facciamo vedere quanto è attuale e com’è cool il nostro bardo che si vede che conosciamo solo lui perché lo citiamo ovunque e pure abbastanza a sproposito (rivolgersi a Dayton e Faris, ndr) mentre Geoffrey Chaucer giace nella tomba là nel pian", dicevo, nel suo genere è sublime. Dopotutto, questo è un mondo fatto di relatività, strati e strati di relatività. Dunque, She’s the man è il 23esimo (giuro) adattamento cinematografico di La dodicesima notte. Devo dire che ne sentivamo la mancanza. Ehi, Kenneth? Ci sei? Ken? Kenneth? Ehi?

Ma il problema non è il fatto che ci sia tutto quello che ci si può aspettare da una high scool comedy, dalla madre schizzata e fissata con la debuttanza al fratello fattone che scappa dalla finestra (in questo caso edulcorato in wannabe-musicista-indie con la maglietta dei – mh? – Violent Femmes), dalla ragazza bionda stronza oca al tipo che è figo che però c’ha i sentimenti e chissà poi alla fine chi se lo va a scopare, fino a tutta e dico tutta la maledetta struttura: passi l’ascesa/caduta/risoluzione, passino i montages (rivolgersi a Parker e Stone, ndr), passi l’happy end, ma che in quest’ultimo persino i genitori divorziati et assolutamente incompatibili – scusate lo spoiler – tornino a trombare, scusate, è davvero troppo. Dice, è Shakespeare. Dico, ma che altro hai fatto al liceo oltre a giocare a football ed eventualmente a violentare le cheerleader?

No, il problema è Amanda Bynes, una ragazza e il suo sogno. Perché io, all’inizio del film, ero proprio innamorato di Amanda Bynes. Non era troppo bella ma decisamente carina, piccoletta e non banale, un po’ rotondetta e un po’ maschiaccia (ma per finta eh, come se bastasse un cappello con la visiera – dai, è tipo la Hathaway nel Diavolo veste Prada, non è che ti metti un maglione largo e non si vede quanto sei bona là sotto – e anche in questo caso lo sai che poi alla fine te lo tira tira fuori, il vestitone da caccia), e poi non banale, simpatica, maggiorenne, evviva.

Ma poi si mette – come da copione – nei panni del fratello, e diventa questa specie di impressionante ibrido androgino, e ti crolla il mondo addosso perché era così carina in costume da bagno, e se non fosse per l’effetto-Superpippo per cui tutta la gente di questa scuola ha a) le cataratte o a scelta b) passato l’infanzia ad ammazzarsi di seghe per non capire che quel tizio ha la vagina*, questa specie di inguardabile mostro dalle fattezze vagamente simili a quelle di un imberbe Mario Giordano in cui la deliziosamente incapace Bynes si trasforma è talmente indecente da poter risollevare tutto il film e farlo diventare, che so, tra venti o trent’anni, un manifesto queer del millennio che nasce.

Ovviamente sto scherzando.

*a tal proposito, visto che il film è ancora inedito nel nostro paese, propongo ai sempre ottimi distributori italiani un titolo azzeccato: Ehi, quel tizio ha la vagina, un film di Andy Fickman.

Revolver
di Guy Ritchie, 2005

Dopo essersi sputtanato globalmente, un po’ per aver messo da parte il suo mestiere in nome di un chiacchieratissimo matrimonio, e un po’ per la scelta quantomeno assurda di rifare un film della Wertmuller (malissimo? Suvvia, alzi la mano chi l’ha visto davvero), con Revolver il nostro-un-tempo-amatissimo Guy Ritchie sembrava poter recuperare lo smalto di un tempo (sono passati 5 anni da Snatch - ehi talento, dove sei finito?).

Insomma, ci sono i casinò e la brutta gente, c’è Jason Statham tutto sporco con i capelli sporchi, c’è Ray Liotta che fa il gangster lampadato in mutande, ci sono personaggi curiosi come il killer occhialuto di Mark Strong, c’è una voce fuori campo quasi sopportabile, e ci sono dei lampi in cui Ritchie dimostra che ci sa ancora fare, là dietro (il racconto della prigionia, la caduta dalle scale, la stanza blu abbronzante di Ray Liotta). Tant’è, che quasi ci si casca. Ma il fatto che Revolver non abbia visto la luce da queste parti nonostante una certa nomea del suo autore, e che nel Regno Unito sia stato così massacrato (negli USA aspetta ancora un posto in sala, pensa te, aspetta e spera), non sono cose inspiegabili.

