febbraio 2007

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The covenant
di Renny Harlin, 2006

Quando scrivi (o pensi) male di un film ti può capitare di divertirti parecchio. Si dice sempre, è più leggibile una stroncatura che un elogio, o comunque più divertente. Questo succede soprattutto se il film ha avuto anche la sua buona (o misera) fetta di ammiratori. Come Babel, insomma, o come Little miss sunshine, oppure come l’ultimo Lynch, se per caso vi capitasse di avere dei problemi mentali. Oh, si scherza eh. Ah, sai quanto mi piace mettere le mani avanti, ma non si sa mai. Magari c’è gente capace di prendermi ancora sul serio dopo un anno e passa di prejudizi.

Ma che succede se il film non ha avuto alcun estimatore in nessun angolo sperduto del mondo che non sia la cameretta tappezzata di poster dei Good Charlotte di una ragazzina che tiene l’iPod con gli Evanescence a palla nella mano sinistra e una lametta arrugginita nella destra? Attenzione, però: dopo la visione del film di quel fottuto adultero di Renny Harlin, e che il cielo abbia in gloria il pene di Geena Davis per il Suo Sacrificio Per l’Umanità, ho qualche dubbio che il film possa piacere persino a una DevastatedGirl89 qualunque. Perché se davvero il film fosse diretto ad un target ben preciso, un po’ come le pubblicità che passano durante TRL, potrei capire capire e mettermi semplicemente da parte, perché io una specie di vita vera ce l’ho. Ma se non fosse così? Lo dico, sospetto che non lo sia affatto: qui qualcuno ci crede davvero. In tal caso, beh, fa semplicemente schifo.

Vogliamo salvare qualcosa? Direi di no: un baraccone trash e/o tamarro del genere può essere sollevato dalle putrescenti ceneri che produce, a mio avviso, solo se in grado di creare un qualche tipo di discorso intorno ad esso, e intendo fuori da esso. E non è detto che sia un punto di valore: facciamone però una questione di decenza autoriale, o meglio ancora, spettatoriale. Che so, gli ormai onnipresenti sottotesti gay à la Winchester Bros. Per divertirmi almeno un po’, quindi, ho provato a trovare qua e là tocchi di divertita frocianza, esercizio che ultimamente reca a chi vi scrive un notevole e soddisfacente spasso (non solo individuale).

Tutto quello che ho trovato è stato un bacio di sfida (allora, se volete fare la gioia degli Autori di fanfiction, imparate questa semplice maledetta regola: esplicito brutto, implicito bello. Capito? Esplicito. Brutto. Mi sembra chiaro.) e lo stregone cattivo (Sebastian Stan, che è forse l’unico salvabile del cast anche se è conciato come Jason Priestley nelle ultime stagioni, quando si stava già imbolsendo) che urla "I’m going to make you my Wee-yotch!" allo stregone buono (Steven Strait: ecco, segnatevi questo nome su un foglietto. E poi bruciatelo). Chapeau, J.S. Cardone. Hai davvero superato te stesso. Weeyotch. Scommetto che ti sentivi molto intelligente per questa pensata. Per quanto mi riguarda ha più valore clinico di un piss test. Ma dopotutto, cosa possiamo aspettarci da uno che ha scritto e diretto Mummy an’ the Armadillo?

Per il resto, The covenant è tutto quello che ci si aspettava. Solo, way much worse. Si sono sprecati ovunque i paragoni con The Craft, e assolutamente a ragione. Ma in confronto a The Covenant, il film di Andrew Fleming era di-vi-no. E se avete visto The Craft, beh insomma, fatevi due calcoli. Ma là c’era Fairuza Balk che diceva "We are the weirdos, mister", qui c’è un biondo insopportabile – peraltro conciato come Draco Malfoy dopo uno sverginamento precoce – che urla "Harry Potter can kiss my ass" librandosi in volo da un dirupo. Ma magari, dico io. E noi che volevamo solo divertirci, farci quattro risate, vedere delle balle di energia blu sparate contro ragazzetti ricchi, tamarri e ingellati che usano la magia per sollevare le gonne, giocano a calcetto mentre le loro femmine li aspettano al tavolo, e peraltro ascoltano della musica di merda.

E invece, fuffa. Cristo, questa gente non conosce vergogna.

[things you've lost]

Alla vostra sinistra Colin Meloy che, durante il concerto dei Decemberists a Bologna, si siede a suonare sul bordo del palco, facendo peraltro svenire un paio di volti noti della blogosfera.

Alla vostra destra Fyfe Dangerfield che chiude il concerto dei Guillemots a Milano cantando Blue would still be blue senza amplificazione e con l’ausilio di una pianolina.

