2006

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Marie-Antoinette, Sofia Coppola 2006

Marie-Antoinette
di Sofia Coppola, 2006

Certe volte il potere di una singola inquadratura ha la capacità di disarmare ogni possibile dubbio e pregiudizio di sorta su un film. E’ il caso di quella che apre il nuovo film di Sofia Coppola, con la regina di Francia sdraiata tra una marea di grandi torte rosa e una cameriera che le prova delle scarpine dello stesso colore, mentre in un contrasto inaudito ed esaltante risuonano le note dei Gang of Four. Marie-Antoinette ci guarda, titoli di testa. In rosa.

Ma la cosa è meno sgradevole o forzata di quanto possa sembrare: sgombrato infatti il campo da una rilettura estrema o kitsch, la Coppola sceglie invece di incrociare la Storia e la sua metaforizzazione – insomma, le vicende reali della giovane moglie di Luigi XVI con quelle di una ragazzina ingenua ritrovatasi con tutti gli occhi addosso, trascinata suo malgrado nell’inquieto torrente dei gossip, e con un marito nerd che la induce a consumi sfrenati a causa di una sessualità poco entusiasmante – con una classe e un’eleganza invidiabili, più spesso inclini ad una satira sociale magari semplice ma gradevole (i dialoghi nella corte, tutti pettegolezzi sospirati), e ad un’ironia che trova i suoi punti di forza dove altri sarebbero caduti (la ripetizione dei rituali sociali).

Ma anche togliendo dalla figura della giovane regina quell’aura di ambiguità che le hanno donato più di duecento anni di vociare popolare, restituendole l’innocenza e la gioiosità perdute, e trasformandola – con una notevole e gradita licenza – nel capro espiatorio delle ipocrisie di un’intera società, quella stessa società che rinnega appena possibile la nemesi della protagonista (interpretata con physique du role da Asia Argento) che poi in realtà non è che l’altra faccia della sua vitalità. Quella stessa società che al primo sospetto di rivoluzione le gira le spalle e non batté più le mani con lei, a teatro.

Ma c’è poco da razionalizzare su questo film, costruito dalla Coppola più sulla base di impressionismi malickiani (il bravissimo direttore della fotografia è lo stesso Lance Acord di Lost in Translation) e innocue ma riuscitissime provocazioni musicali, più su immagini e sensazioni che su tracce narrative stabili. Così il suo cinema si riconferma – ancora una volta, ed è la terza – splendidamente epidermico eppure non superficiale, un cinema insomma da sentire sulla propria pelle, che pur essendo ancora più lento e riflessivo dei precedenti (viene quindi pubblicizzato con toni da truffa) è leggero come l’aria fresca, e – a parte il primo faticoso quarto d’ora, e a meno di non avere già freddo alle ossa – è altrettanto piacevole.

Ecco, quello di sopra era, come promesso, un’opinione che prescindesse da Kirsten Dunst.
Ora potete aggiungerci Kirsten Dunst.

Flags of our fathers
di Clint Eastwood, 2006

Per una volta, non starò tanto a sindacare le qualità oggettive dell’ultimo film di nonno Clint. Che sia bello o meno, un film del genere, mi interessa solo fino a un certo punto. Perché io lo so, ladies and gentlemen, che Flags of our fathers è un bel film, proprio un gran bel film: incontrovertibile, innegabile, i*bile. Ma il punto di cui sopra è un altro, e viene raggiunto in fretta. Il punto in cui la mia pazienza finisce e i miei occhi guardano spesso, troppo spesso, il quadrante dell’orologio, o del telefono cellulare in sua vece.

Il discorso è abbastanza semplice, e si può esplicare in due versioni. La prima: se voglio andare a vedere un film di Clint Eastwood, non voglio trovarmi davanti un film come questo. Oppure, la seconda: se voglio vedere un film così, cosa del tutto legittima – che un giorno potrebbe persino capitarmi – non vado a scegliere un film di Clint Eastwood, non voglio doverlo fare. Non che Flags sia carente in clintisvudianità, sempre che quest’ultima esista davvero (perché, se esiste, ha un nome orribile). Per carità. Ed è anche curatissimo, e rinnega ogni manicheismo (ma su, diciamocelo, a livello tematico una roba così son buoni tutti a farla), e c’è un indiano che frigna e vomita, e ci sono le scene di guerra più incredibili che io abbia mai visto. Che campi lunghi inarrivabili, impeccabili, i*bili. Che ottimo reparto effetti speciali, insomma.