Forse sull’onda dell’hype di Richard Kelly, Ritchie decide di fare un film solo apparentemente ritchiano, in realtà molto più serio e riflessivo, e in cui volutamente non si capisce una rapa (così che i giovani – e pochi – spettatori possano poi trovarsi sui forum a litigare sulla "spiegazione" del film, e giuro, non ne ho trovato ancora una completa e definitiva), un film insomma "aperto"  e dalle altissime e irrisolte ambizioni psicanalitiche (e forse filosofiche), che risulta in realtà poco altro che un inspiegabile pastrocchio esistenzialista, caratterizzato da scherzi ontologici tardo-fincheriani (quindi anche abbastanza vecchiotto), dove tutta la parte finale, invece di sciogliere i nodi, li ingarbuglia senza tregua, tra mezze-citazioni dei Soliti sospetti e insopportabili sequenze arty in ascensore.

Si può apprezzare l’impegno e la voglia di fare qualcosa di diverso dallo spassoso cinema cazzoncello dei suoi esordi. Almeno non si è limitato a ripetersi, ha alzato i tiro. E’ già qualcosa. Ma ecco, se proprio proprio, lo si preferiva cazzoncello.

Proprio quando pensavo "che poi questo film alla fine non uscirà mai in Italia", un giretto in un negozio del centro mi ha fatto scoprire che mi sbagliavo, è uscito eccome. Ovviamente, straight-to-digital.

Aneddoto divertente, almeno, per malati mentali come me: sulla locandina inglese, una enorme dicitura recita "Back to his best" firmata dal Sun. Testata che però aveva stroncato il film. Mistero? Scopritene di più in questo articolo del Guardian.

Se avete visto il film e non ci avete capito niente, oppure meglio, se volete conferme sulle vostre teorie, un tizio ha passato parecchio del suo tempo libero a esporle – e difenderle – sul forum di IMDB. Get a life, dude.
(per accedervi dovete registrarvi)

Rize – Alzati e balla (Rize)
di David LaChapelle, 2005

Il film del celebre fotografo David LaChapelle sul krumping, danza tribale dei ghetti neri di Los Angeles ed evoluzione a sua volta della clown dance (nata nei primi anni ’90 per far divertire i bambini alle feste di compleanno), è uscito in Italia quest’anno, ma sembra che ben pochi se ne siano accorti. Si tratta di un documentario abbastanza tradizionale, lungo qualche minuto di troppo e con qualche inquietante moraletta sottesa.

Però ha un ritmo davvero implacabile, almeno un paio di lunghe sequenze di raro fascino e intelligenza (quella della battaglia tra clowns e krumpers e quella in cui il krumping viene messo letteralmente a confronto con le danze tribali africane), e ovviamente una fotografia abbacinante. Anche se con meno concessioni al lachappellismo di quanto si possa immaginare: più che altro, si tratta di alcune immagini rallentate e dai contrasti accesi (come quella del poster) che fanno da contrasto all’effetto-realtà (in verità ricercatissimo) dell’intero film.

Se non fosse per qualche caduta di gusto e qualche svaccata retorica (Amazing grace e Oh happy day sono due colpi bassissimi, e non sono i soli), sarebbe da recuperare ad ogni costo. Ma via, è comunque consigliato.

Il ricchissimo dvd verrà presentato domani 5 Dicembre alle 18 da Damir Ivic e Violetta Bellocchio, alle Messaggerie Musicali di Corso Vittorio Emanuele, Milano Beach. Ci si vede da quelle parti.

Colgo la ghiotta occasione per segnalare, per chi ne avesse finora ignorato l’esistenza, l’incredibile promo di Lost girato da David LaChappelle per la promozione della serie nel Regno Unito.

Shortbus
di John Cameron Mitchell, 2006

"These people spend all night sucking cock and eating ass, and then hit the buffet claiming they’re vegan"

In giro si dice quasi solo che Shortbus è un film scandaloso e volgare dove ci sono un sacco di cazzi. Dunque, potete dare retta alla parziale ignoranza dei media che nemmeno si sono curati di vederlo, ed etichettarlo così, come una provocazione fine a se stessa. Ma se mentre guardi Shortbus non trovi mai che quest’opera allegramente orgiastica, "come negli anni 60, solo con meno speranza", sia fastidiosa per i tuoi occhi o per la tua sensibilità, né che sia gratuito o indecente, è già un mezzo miracolo. La volgarità è altrove, insomma: John Cameron Mitchell, dopo essere riuscito a fare un musical sull’intedeterminazione sessuale, riesce a fare una vera (e bella) commedia dei sentimenti, dove i personaggi fanno sesso come in un porno.