- che dici, ce lo portiamo a casa?
- sì dai, così la sera ci suona la pianolina per farci addormentare

Alpha dog
di Nick Cassavetes, 2006

Va bene, cercherò quanto possibile di prescindere dalla presenza nel film di Justin Timberlake, a cui renderò giustizia brevemente dicendo che sì, in effetti, è proprio bravo: prima divertente guasconcello e poi paradigma della paranoia e soprattutto della debolezza, è tra le cose migliori del film. Anche il suo personaggio, forse l’unico del cast a smuovere un briciolo di empatia spettatoriale per il destino che lo attende. Forse perché appare in scena sollevando dei pesi con dei grossi tatuaggi cinesi finti?

Il film di Cassavetes invece, preso nella sua interezza, potrebbe essere purtroppo riassunto nelle seguenti linee cardinali: se sei giovane e benestante a cavallo del millennio sei sicuramente sempre ubriaco e drogatissimo, e se non sei già un delinquente sei sulla buona strada. Mancano solo le corse con le macchine. Punto di non ritorno delle Cattiive compagnie degli sfavillanti eighties: la tua è una triste generazione di cani che scodinzolano e seguono il carisma del maschio alfa, e non conta se costui assomiglia ad una versione sfigata di Jack Black. Non ci sono ripensamenti, non ci sono leggi morali. Sei condannato, punto.

Una visione così semplificata, non solo di una vicenda storica realmente accaduta (e riportata con una certa fedeltà) ma di un’intera disgustosa generazione, ritratta in modo giustamente impietoso ma alquanto banalizzante (non esistono eccezioni alla regola, e non mi si venga a tirare in ballo la "realtà" o la ristrettezza del campo d’azione), può risultare abbastanza fastidiosa. E così il film. Che però tutto sommato starebbe in piedi: non manca qualche bel momento, soprattutto grazie al cast (Ben Forster è sopra le righe ma promette bene, e poi appunto, come non detto, c’è Justin Timberlake), e l’idea lievemente sadica di cazzeggiare per un’ora e mezza sulle premesse per poi concentrare il climax in pochissimi minuti non è affatto malvagia.

Non sono nemmeno la musica nigga a manetta, le inside joke colorite, il sesso in piscina, a infastidire. Semmai è la pretesa di Cassavetes di fuoriuscire dal recinto del buon racconto (per esempio, è intelligente il modo in cui il fato nerissimo del finale è segnato durante il film dal conteggio numerico dei testimoni del processo) e cercare nell’ultima lunghissima parte una dimensione d’autore, con sequenze interminabili (e inessenziali, dal momento che il climax è stato ormai doppiato, se non per tirare moralette troppo esplicite), tra cui l’incriminato (e incriminabile) monologo di Sharon Stone.

Frignante e truccata (malissimo) da neo-cicciona, la Stone fa una tirata primadonnale capace, tutta da sola, di rovinare gran parte di ciò che avremmo salvato del film. Pensate voi, che roba. Che poi no, c’è anche altro, ma ormai ci siamo già stufati. Non ci caschiamo più.

[non ha vinto Babel]

79th Academy Awards Nominees and Winners.

[facciamo finta di niente]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Clicca, vah.

Che è meglio.

[tonite]

Guillemots @ Transilvania Live, Milano
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Trains to Brazil video directed by Nia Vaughan.

[el pube è un pilota/ambrogio edition]

come da tradizione, qualche notazione logorroica e grafomane sulle vostre serie televisive anglofone preferite, in diretta dalla città dove il carnevale dura di più perché sono tutti matti.

Supernatural
The WB/ The CW

Dopo la massiccia promozione mediatica di autorità-del-settore come Violetta e La Ningia, era impossibile non affacciare la mia testolina affamata di serialità sul magico mondo dei fratelli Winchester. E ora non posso più farne a meno: al punto di riuscire a vedere tre o quattro episodi di fila, accompagnati se possibile da collettive urla di giubilo, senza una punta di dubbio che sia tempo sprecato. Supernatural è una serie che ha potenzialmente tutto quello che potrebbe infastidirmi, ma come con le ciliege o i chupitos, un episodio tira l’altro. E crea una dipendenza di gruppo che ha pochi precedenti e che si espande ben al di fuori del campo temporale della visione stessa.

Torchwood
BBC Three

Di questa serie tv inglese, di cui è da poco finita la prima stagione, ho visto per ora solo il pilota. Ma c’è tutto il materiale per una futura e sonorissima dipendenza: marchingegni alieni, pterodattili, fotografia di grana grossa, quel tocco di slash che non guasta mai, un’eroina adorabilmente imperfetta, il bellissimo accento di Cardiff. Uno spin-off di Doctor Who che sembra un incrocio di Men in Black, Buffy e una versione parodico/goliardica di entrambi. Roba da perderci la testa. E noi sulla RAI abbiamo Elisa di Rivombrosa. Per dire.