Il film in sè, invece, cioè tutto quello che sta intorno a questa tanto splendida quanto interminabile e noiosissima invasione giapponese, cioè tutto quello che al confronto di quei carrelloni a mare suona schifosamente pretestuale, c’è ben poco. O almeno, ben poco che mi/ci interessi. O almeno, pensandola in modo freddamente analitico, una scena stupenda come il ritrovamento del corpo di Iggy può far perdonare quell’orrore debaricentrato che è tutta ma proprio tutta la parte finale in cui Tom McCarthy prende la parola e George Grizzard muore in sei ore? E non serve da richiamare sempre in ballo il "cinema classico", cosa che ho fatto io stesso con il suo film precedente: va bene, è classico e tutto quello che volete, ma se la classicità si muta in prevedibilità, il grande cinema rimane poco più che una buona intenzione.

Forse è tutta colpa del doppiaggio oratoriale? Non credo che lo saprò mai. In ogni caso, davvero spassose le citazioni di Lost. Sì lo so, è una stronzata, ma mi diverte finirla così.

[compito a casa]

Elaborare un’opinione che prescinda da Kirsten Dunst.

[boom boom boom]

Sono le bombe di questa settimana. Una, garantita dalla casa.

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Clicca.

scusate la brevità ma non avete idea del tempo che ci vuole per fare i prejudizi con una connessione fantasma. e in più, sono distratto dalla disperata ricerca di un motivo, un motivo qualsiasi, per salvare in corner l’ultimo film di Clint Eastwood. e non è detto che io ci riesca.
a presto, se la mia gola la smette di gonfiarsi forse sopravviverò.

Ti odio, ti lascio, ti… (The break-up)
di Peyton Reed, 2006

Questa volta sarò davvero breve. Pochissime infatti le cose da dire sulla commedia di Peyton Reed, che dopo Down with love definire un disappunto è dire poco. Comunque: i dati a suo favore sono un un inizio davvero azzeccato, e una prima mezz’ora in cui si riesce a dire qualche verità su quanto i cervelli dei maschietti e delle femminucce diventino bacati quando si accoppiano.

Peccato che poi il film diventi null’altro che un’alternanza infinita di ripicche e reazioni. Ripicca, reazione, ripicca, reazione. A parte il finale che ti ammazza letteralmente, o sequenze da fast-forward come quella del concerto mancato, dura pure venti minuti di troppo e alla fine non ce la fai davvero più. Il film invece, ce la stava facendo, e invece no.

Ma Vince Vaughn è davvero gigante, in qualunque sfumatura. Un idolo delle folle, signori.

Slither
di James Gunn, 2006

"This shit is about as far from God as shit can get!"

Uscito in Italia a fine giugno nella solita indifferenza generale estiva, il primo film completamente scritto e diretto da James Gunn, sceneggiatore talentuoso che si è fatto le ossa per anni e anni alla Troma (ha quasi quarant’anni anche se ha ancora la faccia di uno studentello malato di fumetti) prima di farsi notare con lo script del cult (inedito da noi) The specials, merita davvero di essere recuperato ed è a un pelo – davvero sottile – dall’essere un gioiellino del suo genere.

Che poi, non è che sia così facile identificare il "suo" genere, con quella commistione di horror puro (non fighetto ma diretto all’osso, cruento e sanguinario come poche cose recenti, almeno di questo tipo) e commedia secca (non parodia, anche se implacabilmente divertente) che, come si sa, è un’alchimia difficile che riesce a pochi, pochissimi. Per dire, a Gunn riesce benissimo. Sia nei passaggi prettamente comici, a cui si dedicano gli ottimi dialoghi, sia in quelli horror, dove ha la meglio l’impressionante reparto make-up, tra Michael Rooker in guisa di calamaro gigante, un’enorme donna-utero, e un’invasione aliena che ha forme vagamente – o un po’ più che vagamente – falliche, vaginali, e persino anali. Uau.

