marzo 2007

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300
di Zack Snyder, 2006


"Spartans! Lay down your weapons!"
"Persians! Come and take them!"

Se non fossi così pigro, mi piacerebbe essere il primo a parlare di ogni film di cui scrivo, così non sarei costretto a venire a patti con quello che qualcuno si potrebbe aspettare da un post come questo, né con il confronto – non con i post in sè, ma con le opinioni che vi vengono espresse. E’ pigrizia anch’essa. La mia idea è che al momento, dopo un tale epocale chiacchiericcio – riguardo a un film che forse alla fine non lo meritava nemmeno poi tanto – qualunque cosa ci sia scritta qui sotto non farebbe molta differenza. Semmai, ci vuole una presa di posizione, almeno relativa, e una – dico una – osservazione originale. Non essendo in grado di fare quest’ultima, ho fatto questo paragrafo. Riguardo a ciò che penso di 300, preferisco sottolineare quello che non ne penso. Un post in negativo, quindi. Oggi mi gira così.

Dunque, in questo post si potranno dire un sacco di cose, ma di sicuro non si dirà che Zack Snyder non sia un bravo regista, già solo per il fatto di riuscire a restituire una notevole potenza plastica ed estetica a ralenti e velocizzazioni dopo anni di decerebrata sovraesposizione hollywoodiana, così come non si dirà che la parte di puro adattamento del fumetto di Miller (che da queste parti si adora, su questo punto dobbiamo capirci) non gli sia riuscita persino meglio di quanto ci potessimo aspettare ai tempi dell’annuncio del progetto. Forse non dirò nemmeno che ho paura per Watchmen, ché Snyder un po’ di speranza ce la lascia. Il talento ce l’ha. In ogni caso, non dirò che il film è noioso, o che è una minaccia per la nostra psiche, o che puzza, perché non è così. Anzi.

Però, d’altro canto, non potrò dire nemmeno che il trasferimento plastico e visivo delle tavole milleriane abbia giovato automaticamente alla sua resa emozionale – e qui dovremmo tutti fermarci a riflettere, sulle differenze tra le arti e sui bisogni reciproci – né si sosterrà in alcun modo che le parti aggiunte – anzi, appiccicate alla meno peggio – dalla bimbesca sceneggiatura di Snyder, Johnstad e Gordon (un intrigo a corte, un paio di mostri e un paio di scopate, circa) siano altro che stupide ridicolaggini, che per troppi minuti abbassano 300 al livello di un qualsiasi peplum di bassissima lega. Va detto: imperdonabilmente.

Quello che non tirerò in ballo sicuramente è il discorso politico – e qui non devo nemmeno spiegare il perché – né i sottotesti froci – sennò vado avanti tutto il pomeriggio. In conclusione, non si dirà che 300 è un piatto film hollywoodiano (perché non lo è affatto, anzi, tolte le suddette orribili parentesi di palazzo, è un film quasi inusuale in un’ottica da blockbuster statunitense, e sicuramente più divertente e piacevole della media) ma non si dirà nemmeno che sia un film capace di superare i suoi evidentissimi limiti – perché dà come l’impressione di economizzare dove avrebbe dovuto investire, e viceversa. E ci voleva tanto così.

Mai e poi mai però si dirà che vedere l’imbattibile falange di Leonida in azione in questo modo non sia stata una gran goduria. Chiuderà il post una battuta di stile sui corpicioni nudi e sulle urla sguaiate degli Spartani.

[scimmie]

Il nuovo annoiato episodio di Friday Prejudice.

Devi cliccare, non so più come dirtelo.

[altri tempi]

Memories of Matsuko (Kiraware Matsuko no isshô)
di Tetsuya Nakashima, 2006

Provate a immaginare la formula narrativa melò declinata al femminile più tragica che vi possa venire in mente. Poi riempitelo di canzoni e canzonette, colori ipersaturi e fantasmagorie visive, cartoon e manga, uccellini disneyani e corvi della spazzatura, scarpette luccicanti e carceri ballerine. Memories of Matsuko è così: un film in cui in cui il dolore e la sua sublimazione vanno a braccetto, completandosi e annullandosi a vicenda, in un equilibrio, sulla carta, davvero difficilissimo da ottenere.

Ma il film funziona, e funziona che è una meraviglia. Non solo per l’innegabile bellezza delle canzoni: ad aiutare il film ci sono la compiutezza della struttura detection (alla Citizen Kane, per intenderci) e la gustosa rappresentazione naif del Giappone degli ultimi trent’anni, affrescati in modo completamente antistorico e antitemporale – ribaltando se vogliamo la tendenza di un’opera apparentemente non lontanissima come Always di Takashi Yamazaki. Ma soprattutto, c’è – principalmente durante i numeri musicali – un’incredibile consapevolezza, anche ironica, dei linguaggi di molto cinema "barocco" e non solo, con riferimenti che vanno dal melodramma classico americano (il lettering dei titoli in questo è più che esplicito) al cinema di Jean Pierre Jeunet, mescolando classicismo e avantpop in un turbinio di danze e colori che lascia senza fiato.

Bisognerebbe forse chiedersi quanto tanto splendore visivo (che conferma il talento eclettico dell’autore del(l’ir)resistibile Kamikaze girls, al suo quarto film) possa mettere da parte la discussione su una visione dell’universo femminile tendenzialmente conservatrice, magari non deprecabile di per sé (anche perché fa perfettamente il paio con molti dei riferimenti di cui sopra) ma sicuramente discutibile in seno ad una riflessione sul cinema nipponico degli ultimi anni. Come dice Tom Mes nella sua bella recensione (solitamente acuta, quanto trattenuta) su Midnight Eye, "c’è molto per cui godere in MOM, ma se fossi una spettatrice e avessi pagato 1800 yen per sentirmi dire che ho bisogno di trovare il mio posto in questo mondo, sarei fortemente arrabbiata".