The Dresden Files
Sci Fi Channel

La nuovissima serie creata da Jim Butcher a partire dalla sua stravenduta saga letteraria sembra confermare fin dal pilota i miei dubbi su Sci Fi Channel, forse troppo impegnato a godersi gli allori di Galactica. Non che The Dresden Files sia girato o prodotto male, il problema è che di Harry Dresden e dei suoi problemi non ce ne frega niente, la mastodontica fronte di Paul Blackthorne non è d’aiuto, ci siamo stufati delle solite poliziotte legnose e semi-frigide, e al di là dei pallidi tentativi di humor non c’è un briciolo di irona. Il personaggio di Bob, lo spirito-teschio interpretato da Terrence Mann, potenzialmente ottimo (anche solo per l’impressionante somiglianza con Tim Curry), è un contentino risibile. O forse è l’assenza totale, per una volta, di possibili sottotesti gay? Dite che ho dei problemi? Ognuno si diverte come può.

Primeval
ITV1

Il mio primo approccio – credo – con le reti commerciali britanniche ITV va a segno al primo colpo. La prima stagione di Primeval è iniziata da tre settimane e ne durerà altrettante, ma con alti costi di produzione: infatti gli effetti speciali sono più che buoni, soprattutto rispetto alla media televisiva inglese e europea. Ma non è questo il vero punto di forza della serie: sarà il fascino del viaggio nel tempo, sarà il portale stargheittiano in mezzo alla foresta, sarà il nerd con le spillette, sarà il dinosauro che distrugge uno stereo perché infastidito dai Kaiser Chiefs, sarà che Stephen Hart è il maschietto più figo del pianeta, ma il pilota mi ha fatto venire voglia di averne ancora, e ancora, e ancora. Dando a Torchwood quel che è di Torchwood (Primeval infatti gli rubacchia davvero una montagna di idee), una serie da non lasciarsi scappare. E noi su Mediaset abbiamo i RIS. Per dire.

[roba di cui si è già parlato]

Family guy aka I Griffin conferma, perdonabili cali di pressione a parte, il trend positivo delle ultime due stagioni. Episodi incredibili come "Road to Rupert" e autentiche perle come Brokeback Mountain dal punto di vista dei cavalli non hanno prezzo.

Heroes è ormai la nostra droga settimanale. Il martedì sera non si fa niente prima di aver visto Heroes. E se l’episodio 15 è stato forse l’unico davvero moscio dai tempi del pilota, la ripresa del 16mo è stata davvero impressionante, per non dire traumatica. Yatta! a tutti.

Stasera sulla CBS ricomincia Jericho, dopo una pausa durata quasi tre mesi. Tipo, io non mi ricordo quasi niente. Solo che cominciava a piacermi davvero. Robert Hawkins, aiutaci tu.

A proposito di attesissime riprese, avvertiamo lor signori che la scorsa settimana è ricominciato sulla BBC Life on Mars, l’oggetto seriale più bello apparsa sulle tv europee negli ultimi anni. E ricomincia col botto. Tra l’altro, questa seconda stagione sarà anche l’ultima. Devo aggiungere qualcosa?

Siamo sinceri: la terza stagione del serial più noto e seguito (e amato, e chiacchierato, e criticato) del globo, a parte l’incipit spumeggiante del primo episodio, non era poi questo granché. Almeno, rispetto alla spettacolare seconda stagione. Ma "Flashes before your eyes" è uno degli episodi più belli di sempre. Ripeto: di sempre. Desmond Hume è il nostro eroe: quasi quasi ci mettiamo a piangere. Bentornato, Lost.

Su My name is Earl il discorso è sempre quello: la prima stagione era più bella, ma bastano momenti come un flashback dell’episodio 2×14 a farci pensare che forse non possiamo farne a meno.

Chi pensa che la seconda stagione di Prison Break sia in calo rispetto alla prima, probabilmente non la sta guardando affatto: poche volte si era vista in tv una tale violenta discesa all’inferno, illuminata di continuo da tocchi di speranza puntualmente negati dal sadismo di Paul Scheuring. Non credo che il gioco abbia ancora il fiato lunghissimo, e ci attendiamo qualche vero sacrificio in nome della verità: ma per ora la scimmia non è ancora scesa dalla schiena, e non intende scendervi.

La NBC ha invece trasmesso due giorni fa quello che potrebbe tranquillamente essere l’ultimo episodio di Studio 60 on the Sunset Strip: la creatura di Aaron Sorkin, a causa degli ascolti disastrosi e dell’odio collettivo degli americani nei confronti di Sarah Paulson (e delle tematiche religiose, sospetto), sarà sostituita da lunedì prossimo da una serie che non voglio nemmeno nominare scritta da Prezzemolo Haggis. Alla fine della quale? Chissà. Ma non possiamo certo pretendere granché da un pubblico che scarta l’arguzia e la supponenza di Mr Sorkin perché si sente preso in giro. Certo che vi prende in giro, e ha pure ragione. Va detto: da noi andrebbe probabilmente peggio.

Non mi arrendo all’idea che una serie basata su meccanismi abusati e con tanto di risate registrate possa farmi così ridere. Ma è così. E ultimamente ho scoperto che non è un problema solo mio, il che mi consola. Comunque, la recente opposizione Lizzy Caplan versus Jaime King è un’autentica rivelazione. Credo che nel nostro paese The Class farà furore.

Cercavate gli altri post simili? Uno, Due e Tre.