Un vorticoso omaggio ultracinefilo, spesso esplicitato, in modo quasi patologico, nei nomi dei personaggi e dei luoghi, all’horror "di serie B": se davvero si può dire così, visto che il film è il frullato di un sacco di roba diversa, dal cinema del primo Cronenberg (la mutazione di Grant Grant da La mosca, la scena della vasca da Il demone sotto la pelle) a quello di Yuzna (tutta la sequenza finale, paro paro da Society) e di Romero (gli zombies, ovviamente – d’altronde Gunn ha scritto il bel remake di Dawn of the dead), da Tremors agli Ultracorpi, e molto altro ancora.

L’idea di cinema è la stessa della Tromaville di Lloyd Kaufman (il cui Toxic Avenger appare in un televisore, e più che un onere dovuto suona come un dazio affettuoso), ma con un innegabile marcia in più da un punto di vista visivo e narrativo, senza troppi peli sulla lingua né riguardi nei confronti dei cuori (e degli stomaci) deboli.

Uno Spasso con la S maiuscola. Anche se la sopracitata indifferenza italiana ha fatto eco al letterale disastro al botteghino americano. Ve lo meritate, Joe Sonzero.

(Bill) "Hell, if he had a ‘gina, you’d'a married him, too".
(kid) "What’s a "’gina"?
(Bill) "It’s a country. You know, where Ginese people come from".

[omiabèlamadunìna]

Tra qualche ora mi trasferirò in un piccolo paese del norditalia.
Si chiama Milano.
Dubito che voi lo conosciate.
(e no, non ci vado per una vacanzina, ci vado per rimanerci)
(almeno, ci provo)

Quindi, se vivete a Milano e dintorni, fatevi sentire.
(nella colonna destra c’è il come, decidete voi il quando e il perché)

Vi aspetto, aspettatemi pure voi. Aspettiamoci.

avvertenza STOP probabile temporanea assenza internet STOP abbiate pazienza STOP qualcuno mi presti la sua connessione STOP almeno di giovedì STOP dimentica STOP comunque cerco sempre lavoro eh STOP non si sa mai STOP schiavo vostro STOP kekkoz

L’amico di famiglia
di Paolo Sorrentino, 2006

I detrattori del regista napoletano, con L’amico di famiglia avranno pane per i loro denti: accorrete, genti di tutte le età, ad accusare Sorrentino di manierismo, di spocchia, di formalismo, di presunzione. Perché in effetti il suo nuovo film è proprio così: estremamente presuntuoso, e irreparabilmente irrisolto nel suo tentativo di mantenere un registro narrativo coeso, passando senza troppa cognizione dall’epitome dell’inessenziale (nella prima parte) a una sintesi frettolosa e riassuntiva (nella parte finale). Ma diavolo, se i nostri registi fossero tutti così, che cinema, che avremmo.

Al di là della bellezza di molti singoli momenti, a partire dagli incredibili titoli di testa (che molti definiranno lynchani, e non a torto) dove la voce di Antony giganteggia e ammalia, e della ricerca spasmodica dell’inquadratura originale, in quello che è palesemente il suo film meno riuscito Sorrentino si conferma tuttavia e comunque un autore dalla poetica forte e coerente, disperata e misantropa, e non un mero metteur en scene, seppure di raro e innegabile talento. Perché se i nostri registi fossero tutti così, che cinema, che avremmo.

Anche se poi L’amico di famiglia, in fondo, se ridotto all’osso, non è che una variazione, complicata in qualche modo dalla moltiplicazione dei personaggi e con alcune banalizzazioni (come il Fabrizio Bentivoglio venetofono e countrymaniaco) del suo film precedente. Insomma, Geremia de’ Geremei è un altro uomo che sottovaluta le conseguenze dell’amore. Un amore che si trova dove meno te lo aspetti, tra le pieghe del disgusto e della iattura, tra il maleodore e la vecchiaia, un amore che ti restituisce il senso della vita anche solo per un attimo, ma che non potrà mai salvare un mondo in cui tutto diventa merce e bugia, un mondo ipocrita e malato.

Immerso nello sterco dell’uomo, l’amore che vi fiorisce per caso non potrà mai sbocciare.

[goodbye]

E’ morto Jack Palance.

[era ora]

Un’uscita che riesce a oscurare persino Clint Eastwood?

Questa settimana, su Friday Prejudice.