Non utilizzando però la tattica della parodizzazione, che avrebbe attutito maggiormente il colpo, bensì una sdrammatizzazione indiretta e di stupefacente naturalezza e, fin dalla trovata iniziale del pollock-cum, un’aura leggera e giocosa che permette al regista di affrontare i momenti più seri e le vere tematiche del film (più "politiche" del film precedente, ma altrettanto "intime") con scioltezza e – a suo modo – con grande delicatezza. Perché Shortbus fa ridere, sempre volutamente e spesso di pancia, ma è anche un film capace di momenti di incredibile malinconia (l’incontro con l’ex-sindaco, il dialogo sull’identità di Severin), e altri di innegabile e insperata bellezza (anche estetica, perdiana) di fronte a cui si perdona qualche colpo a vuoto, e persino quell’orrida cornice cartoon con le casette di carta.

E se spesso ci infastidisce marchiare un cinema come "post-911", in questo caso specifico – anche perché la questione è esplicitata dalla prima inquadratura di Ground Zero, e poi abbandonata – si dice molto di più della New York – e del resto del mondo, per estensione – di questi ultimi anni, abbandonata a se stessa e in preda ad un inappagabile e disperato bisogno d’amore, che molti altri film più pudici, retorici e didascalici. Ed era davvero un’impresa.

Fulmineo il cameo di Jonathan Caouette, rassicurante sapere che non me lo sono sognato.

Magnifica colonna sonora, prodotta da Conor "Bright Eyes" Oberst e curata dagli Yo La Tengo, con roba tipo Animal Collective, Azure Ray, Hidden Cameras. Ed ecco a voi il cast di Shortbus che canta "In the end" in un After Party a Londra. Gli altri video qui.

E già che ci sono, il bellissimo video di "First day of my life" dei Bright Eyes, diretto appunto da John Cameron Mitchell.

Pirati dei Caraibi: La maledizione del forziere fantasma (Pirates of the Caribbean: Dead man’s chest)
di Gore Verbinski, 2006

Se Dead man’s chest, pur lasciando invariata la gran parte del cast e della crew, è il più brutto sequel possibile di The curse of the black pearl, ci sarà pure una ragione. Non lo so, non sono ancora riuscito a trovarla. Misteri alchemici? Ragazzi, se per un misterioso caso vi è venuta bene alla prima, non è detto che la seconda sia garantita. Ma ci sarà ben un motivo per cui dopo un incipit interessante (una decina di minuti al massimo, eh) si comincia gradualmente ad aspettare nervosamente la fine, e a sperare che smetta di apparire il grugno di Davy Jones con quell’accento insopportabile (e ci tocca sorbircelo pure l’anno prossimo), e che cominci a succedere davvero qualcosa. Anzi no, sbaglio termine: che smetta di succedere qualcosa.

Perché il secondo episodio dei Pirati dei caraibi è l’esemplificazione di quanto l’eccessiva rutilanza, tutta bruckheimeriana, di colpi di scena quantomeno ridicoli (i dilemmi edipici di Will Turner you can wipe your ass with) e di sequenze d’azione sempre più esagitate, contrappuntate dall’ironia assolutamente antipatica di Johnny Depp (mi piange il cuore a dirlo, ma Jack Sparrow ha davvero rotto), non siano affatto condizioni sufficienti al divertimento che il film si propone di portare. Anzi: escludendo la sequenza della fuga sulla ruota di mulino, ben congegnata e simpaticamente esagerata, il film di Verbonski è una noia mortale e – come se non bastasse – è una noia mortale di centocinquanta minuti.

Spaventosamente svogliate le performance di Keira Knightley e Orlando Bloom: ecco a voi un raro caso di film che forse suona meglio doppiato. Sul finale aperto non aprirei nemmeno bocca: niente di malefico, e poi lo sapevo già da principio. Il problema vero è che, di sapere come va a finire, non me ne può proprio fregare di meno.

[tonite]

Badly Drawn Boy, Rainbow Club, Milano

[oops, I did it again]

Pensavate davvero di non avere pregiudizi, questa settimana?
Mi sottovalutate.

In lieve ritardo, eccovi il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Nella foto, l’angoscia dei lettori durante queste ore buie.