E prometto che se mi trovate un lavoro la smetto.

Guida per riconoscere i tuoi santi (A guide to recognizing your saints)
di Dito Montiel, 2006

Ci possiamo permettere di guardare con sospetto a parte del cinema indie statunitense, tanto più se il film in questione è passato dal Sundance (dove ha vinto per la regia e il cast) e dalla discutibile Settimana della Critica veneziana (vinta anch’essa), tanto più se a scrivere e dirigere il film è un esordiente, è autore e protagonista principale del libro da cui è tratto, e fino a poco fa si è occupato di musica più che di cinema. Eppure, nonostante tutti questi dubbi, ci troviamo di fronte ad un esordio indiscutibilmente compiuto. Oppure, più personalmente, struggente fino alla vergogna.

Saints non è un film particolarmente originale, né tantomeno è un prodotto raffinato: primo, perché si rifà esplicitamente a molto cinema di "formazione urbana", cogliendo a piene mani – fin dall’ambientazione – dalle atmosfere e dalle storie raccontate da altri registi italoamericani (e non solo). Secondo, perché cerca di andare dritto al cuore senza passare dal "via", spingendo moltissimo sul pedale del melodramma, e utilizzando di conseguenza i suoi attori più con singoli pezzi di bravura che con una vera struttura pienamente coesa. Ma se qualche volta vi capita di piangere al cinema, e qui non buttate una lacrima, nemmeno – che so – durante il dialogo in macchina tra Dito e Nerf, allora siete davvero senza cuore. Oppure avete già trovato un posto nel mondo e la vostra vita ha una dimensione definitiva: in tal caso, mi tocca odiarvi. Perché io ho proprio frignato.

Forse con un cast diverso (sono tutti spaventosamente bravi, con il nostro sempre amato Robert Downey Jr e Chazz Palminteri in cima – e picchiatemi forte se oso parlare di nuovo male di Channing Tatum) o con una fotografia meno splendente (ennesimo ottimo lavoro del francese Eric Gautier), o una colonna sonora meno coinvolgente, oppure – ancora – se fosse stato privato di alcuni singoli momenti topici (l’attacco di cuore del padre, risolto pudicamente con una serie di blanks ritmici) il risultato sarebbe stato diverso. Ma è inutile porsi queste domande: il film è bellissimo così com’è, ingenuità narrative, "fuck" e "you know" profusi, e chiacchiericcio a voce alta compresi.

Se diventasse un piccolo cult qui anche da noi non potrei che esserne felice.

Nei cinema dal 9 Marzo 2007

[masters of horror, season 2]

Seconda Parte


S02E04 – Sounds like
di Brad Anderson

Il regista che si è imposto all’attenzione internazionale grazie, oltre che alla sua avvenenza, a due interessanti variazioni thriller (Session 9 e L’uomo senza sonno), si discosta notevolmente dalle pieghe più gore di altri colleghi della serie, e gira un altro horror psicologico, questa volta improntato sul tema (tradizionalissimo nel genere, anche sotto il profilo teorico) dell’udito. Ma il film non porta molto in là il suo discorso, non fa nulla per rifuggire la notevole piattezza dell’impianto visivo, e – soprattutto – esaurisce le idee nel giro di una mezz’ora. Tuttavia, si apprezzano lo sforzo e la notevole presenza scenica di Chris Bauer.


S02E05 – Pro-Life
di John Carpenter

Di fronte all’autentica meraviglia che fu Cigarette Burns la scorsa stagione, Pro-Life non fa proprio una bella figura: Carpenter adatta un altro script di Moriarty (editor furbacchione di Ain’t it cool news – pensate se in Italia succedesse una cosa simile), che si dimostra autore intelligente e cinico ma che stavolta fa l’errore di spingere il suo sacrosanto anatema contro i fanatismi antiabortisti ad un livello troppo esplicito e urlato, fino ad arrivare a un’isterosuzione anale (sic) da far rizzare i capelli. E soprattutto Carpenter sceglie di sbattere il mostro in primo piano: peccato che quest’ultimo sia davvero vergognosamente cheap. Non vorrei vivere in un mondo in cui "ridicolo" e "Carpenter" possano convivere nella stessa frase, ma in questo caso, alla fine, faccio buon viso a cattivo gioco. Per dire: preso come lunghissimo e tesissimo assedio, Pro-Life è più carpenteriano che mai. Musiche comprese. Fossi in voi mi accontenterei pure io.