Monster house
di Gil Kenan, 2006

Quando uscì The polar express evitai di uscire di casa e feci finta di niente, perché volevo troppo a Robert Zemeckis e desideravo continuare a volergliene. Nel caso di Monster House, secondo esperimento di film d’animazione prodotto con la tecnica della performance capture, dal momento che alla regia c’è il giovane esordiente Gil Kenan ho fatto finta di niente. Anche se è il film è evidentemente farina del sacco di Zemeckis e Spielberg.

Il film è infatti un tipico prodotto Amblin, la principale casa di produzione di zio Steven, si vede ed è un bene: infatti possiede tutta la freschezza e la piacevolezza dei film per ragazzi – e non per bambini – "di una volta": una casa infestata, lo spettro dei Goonies che si aggira senza sosta per tutta la pellicola, citazioni autoreferenziali, due coraggiosi ragazzini emarginati, Jason "Earl" Lee in versione rocker-fattona, e un incredibile flashback timburtoniano: se si riesce a sopportare la più brutta tecnica d’animazione mai inventata – si fa fatica nonostante la regia curatissima, e non si capisce perché zio Bob tenga tanto a questa robaccia – c’è davvero da divertirsi.

L’imbarazzante risoluzione dei titoli di coda ha graziato il film dalla minaccia di un piccolo divieto. Ci tappiamo il naso.

La gang del bosco (Over the hedge)
di Tim Johnson e Karey Kirkpatrick, 2006

Tratto dalla gradevole comic strip di Michael Fry e T. Lewis, il film di Johnson e Kirkatrick non riesce a riportare sullo schermo in modo compiuto lo spirito del fumetto. E probabilmente non era nemmeno loro intenzione. Al di là di "cattivi" poco riusciti e dei personaggi spariti nel nulla – come le fidanzate dei due protagonisti – sono i personaggi che restano a peccare di personalità. Diventando da flemmatici a insopportabili (RJ e Verne), da curiosi a insipidi (quasi tutti gli altri), o peggio ammiccanti come la puzzola Stella (doppiata dalla bravissima Wanda Sykes).

Non si può negare però che il nuovo cartoon della Dreamworks, dopo un paio di robacce da queste parti detestate, non abbia corretto un po’ il tiro. Over the hedge è sommariamente piacevole, ed è molto ben disegnato, se vi basta. E se non vi basta, regala pure qualche momento imprevedibilmente intelligente: la sequenza sul rapporto tra umani e cibo è – miracolo – degna della Pixar, spassoso l’opossum scespiriano che finge di morire gemendo "Rosebud!", così come, nel finale, l’effetto della caffeina sullo scoiattolo. Che era una gag già presente in modo diverso anche in Hoodwinked.

Insomma, non è nemmeno troppo fastidioso, ma è inconsistente e innocuo. Non sa di niente.

Quell’ometto delizioso di Ben Folds canta tre canzoni nella colonna sonora, il che fa non poco piacere. Ma usa come pezzo di chiusura uno dei suoi meno belli (lo schitarroso Rockin’ the suburbs, che dà il titolo a un disco ben più stimolante), ripulendolo peraltro dalle bad words. E fa un po’ meno piacere. Ma a uno che rifà Such Great Heights usando come percussioni coperchi, bicchieri e una cuccia si perdona tutto.

The departed – Il bene e il male (The departed)
di Martin Scorsese, 2006

L’ho detto più volte, quando passano così tanti giorni dalla visione di un film la voglia di scrivene mi passa. Ma pur avendo già espresso sinteticamente la mia posizione, non posso – e in fondo non voglio – esimermi. Dunque, in poche parole:

Se una o più cinematografie appassionano tanto, quanto è difficile accettare che ne venga proposto un rimaneggiamento? Non per una supposta intoccabilità del testo, argomentazione ben situata tra l’inutilità e la stupidità. Il problema è che spesso e volentieri viene dimenticato il mondo da cui un’opera proviene, pure in modo esplicito come in questo caso, da gran parte della stampa e – ancora peggio – dal pubblico. Ed è un peccato. Anche se è un discorso che da queste parti ci si è persino stufati di fare, perché la cosa riguarda non solo Hong Kong, ma anche e soprattutto Giappone e Corea. Tutti conosco Verbinski, meno Nakata. Troppi Jim Sonzero, quasi nessuno Kurosawa Kiyoshi. Per dire, molti conosceranno Yann Samuell, pochissimi Kwak Jae-young.