[nota: ci sono almeno tre post in attesa: Shortbus di John Cameron Mitchell, il secondo episodio dei Pirati dei Caraibi di Verbinski, e Revolver, l’ultimo inedito film di Guy Ritchie]

United 93
di Paul Greengrass, 2006

Già per il fatto che per una metà abbondante del film (quasi un’ora) non vediamo che una serie ininterrotta di telefonate e telefonate tra i capi dei punti di comando aereo a terra, mostruosamente inadatti ad affrontare ciò che stava avvenendo quella mattina, 11 Settembre 2001, e per il fatto che ciò non crea nello spettatore noia (tipo "ma ci fate vedere questo aereo o no?") ma – al di là della pregnanza politica e umana del caso – un senso di ansia inesplicabile, dovremmo suonare a casa del signor Greengrass (che ha uno sguardo "esterno", e in tutta grazia si vede, eccome) e stringergli la mano.

Aggiunto a questo, è davvero impressionante il modo in cui Greengrass, anche come sceneggiatore, interviene sugli stilemi del film catastrofico ribaltandoli dall’interno, in tempi poi in cui si pensava che il genere non avesse forse più nulla da dire perché "la realtà ha superato la fantasia". Non solo per il "sezionamento" crudele del film, in cui l’aereo e i suoi passeggeri – una enorme tribù di splendide facce anonime da b-movie – diventano protagonisti, in senso tradizionale, praticamente solo nell’ultima mezz’ora (o meno) e tutto d’un tratto, "a cose fatte", ma anche per il modo in cui si evita con cura ogni forma classica di identificazione, personificazione, melodramma, metafora.

Ma tutto questo contribuirebbe, volendo, a rendere United 93 niente più – si badi: non è poco – che un secco e spettacolare prodotto di intrattenimento, assolutamente non cinico nonostante ciò ma in grado di adattare il senso di realtà a quelli che sono i linguaggi del thrilling. Non è denuncia anche se si denuncia, e non c’è retorica perché proprio non serve, non ce n’è bisogno. Ma quello che, al di là dei molti pregi , rende United 93 un film davvero prezioso, è invece il suo impatto emotivo. Davvero impressionante.

Sono, appunto, quei molti minuti finali, con le famose "telefonate a casa" e l’ammutinamento disperato del volo 93, in cui nella "gente" si rivede la stessa innata, "fatale" indecisione, e impreparazione alla morte, di cui erano succubi i generali (quei cinque minuti in cui i passeggeri "perdono tempo" a passarsi la notizia di quanto stava accadendo a New York), e in cui tutta la tensione accumulata – anche perché quell’aereo è una tomba, e quelli sono fantasmi: lo sappiamo tutti fin dalla prima inquadratura del mezzo – esplode in un finale di sette minuti sette, assolutamente straordinario per come sa rappresentare l’avvento del caos e il declino definitivo dell’umano istinto di sopravvivenza.

Sfido qualunque complottista, o semi-complottista come mi è capitato di essere, a non stringere le lenzuola tra i pugni, scalciando i piedi in fondo al letto e asciugandosi le lacrime tra i singhiozzi e i singulti. Come ho fatto io, insomma. Un film quasi incredibile sull’assoluta impotenza degli innocenti di fronte all’inevitabilità della Storia, sul volto sconvolto degli uomini di fronte alla civiltà che collassa, e uno dei film più tesi e strazianti degli ultimi mesi.

Su Youtube, gli ultimi sette minuti del film. Io non lo definirei nemmeno uno spoiler, ma fate voi.

[au revoir]

Philippe Noiret 1930 – 2006

[tonite]

The Frames, La Casa 139, Milano

Boog e Elliot a caccia di amici (Open season)
di Roger Allers, Jill Culton e Anthony Stacchi, 2006

"At this point, the most we can hope for now is an animated film that doesn’t concern breaking out of a zoo of some sort." (Chris Cabin, Filmcritic.com)

Per liberarci in fretta di questo macigno (il post aspetta da diversi giorni), chiariamo subito il punto: Open season è talmente brutto che a posteriori Over the hedge acquista un sacco, ma davvero un sacco di punti. Che è tutto dire. Poi, si sa, sui film d’animazione io sono abbastanza impietoso, ma questo "vero" esordio della Sony Animation è uno dei film più inutili e derivativi che mi sia capitato di vedere in tempi recenti, forse un ciglio meglio di Madagascar ma non abbastanza da saperne definire il distacco. E non solo perché ancora una volta ci sono "degli animali parlanti che escono da uno zoo di qualche tipo". Che già quello, due palle.