S02E06 – Pelts
di Dario Argento

C’è un sacco di gente che si suicida imitando le fasi di produzione delle pellicce, condizionata da procioni morti i cui esemplari viventi fanno allegramente capolino dalle finestre di una vecchia matta? Ma dico, non suona un briciolo idiota anche a voi? Pensate, ci hanno fatto un film, con quest’idea. Ed è Pelts. Pelts è uno di quegli episodi di MOH che ti fanno seriamente chiedere per quale maledetto motivo stai ancora seguendo tutta la serie. Perché non selezioni un minimo gli episodi. Perché invece di saltare decine di secondi a botta con il comando "skip" di Bsplayer non chiudi il file e te ne vai a mangiare qualcosa. Perché fanno fare episodi a Dario Argento. Ecco, questa è la chiave. Perché Pelts è persino più brutto di Jenifer. Lo so che può sembrare assurdo, ma Pelts è persino più brutto di Jenifer. C’è Meat Loaf che strabuzza gli occhi e urla "After Cirio, sky is the limit! Sky is the limit!", period. John Saxon è invecchiatissimo e ciucco, e fa vomitare. Infine, c’è una lapdancer strappona che sta nuda per metà film e ha il suo momento di apoteosi recitativa quando si aciuga con il dorso della mano le secrezioni vaginali della sua godereccia partner. Vi prego, fate fare a Dario Argento dei soft-core, ma basta con il cinema. Basta!

Feast
di John Gulager, 2005

La cosa più divertente – in senso relativo – di Feast, risultato della terza stagione del Project Greenlight di Matt Damon e Ben Affleck, è andare in giro per la rete a scoprire curiosità sul cast. Per esempio: Eileen Ryan, che interpreta Grandma, è la mamma di Sean e Chris Penn. L’anziano barista Clu Gulager non è solo il padre del regista, ma in una serie degli anni ’60 interpretava Billy the Kid. Tra l’altro, in un dialogo di Feast, rifiutandosi di fare l’eroe, dice "ehi, I’m not Billy the Kid". Deh. Judah Friedlander è un one-character-actor che ha interpretato Beer Guy in un tot di film (soprattutto del Frat Pack). Il soldato è il leader dei Naughy by Nature. Duane Whitaker era Maynard, l’amico di Zed, in Pulp Fiction. Il motivazionista è Henry Rollins dei Black Flag. E via dicendo.

Per dire che il film è invece meno stimolante del suo continuo giochetto citazionista. Va detto che un horror così breve e tutto sommato divertente può essere anche una boccata d’aria, soprattutto per il suo non prendersi mai e poi mai sul serio: la classica presentazione con fermo immagine dei personaggi, che indica la loro "aspettativa di vita", viene puntualmente ribaltata in breve tempo, ed è davvero un colpaccio. L’idea vincente è di ammazzare nel giro di pochi secondi tutti i personaggi che in un horror sarebbero normalmente durati più a lungo, se non fino alla fine: il soldato, la lesbica, l’eroe figo, la star (Jason Mewes nel ruolo di se stesso), lasciando a se stessi i personaggi più apparentemente inutili o disadattati. Persino il bambino innocente tira le cuoia prima di poter dire bif, tra le nostre urla di giubilo.

Però siamo ancora fermi lì, all’horror d’assedio, ai mostri brutti e schifosi che vengono dal deserto, all’istinto di sopravvivenza, alla metonimia da camera del brutto sporco bifolco popolo americano. Se raccontare un film come Feast è molto divertente, vederlo lo è già un po’ meno, e a rifletterci sopra viene il voltastomaco. Ciò nonostante, la consapevolezza di genere della sceneggiatura è ammirevole (i personaggi rinunciano brevemente a comprendere da dove vengano questi mostri schifosi: dopotutto, chi se ne frega?), la vena gore è decisamente spinta (al di là del "monster cock" e degli svariati pezzi di corpi strappati o lacerati, il top è la tizia che ammazza il mostro spaccandogli i denti con il calcio del fucile e poi infilandogli un braccio intero in gola), e la doppia beffa finale è a sua volta una beffa brillante nei confronti del "metodo della beffa finale" dell’horror contemporaneo.

Il barista che muore d’infarto mentre tiene fermo il mostro mentre Balthazar Getty gli urla "You’re having a fuckin’ heart attack? You kidding me?" mi ha fatto letteralmente rotolare per terra dalle risate.

[tonite]

The Decemberists @ Estragon, Bologna
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It was a cold night, and the snow lay low
I pulled my coat tight against the falling down
And the sun was all down.

L’ultimo re di Scozia (The last king of Scotland)
di Kevin MacDonald, 2006

A questo punto, non mi sorprenderebbe affatto che all’impressionante sfilza di premi già vinti da Forest Whitaker per questa interpretazione si aggiungesse anche quello dell’Academy: il suo Idi Amin Dada è un personaggio davvero enorme, diviso tra fascino e follia, intelligenza e spietatezza. E non è solo una questione di accento. Ma che Whitaker fosse un grande attore, ce ne eravamo accorti da tempo. Tutt’altro dire che sia lui il vero protagonista, incarnato qui dall’esecuzione professionale del bel giovine James McAvoy. Ma né gli occhioni blu di quest’ultimo, né l’insospettabilmente bellissima (e inaspettatamente brit) Gillian Anderson, né il formidabile fondoschiena di Kerry Washington, ne oscurano il protagonismo.