La preoccupazione aumenta a dismisura per il remake di un film come Infernal affairs che, nel panorama non propriamente idilliaco del cinema hongkonghese recente, era qualcosa di più che un semplice gran-bel-film, ma un’opera capace di coniugare i divi e il grande spettacolo popolare della macchina industriale pancinese, e quindi un film tanto appassionante quanto vendibilissimo, e una qualità (intellettuale ed emozionale) davvero stupefacente.

Ma nelle mani di Martin Scorsese, la storia dei due infiltrati, un poliziotto tra le bande mafiose e un gangster alla centrale di polizia, e del loro rapporto edipico e conflittuale con i loro "padri", grazie ad un tono sofferto, cupissimo e programmaticamente tragico, a una messa in scena incredibile che sa persino sperimentare (con modestia) su moduli e modalità visive e narrative – per esempio tramite i flash improvvisi, le fiammate violente, alcuni fermoimmagine quasi impercettibili – diventa non solo il miglior film del regista dai tempi del sottovalutatissimo Bringing out the dead, non solo un film pressoché inattaccabile se non – appunto – con il senno dell’opera da cui è tratto con una certa fedeltà (ma un confronto simile, finito il divertente giochino, lascia sempre il tempo che trova), ma uno dei film più belli di quest’anno.

Con una certa fedeltà, si diceva: ma nonostante The departed si pieghi tutto sommato a una replica allungata del film di Adrew Lau, è proprio il tono a fare la differenza, e a farla parzialmente in favore del film di Scorsese. Laddove colà vi sono ralenti e carrelli, e un’epica tragica, disperata e spudoratamente struggente, qui si procede agli antipodi, con una secchezza quasi spaventosa (tutti gli omicidi valgano come esempio calzante) e con un montaggio geniale che in barba al melodramma spezza decine e decine di climax (anche quelli acustici: il solito tappeto sonoro scorsesiano in questo fa il suo lavoro alla perfezione) lasciando con il groppo in gola, e portando ad un finale che, pur nel giocoso disascalismo dell’inquadratura conclusiva (vi ricordate Velluto blu?), lascia assolutamente senza parole.

Allora, al di là del fatto che (o proprio perché) dietro la macchina da presa c’è un simile mostro sacro, è così difficile accettare il fatto che il remake abbia superato l’originale? In realtà, questa domanda non me la vorrei porre, non mi interessa, e la ignorerò il più possibile. In fondo, se Infernal affairs fosse uscito in Italia invece che essere relegato agli scaffali delle videoteche, così indiscreti e indistinti, non sarebbe forse anch’esso uno dei film più belli dell’anno? Però, se proprio qualcuno ci tenesse, allora sì: ho l’impressione che The departed, di quel bellissimo film che è Infernal affairs e che ora non vedete l’ora di recuperare, e che amerete, sia un remake superiore, e comunque un magnifico, grandissimo film.

Un film fatto di quieti di sconcerto e di tempeste di meraviglia. Se fossi in voi mi leccherei le dita fino a consumarle.

[Help me, Jewish God! Help me, Tom Cruise!]



In una settimana in cui quattro film su sette sono italiani,
venite a scoprire perché la cosa non ci entusiasma affatto.

Su Friday Prejudice. Il nuovo episodio, tutto da cliccare.

Meno male che c’è Ricky Bobby.

(e scusate il ritardo)

[tonite, I do feel like Borat]

Tra una manciata di ore lascerò questo paese per qualche giorno, per una destinazione che è da ritenersi top secret e/o sconosciuta. Consideratemi irreperibile fino al prossimo 4 Novembre, anche se probabilmente avrò qualche occasione di controllare la email e da queste parti – anche solo per vedere se non sta andando tutto a fuoco.
Al mio ritorno, probabili svolte epocali.

[quindi suppongo anche che Friday Prejudice la settimana prossima andrà in onda con due giorni di ritardo]

Tutto qui. Ma devo aggiungere un’ultima cosa.
Non lo faccio mai, ma stasera avevo intenzione di tornare dal cinema e scriverne subito, a caldo. Beh, proprio non ci riesco. Ho visto The Departed e non so che dire. Sono. Senza. Parole. Credo che, per ora, il mio voto su Cinebloggers Connection valga più di molte di esse.