Riprendendo la tradizione dei buddy-movie tanto cara al cinema americano (e a quello d’animazione: ma Monsters Inc sembra essere passato invano), Open season racconta una storiellina flebile flebile sull’emancipazione dal nido familiare, ed è tutto qui. E non avendo evidentemente nient’altro – o niente di niente – da dire, sfoggiando perlopiù una tecnica che però è notevole praticamente solo nel movimento del pelo (ah beh allora) e nella sequenza dell’inseguimento acquatico (va detto, ben fatto), riempie tutto il resto del film di animali e animaletti. Porcospini, scoiattoli, puzzole, e via dicendo. Già sentita, vero? A confronto, un torneo senior al bocciodromo di Mompiano è come fare bungee jumping sul Grand Canyon.

Nemmeno i numerosi bambini presenti hanno gradito, considerato l’incredibile casino in sala, più divertente del film stesso. Tra noi "adulti" invece, pesanti pacche sulla fronte, sguardi al soffitto del cinema, commenti stupefatti, e l’udibile speranza che finisse in fretta. La nicotina in questi casi può aiutare. E se qualche risata la strappa, spesso e volentieri è perché si sta pensando a qualcos’altro. Che so, a Punk’d.


Nelle sale italiane dal 07 Dicembre 2006

In sala con me, la signorina Violetta – che gentilmente mi invitò – e alte personalità dell’intelligenza cinefila meneghina. Però, niente male come prima esperienza ad un’anteprima milanese. Mi sento come una debuttante. O come Molly Ringwald, fate voi.

[Anna Frank eats my shorts]

In un mondo dove la gente si odia, si insulta e si picchia,
un film riunirà i cuori degli uomini nel nome dell’ammore.

Su Friday Prejudice, anche questa settimana.
E sappiatelo, esce uno dei film dell’anno.

(e pure un altro che insomma dai su è in quella zona pure lui)
(e pure un altro dove fanno le cosacce)

Clicca per saperne di più.
Friday Prejudice (ok, ok, hai capito).

Super Nacho (Nacho libre)
di Jared Hess, 2006

"Precious Father, why have you given me this desire to wrestle and then made me such a stinky warrior?"

Dai titoli di testa, anche per chi non abbia visto – come il sottoscritto – Napoleone Dynamite, si capisce che Jared Hess ci sa fare, o almeno, ci saprebbe fare: un orfano cicciottello che sogna il wrestling e viene vessato dalle suore e dai frati del suo convento. Incredibile che la bellissima sequenza di apertura sia poi una delle poche, pochissime cose veramente riuscite di tutto il film. E dispiace un po’, perché su Nacho libre erano state riposte diverse speranze.

Non si piangono di certo lacrime di disperazione, perché anche ad essere in grado di apprezzarlo, nonostante a mio parere sia alquanto impraticabile, l’opera seconda di Hess è comunque un filmetto deboluccio, dalla struttura riciclata e dalle idee scarse. Ma quel che è peggio non è l’incosistenza, riguardo cui si sarebbe passati volentieri oltre per farsi quattro risate, ma che il regista pensi davvero che per fare il "diverso" e l’indipendente basti rallentare i ritmi e spalmare ognuna delle (poche) gag del film su tempi incredibilmente dilatati. La parola con la N regna come una sovrana.

Così, non solo non ci si diverte molto (anche se più di una risata la strappa: potrei elencarvi i punti, ma sarebbe umiliante) ma il tentativo di coniugare l’anima più snob e fighetta, nonché dotata di un ragguardevole notevole complesso di superiorità, con una storia molto tradizionale e banale che mescoli racconto classico, fiaba, e romanzo superomistico, si rivela malriuscito e a tratti fastidioso. E crea peraltro di un buco di target pazzesco, che forse giustifica lo scarso gradimento a fronte dell’ottimo successo commerciale negli states: un film che annoierebbe a morte qualunque ragazzino, ma che è troppo puerile e (furbescamente) ingenuo per tutti gli altri.

Jack Black è in ogni caso ancora bravissimo e, come previsto, è la cosa migliore del film (senza dimenticare l’ottima spalla Héctor Jiménez, responsabile di alcune tra le battute più felici): la sua parlata anglomessicana, la sua mimica, le sue esplosioni canore, sono il vero motivo per cui dargli un’occasione. Mi chiedo quanto abbia senso, a questo punto, vederlo doppiato.

[goodbye]

Robert Altman, 1925 – 2006