Come in ogni situazione normale, questo non giova del tutto al film che, così come è segnato positivamente dall’intepretazione dell’attore texano, così né è in qualche modo ingombrato. Ma tutto sommato il film si regge piuttosto bene sulle sue gambe, e non annoia. Più che altro, non cade nei grossolani errori del recente compagno d’Africa Blood diamond: questo perché la regia decide programmaticamente di non rischiare troppo (ricorrendo però ad arditi e gustosi piccoli movimenti di macchina indugianti sul corpicione di Whitaker) e la sceneggiatura valorizza più il lato individuale (il film come storia di una doppia figliolanza) che quello storico, rinunciando al biopic vero e proprio e a – possibilmente – pretestuosi rimandi politici in vantaggio di un più robusto e collaudato romanzo di formazione.

Anche a costo di modificare il celebre libro di Giles Foden, trasformando il protagonista per rendere più masticabile – e forse banale, o meglio "solito" – il suo processo di redenzione. Ma non rinunciando a rendere violentemente esplicita la sua discesa all’inferno: essere appeso con due ganci nella pelle del petto non si può certo definire una passeggiata, anche se poi hai la tua possibilità di rivalsa (morale). Non che quest’ultima cosa dia valore aggiunto al film, ma MacDonald dimostra almeno una coerenza nell’estremizzare il ribaltamento tra l’Idi Amin liberatore del popolo e lo spietato dittatore. E visto che nessuno di noi può davvero dire di essere passato indenne attraverso l’incredibile fascino del primo, la cosa spaventa non poco.

Poi tanto ci ricorderemo di questo film per l’insostituibile presenza di Forest Whitaker, e non per altro. Ci si può giurare. Ma visti i tempi che corrono, può anche essere abbastanza.

[si può sempre scavare]

Maghi, dittatori, kamikaze, e ripescaggi all’italiana.

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L’amore non va in vacanza (The holiday)
di Nancy Meyers, 2006

Non avendo troppa voglia di scrivere alcunché sulla brutta commedia di Nancy "certe sceneggiature potevo accettarle giusto nel 1979" Meyers, e dopo aver sentito raccontare questo film dalla sua viva voce, ho deciso di cedere questo post alla signorina Eskimo, la quale, ben più indispettita di me, non avrà nessuna pietà di un film con una buona idea in 140 minuti (i trailer mentali), e il cui zenith è Jack Black che imita le colonne sonore con lo scat. Il che è tutto dire. Buona lettura.

Ci sono delle sere in cui si avrebbe voglia solo di un bagno caldo e di una tazza di cioccolata fumante, da bere seduti sul tappeto peloso davanti al camino che scoppietta. Fuori nevica, eccetera. In mancanza della neve, del camino, della cioccolata, della vasca da bagno, e financo del tappeto peloso, ci si illude che sia possibile accontentarsi di una commedia romantica. Questa è per metà ambientata in un cottage nella campagna inglese innevata (dimora della simpatica, ancorché patetica, giornalista interpretata da Kate Winslet), per metà nella sempre soleggiata L.A. (dimora con piscine e tapparelle radiocomandate della antipatica, che dico: insopportabile, che dico: MALEFICA produttrice di trailer cinematografici interpretata da Cameron Diaz).

Pur con le pretese più basse di questo mondo, dopo un’ora di battute che definire didascaliche è un complimento (Jude Law – che fa l’editor per una casa editrice e quindi porta occhiali con la montatura d’osso e pullover scollati a V – si innamora poco credibilmente dell’ocheggiante/isterica Cameron Diaz dopo un poco credibile one-night stand? Basta fargli ripetere quattro volte "You’re the most impressive girl I’ve ever met"), pronunciate da personaggi tagliati con l’accetta, si è avuta la tentazione di non riprendere la visione dopo la pausa sigaretta. Anche perché, per un film la cui trama sarebbe riassumibile in 8 parole (boy meets girl, other boy meets other girl) 2 ore e un quarto sono veramente troppe.

Proseguendo nella visione a causa di quella che si potrebbe solo chiamare una forma terminale di completismo, ci si imbatte in altre perle (per es., "I have a cow, and I sew. Now how’s that for hard to relate to?") che ricordano un po’ il rumore delle unghie sulla lavagna, soprattutto nella stucchevole parte inglese, fino ad arrivare a un finale stile Hallmark con una festa di Capodanno in cui le bambine (deliziose, va detto) di Jude Law guardano indulgenti gli adulti in ghingheri che ballano e bevono champagne.

(precariatoedisagio.blogspot.com)

[tonite]

Howe Gelb @ La Casa 139, Milano
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(also Giant Sand, The Band of Blacky Ranchette, OP8, AAAA)

Giant Sand – Shiver video directed by Bill Carter

Tenacious D e il destino del rock (Tenacious D: The pick of destiny)
di Liam Lynch, 2006

"Cock. Use the cock."