[intanto qui sotto c'è il mio post su Clerks II e so che molti di voi hanno già in mano pomodori marci, e non vi biasimo del tutto]

A presto, sempre schiavo vostro.

Clerks II
di Kevin Smith, 2006

"Those fuckin’ hobbit movies were boring as hell. All it was, was a bunch of people walking, three movies of people walking to a fucking volcano."

Raccontando di nuovo le vicende di Dante Hicks, 12 anni dopo Clerks, Smith si concede pure qualche piacevole variante (il quasi-melodramma – che però viene dritto dritto da Chasing Amy – o il balletto demenziale sui Jackson 5), ma alla fine torna sempre lì, a quel piccolo cinema innocuamente idiota che ha tirato su dal nulla della sua vitaccia provinciale. A Jay che imita Buffalo Bill del Silenzio degli Innocenti, alle sparate di Randal su Star Wars e sugli "ass to mouth", alle comparsate degli amici (Jason Lee e Ben Affleck). Sapevamo che era così, e volevamo proprio odiarlo, Clerks 2: e invece perché Kevin Smith non ci è mai stato simpatico come ora?

Clerks 2 è un film fatto tra amici per gli amici. Il che lo renderebbe approssimativamente insopportabile. La cosa che non lo rende insopportabile (anzi) è che, tra questi amici, ci siamo pure noi. Tutto sommato è poco più che un filmettino buffoncello, una cazzabubbola attaccata con lo sputo e altri liquidi corporei. Ma tra le solite goliardate citazioniste, le ruffianate musicali (come la terna diabolica sfornata nel finale: 1979, Alanis e Soul Asylum – chi come me è cresciuto negli anni 90 non può non alzare le orecchie), e gli espliciti moralismi tipici del cinema di Smith (tenendo sempre conto che la "risoluzione narrativa" si svolge di fronte ad una session di "inter-species erotica", il che è apprezzabile), Clerks 2 è il miglior sequel possibile di Clerks, ti fa sganasciare dalle risate, e ti dà tante pacche sulla spalla, come un buon amico.

E come un buon amico ti tratta con rispetto e non ti prende in giro, e con un pizzico di ben accostata malinconia ti dà esattamente quello che cercavi e che (di)speravi ci fosse ancora. E forse qualcosa, "qualcosina" di più.

nota: da vedere assolutamente in lingua originale. Ecco, piuttosto attendete il dvd. Un esempio qui di seguito.

Randal – Why haven’t you fucked Myra yet?
Elias – Well we can’t because of Pillow Pants.
Randal – What the fuck’s Pillow Pants?
Elias – Pillow Pants is a little troll that lives in her pussy. Pillow Pants is her pussy troll?
Randal – [...]
Elias – Duh. You know how every girl’s parents put a pussy troll in them when the girls are young, to keep them from having premarital sex?
Randal – Sure.
Elias – Well Myra’s is named Pillow Pants. And so even though she totally wants to have sex with me, Myra says that if I put my… thing in her, Pillow Pants will bite it off. So, I gotta wait until Pillow Pants get peed out of her body on her 21st birthday before we can have sex.
Randal – And Myra told you this?
Elias – Boyfriends and girlfriends talk to each other about sex stuff Randal. You’d know this if you ever had a girlfriend.
Randal – Have you and Myra even kissed yet?
Elias – We would have if it weren’t for Listerfiend.
Randal – Listerfiend is her mouth troll, isn’t it?
Elias – Women.

Thank you for smoking
di Jason Reiman, 2005

"Michael Jordan plays ball. Charles Manson kills people. I talk. Everyone has a talent."

Niente male come esordio, quello del figlio di Ivan Reitman: scritto in modo perfetto (dal regista stesso) e retto interamente sulle spalle del bravissimo Aaron Eckhart (ma non sono da meno comprimari come Maria Bello, Robert Duvall e un incredibile Rob Lowe ), Thank you for smoking non sarà forse un’eccellenza nel campo della "commedia acida", ma fa sicuramente centro.

