Blood diamond – Diamanti di sangue (Blood diamond)
di Edward Zwick, 2006
"While Mr. DiCaprio turns out to be an ideal fit for Blood Diamond, there’s an insolvable disconnect between this serious story and the frivolous way it has been told. There is no reason to doubt the filmmakers’ sincerity; only their filmmaking."
Manohla Dargis, The New York Times
Come descritto da FedeMC nel suo post, un pensiero su Blood diamond può prescindere in qualche modo dalle sue implicazioni politico-sociali? Ci provo anch’io, brevemente: sia sulla carta che sullo schermo, il film di Edward Zwick, che si riconferma regista di insormontabile mediocrità, è poco altro che il solito lunghissimo polpettone d’avventure, con ambientazione esotica (sui generis, ma pensando al pre-finale nemmeno tanto) e sottostoria romantica, non orribile ma tranquillamente evitabile, e che probabilmente non merita tutta l’attenzione che gli è stata data dai media nell’ultimo periodo.
A questo punto, il ragionamento politico, (pare) sentito e (sicuramente) doloroso, cosa diventa nell’ottica del film? Un punto a favore del film o ai suoi danni? Forse entrambe le cose. Perché di certo il modo in cui viene rappresentato il continente nero – per esempio l’addestramento dei ragazzini che, strafatti di eroina e tutti pitturati, vanno a massacrare interi villaggi mentre il G8 applaude alla prestigiosa presenza dei due simil-De Beers – ha davvero poco di rassicurante o dell’Africa da cartolina che siamo stati abituati a vedere. D’altro canto però, con tutto lo sforzo nel risultare il meno "exploiting" possibile, alla fine predica bene e razzola male: anche se la sceneggiatura, molto intelligente, contiene al suo interno molte possibili risposte ad un simile ragionamento.
L’innegabilmente nobile merito del film non fa quindi che spostare avanti e indietro l’ago della bilancia, lasciando stupefatti: a volte per l’inedita (in una produzione simile) e realistica crudezza delle situazioni, altre volte per la faccia di bronzo che Zwick e soci mostrano di avere nel mescolare discorsi serissimi e l’impianto da filmotto da casalinghe annoiate, confezionando a tratti dei veri e propri nadir del pessimo gusto, con un passo talmente pesante che a confronto Mel Gibson è un étoile della Scala. Quello che resta in mezzo ai due piatti ormai stremati, così come la nostra pazienza, è un fumettone vecchiotto, noioso, rimbomante e davvero troppo lungo.
A fare la differenza invece, molto più di Djimon Hounsou, è Leonardo di Caprio: cinico, ironico, irresistibile. E con un accento pazzesco. Da solo non riesce a risollevare un film banalotto e sostanzialmente ricattatorio, ma lo si è visto visto fino in fondo quasi solo per lui.