Indispettisce parecchio che il film sul duo formato da Jack Black e Kyle Gass, a lungo progettato e rimandato a causa dell’impressionante ascesa del primo, inizi in questo modo e vada avanti in quest’altro modo. Perché i primi minuti del film sono infatti una roba da non crederci: Jack Black formato mini, Meat Loaf padre bigotto, Ronnie James Dio poster vivente, un medley irresistibile, una specie di Tommy stravolto al demenziale. Giusto un bel videoclip, ma insomma, io me lo sono rivisto quattro volte.*

Ma ci vuole poco – giusto qualche minuto, una gag o due – a capire che il film prenderà un’altra piega. Ovvero, come giustamente faceva osservare costei, quella di un film volto ad abbassare notevolmente il vostro quoziente intellettivo. Ma a scocciare non è tanto la volgarità anal/genitale né la trama sottilissima e pretestuale, ma proprio il ritmo catatonico in cui, tra una cantata e l’altra, JB e KG fanno un po’ quello che pare loro, senza badare troppo al fatto che ci sono pure degli spettatori che li stanno guardando. Sarà un caso, ma la presenza di Ben Stiller (nel cast e in produzione) è alquanto sospetta. E strizzare l’occhio a Landis ogni 5 minuti – e in tutta la mezz’ora finale – non basta per fare un nuovo Blues Brothers.

Poi vabbé, il film è spensierato e spudoratamente idiota, quindi se non pagate un biglietto salato può anche fare simpatia. Le canzoni sono incredibili, e il modo in cui i testi demenziali si piegano alle esigenze della sceneggiatura (vedi la sequenza lisergica di Sasquatch) lascia di stucco. A Jack Black poi si vuole sempre bene, e rimane il coinquilino che tutti noi vorremmo avere, se avessimo ancora vent’anni, anche se si è scelto un regista tanto simpatico quanto inetto**. Nonostante tutto ciò, se vorrete evitare una simile improponibile scemata non avrete di certo il mio biasimo.

Dave Grohl, truccato da Satana, canta "Yes you are fucked / Shit out of luck /Now I’m complete / And my cock you will suck". Ecco, facciamo che passi come un avvertimento, non come un consiglio.

Nelle sale dal 23 Febbraio 2007.

*I primi sei minuti su Youtube.
**Sì, Liam Lynch è quello di United States of Whatever.

Vero come la finzione (Stranger than fiction)
di Marc Forster, 2006

Mi sembra proprio che le cose più interessanti da dire su Stranger than fiction, più che sul film in sè – piacevole e innocua variazione sul tema della della narratività, già indagato da Forster stesso nell’orribile e imperdonabile Finding Neverland, altrove con corde vagamente onanistiche, qui con toni ben più leggeri e ambizioni ribassate – riguardino il finale, o meglio il secondo finale. Perché il primo è proprio bello bello, e quindi non è necessario passarci un minuto di più in questa sede.

Insomma, non solo ricordo davvero pochi finali autenticamente paraculi come questo: a ciò si aggiunge l’autogiustificazione sui cui l’intelligente e/o scaltro script di Zach Helm si dilunga negli ultimi minuti della pellicola. Come a dire: scusate se questo finale fa sensazionalmente schifo, ma vi assicuriamo che non è una necessaria scelta di produzione. C’è sotto una necessità narrativa. Ancora di più: una ragione morale. E tutta questa baggianata è messa in bocca ai personaggi stessi, con frettoloso didascalismo. E noi dovremmo anche credervi?

Ciò nonostante, non sono tipo da rileggere un intero film a posteriori sulla base di un finale così bruttamente conciliatorio, appiccicato lì con una tale faccia tosta. Insomma, passate le tristi trovatine grafiche dell’incipit (tra le più inutili di sempre), il resto del film non è poi così male. C’è una splendida Maggie Gyllenhaal tatuata e in canotta, Will Ferrel sottotono che suona la chitarra, Emma Thompson emaciatissima e che si sbraccia, e Dustin Hoffman che dice un tot di cose sostanzialmente intelligenti, almeno considerando la media culturale del cinema statunitense.

Emma Thompson è spaventosamente uguale a mia madre. Il che significa che io, essendo uguale a mia madre, dovrei essere uguale a Emma Thompson. Aristotelicamente parlando. Non so chi, ma dovrei avvertire qualcuno di tutto ciò.

[the Faccioni day]

Vabbè i pregiudizi, ma voi volete davvero vedere qualcos’altro?

Il nuovo episodio di Friday Prejudice feat. INLAND EMPIRE.

UPDATE
La programmazione di INLAND EMPIRE in Italia.
Campania
: Napoli (Modernissimo)
EmiliaRomagna:Bologna(Rialto),Modena(Filmstudio),Rimini(Settebello)
Friuli Venezia Giulia: Pordenone (Cinemazero), Udine: (Visionario)
Lazio: Fiumicino (UGC), Roma (Fiamma, Giulio Cesare, Greenwich)
Liguria: Genova (Ariston)
Lombardia: Brescia (Metropol), Mantova (Mignon), Milano (Arlecchino)
Marche: Ancona (Galleria)
Piemonte: Torino (Massimo)
Puglia: Bari (Kursaal Santa Lucia)
Sardegna: Cagliari (Spazio Odissea)
Sicilia: Catania (Ariston), Palermo (Aurora)
Toscana: Firenze (Flora), Livorno (Kino Dessé), Siena (Nuovo Pendola)
Veneto: Padova (Multiastra), Treviso (Edera)

Sprovviste di copie le seguenti regioni:
Abruzzo, Basilicata, Calabria, Molise, Trentino Alto Adige, Umbria, Valle d’Aosta.