L’idea chiave del successo del film è un rimescolamento dell’ottica morale: ovvero, invece di colpire come al solito la sola industria del tabacco, colpisce a destra e – soprattutto – a manca, e attacca – senza troppi peli sulla lingua e con battute irresistibili – tutta l’ipocrisia del mondo politico e di quello dello spettacolo riguardo al fumo. E si concentra su un personaggio che, per quanto sia disgustoso, è l’unico nel film a possedere una sorta di coerenza morale. Quindi: nessun giro di boa, nessun ripensamento, nessuna redenzione. Evviva.

Insomma, nel suo piccolo e con qualche caduta di ritmo (nella seconda parte – la prima è scoppiettante) e di stile (quando indugia nel videoclippico), Thank you for smoking ribalta una condizione vigente e dominante, sia eticamente che narrativamente. Cosa chiedere di più? A noi italiani, che siamo pur sempre "gli europei che fumano nei film", la cosa può scivolare addosso (un po’ come il film, piacevolissimo ma senza standing ovation) ma nell’ottica hollywoodiana la trovata è più uncorrect di quanto si possa immaginare.

[o no?]

Zio Martin. E non ce n’è più per nessuno.

Su Friday Prejudice, anche questa settimana,
bene e male, babeli e fascisci, serbi e russi, amori, vizi e baci.

Friday Prejudice. Un nuovo infernale episodio.

UPDATE: sono tornati su prejudice i link ai trailer e ai siti ufficiali

A scanner darkly – Un oscuro scrutare (A scanner darkly)
di Richard Linklater, 2006

"What if they come in through the back door or the bathroom window like that infamous Beatles song?"

Operazione a rischio, quella di Linklater: perché azzardarsi a ripetere per una seconda volta l’esperimento del rotoscope, dopo il parziale insuccesso dell’interessante ma bruttarello Waking life? Invece, proprio nelle righe di Philip K. Dick, dal cui omonimo e bizzarro libro il film è tratto, il regista texano trova qualcosa di più che una semplice giustificazione per la sua piccola mania.

E non solo perché non si poteva immaginare un modo migliore per rappresentare l’irrappresentabile "tuta deindividualizzante", ma perché la tecnica permette questa volta un’immersione perfetta nel mondo dickiano, in cui la visione e la mutazione (lisergica, onirica o tecnologica che sia) condivide le stesse condizioni ontologiche della realtà, che a sua volta viene privata dei suoi caratteri "reali" per diventare anch’essa visione.

Certo, Linklater non ha proprio la mano leggerissima, e si vede soprattutto nella verbosità e nella logorrea che permeano il film, e che lo caratterizzano prima di ogni altra cosa, ancor prima che la tecnica d’animazione con cui è stato prodotto. Ma il problema (non da poco, visto i messaggi erronei con cui il film viene proposto ad un pubblico che rischia di sbadigliare) è spesso – non sempre – risolto da dialoghi e attori incredibilmente spassosi: per esempio, la lunga sequenza del biglietto sulla porta, o il dialogo sulla bicicletta.

E anche se le tre ottime spalle di Keanu Reeves (Robert Downey Jr., Woody Harrelson e soprattutto Rory Cochrane) non fanno che ripetere a papera con la loro performance lo sbilanciato e irresistibile overstatement di Depp e Del Toro in Paura e Delirio, e nonostante i bruschi cambi di tono, o l’impressione di un mero esperimento (o "scherzo", fate voi), o la sensazione di irrisolutezza che è quasi un marchio di fabbrica di Linklater, o la difficoltà a tenere con scioltezza le fila del racconto e a compattare senza disascalismi la complessità dei temi in gioco, è davvero difficile negare la buona riuscita del film. Affascinante, ironico, quanto basta.

Ha la capacità di farsi dimenticare abbastanza in fretta: ma non si può negare la tentazione di una possibile e repentina seconda visione. In cui ecco, magari tutto si capisca un po’ meglio. E ne varrebbe la pena, perché A scanner darkly, pur nel contesto di un libro che rifugge ai temi e agli stilemi (perlopiù superficiali) che l’industria del cinema ha più spesso utilizzato e cannibalizzato dall’opera del grande scrittore americano, riesce ad essere – almeno – tra le cose più autenticamente dickiane prodotte di recente.

[post in attesa, whatever]

Entrambi entro domani, forse prima.

(niente, era tanto per postare qualcosa nel frattempo)