Half Nelson
di Ryan Fleck, 2006

Il debutto nel lungometraggio di finzione per Ryan Fleck e Anna Boden (qui produttrice e co-sceneggiatrice) è tratto da un loro corto del 2004, e racconta dell’amicizia tra una tredicenne nera, pericolosamente sulla strada dello spaccio, e il suo professore di storia e coach di basket, carismatico, intelligente, bello da paura e drogatissimo, che tra una dose di crack e l’altra insegna ai suoi alunni la concezione della storia come spirale e come scontro di opposizioni dialettiche.

Grazie al tono realistico portato dalla predominante camera a mano, alle musiche miracolosamente adatte dei Broken Social Scene, alla bella sceneggiatura che riesce anche a dare un senso – e un contesto – storico e politico, ma senza mai calcarci troppo la mano, e soprattutto grazie all’interpretazione pacata, profonda e illuminante di Ryan Gosling (nominato agli Oscar deo gratias), riesce ad aggirare praticamente tutti i rischi presenti nel plot – abbastanza risaputo nelle sue linee essenziali – e a creare invece una storia di empatia, complicità, maturità e crescita che lascia il segno, con esiti straordinariamente equilibrati, quando non addirittura commoventi.

Uno dei film indie statunitensi più interessanti degli ultimi tempi, applaudito e premiato un po’ ovunque. Speriamo che qualcuno se ne accorga anche da noi, e in fretta.

Approfondimento: Dialecticts for Kids

Infamous – Una pessima reputazione (Infamous)
di Douglas McGrath, 2006

Uno dei discorsi più ricorrenti nel mondo dei cineblog (e non solo, si intende) riguarda i possibili livelli di autonomia di un testo, qui un’opera cinematografica, rispetto ai suoi – chiamiamoli così – "confini". Ancora una volta, dunque: nel caso di Infamous, è possibile prescindere nella valutazione (e nell’analisi, se davvero per assurdo ci si volesse produrre in una vera analisi) da un film come Capote, uscito solo pochi mesi prima? Perché è chiaro che, pur essendo tratti da due libri differenti (George Plimpton qua, Gerard Clarke là), i film trattano lo stesso argomento, e spesso e volentieri in modo similare. La risposta, in questo caso, portata da un’innegabile pigrizia mentale, credo proprio che sia negativa.

Questo perché Infamous, pur essendo un film sostanzioso e non del tutto sbagliato, e pur essendo un film capace di reggersi sulle proprie gambe, grazie soprattutto al discreto script (dopotutto McGrath è uno sceneggiatore, ed è pure un bravo sceneggiatore), non regge il confronto con il bel film di Bennett Miller. E non è solo una questione di compattezza registica (qui lasciata un po’ a se stessa) o di cast (basti pensare – per non essere banali o impietosi – a Jeff Daniels vs Chris Cooper), ma proprio dello spirito che muove il film, del senso che veicola o che cerca di veicolare. Mi spiego: una barzelletta non è altrettanto divertente se chi te la racconta non l’ha capita del tutto, o se la forza di quella barzelletta non è tanto la punchline quanto il meccanismo di suspence che vi ci porta. E tanto meno ancora se quella barzelletta la conosci già.

Laddove Capote era una parabola cupa e funebre, che usava il paesaggio e la fotografia con toni quasi metafisici, e che faceva di un personaggio inevitabilmente "maiuscolo" una parte di un autentico affresco di semplici e chiare opposizioni naturali, qui a predominare gran parte del film è la sola figura di Capote, trattata peraltro con toni semplicistici, tutti concentrati a una riproduzione il più possibile esatta del personaggio storico. Libero ciascuno di trarne più giovamento, ma il Truman pre-In cold blood descritto da McGrath, più simpatico che arguto, più solare ed eccentrico che sgradevole, non riesce a soddisfarmi. Forse perché a McGrath dei personaggi secondari importa ben poco, e i didascalici e noiosissimi inserti dei camei "intervistati" stanno lì a dimostrarlo. E dopo un po’, delle mossette e della vocina di Toby Jones, – cosa che non accadeva affatto con Philip Seymour Hoffman – ci si stanca eccome.

Resta un incipit bellissimo, con la Paltrow che sacrifica se stessa in un cameo che rende finalmente giustizia al suo spesso dimenticato talento (ma l’inizio violento e folgorante di Miller era tutt’altra cosa), e tutta la parte finale, in cui finalmente i toni si scuriscono e si comincia a raccontare qualcosa che ci interessa davvero. Ma forse è troppo tardi. E comunque, niente che Capote non ci abbia già mostrato, o descritto, o fatto provare. Nello stesso identico modo, quando non meglio.