Dal canto mio, non essendo io ancora una spettatrice, ho deciso – per la maggior parte del film – di tralasciare questi dubbi (risollevati poi a posteriori dal sovracitato pezzo di Mes), immergendomi più che altro nel ludibrio plastico della – spessissima – superficie del film, e nella profonda commozione che la storia di Matsuko – e l’interpretazione magistrale di Miki Nakatani, premiata un po’ ovunque – non può, e dico davvero, non può non suscitare. E sto parlando di lacrime vere. Vi invito a fare altrettanto, al più presto.

Pompini a vicenda
Ne hanno già parlato i bellissimi e bravissimi Hellbly, Murda, Rob.

Su Youtube, i titoli di coda

Ghost rider
di Mark Steven Johnson, 2007

"Jesus Christ…"
"Not even close"

E’ inutile girarci tanto intorno: Ghost rider è una puttanata coi fiocchi, indifendibile e sostanzialmente inguardabile. E nemmeno un’allegra puttanata, no: una puttanata mortifera e malsana, in cui il ridicolo arriva così presto ("I want your soul", "Mh… ok") da trasformarsi ben presto in rabbia distruttiva. Tra l’altro, questo è un film fatto ad hoc per i redneck americani: dobbiamo rassegnarci all’idea che gli Stati Uniti siano stati definitivamente invasi dall’imbecillità quasi ultracorporale degli spettatori degli stunt show. E che questo film è perfetto per loro. E che se continuiamo così, Sam Raimi ce lo sogniamo di notte. E no, non c’è un briciolo di ironia.

Altro che cinema di intrattenimento: qui siamo dalle parti di The covenant, e pressapoco al livello di Underworld. Ovvero, il male. I soldini in più vengono cancellati dall’inettutidine e dalla grevità di quel delinquente di Mark Steven Johnson, l’Anticristo del comic movie, uno che andrebbe internato all’istante: se penso che sarà l’executive producer del serial su Preacher mi viene da star male. Non che il resto sia meglio: vogliamo parlare del Johnny Blaze di Nicolas Cage, muscoloso, lucidissimo e completamente ebete? Sulle dinamiche sentimentali tra Cage e la Mendes (conseguenze ideologiche comprese) preferirei invece tacere.

Ghost rider è tra i peggiori film dell’anno e sicuramente il peggior adattamento possibile – anche perché fuori tempo, e no, qui non bastano gli zoommoni a fare gli annisettanta – del fumetto di Roy Thomas e Gary Friedrich. Ma sia ancora chiaro, il problema non è tanto la sua innappellabile bruttezza, ma il fatto che non riesca nemmeno a prendere questa impressionante indecisione di registro (che spesso trasforma il film – davvero – in un imbarazzante spoof serioso) per trasformarla in un oggetto con un briciolo di coerenza.

Quantomeno, dico, in qualcosa di divertente. Not even close. E non è che chiedessimo poi tanto.

Saw III
di Darren Lynn Bousman, 2006


"I don’t have the tools to save a life."
"You’d be surprised what tools can save a life."

Dopo la visione di Saw 2, brutto sequel di un horror celeberrimo e molto divertente, ero abbastanza disilluso sulle possibilità qualitative di quella che ormai è una saga – tra l’altro una saga impossibile perché con il fiato cortissimo già da principio – come quella di Jigsaw. Invece, nei limiti di un prodotto di bassissimo intrattenimento e volto alla mera soddisfazione di giusto un paio di bassi istinti spettatoriali, devo dire che il terzo Saw è un’operetta abbastanza soddisfacente.

Tutto sommato, questa volta, dà un briciolo di più di quello che promette: ovvero, non solo un horror onestamente trucissimo (l’operazione a cranio aperto è degna di una grindhouse di vecchio stampo – dopotutto, come operare un enigmista se non unendo i puntini?), ma un film che fa funzionare un paio di cose che altrove non avremmo gradito. Per esempio, la struttura temporale "lostiana" (ovvero un affastellarsi di brevi flashback), sorprendentemente funzionale alla struttura "morale" del gioco di Jigsaw, oppure lo script che incrocia i destini dei personaggi con un perverso e infantile senso del fato, ma senza farlo sembrare troppo forzato. Un po’ sì, ma non troppo. La "rivisitazione" dei due film precedenti, con lo svelamento della "fase preparatoria", è invece davvero un gran bel colpaccio.

Poi d’accordo, Bousman è un ragazzetto e gira ancora maluccio (ma forse gli giova l’atto di umiltà nei confronti di un soggetto migliore di lui), e le facce e le interpretazioni – Tobin Bell per primo, ma a Shawnee Smith avremmo sparato fin dal primo istante – sono tra le più improbabili di sempre. Riappare pure il fratello scemo di Mark Whalberg, spaccandosi rovinosamente un piede: niente reunion danzereccia dei New Kids On The Block per lui. Ma una cosa è abbastanza innegabile: se un simile thrilleraccio, a cui avresti dato poco più di un’ora, ti tiene quasi due ore sveglio e senza produrre risate denigratorie, sarà per le aspettative davvero sotterranee, ma non gli si può volere poi così male.

Un passetto avanti, dunque, e per un "terzo capitolo" è già molto. Questo non significa che io sia felice di averne pure un settimo o un ottavo, si intende, ma credo che dovrò adattarmi alle circostanze.

[tonight we dine in hell]

Ma non prima di aver letto con attenzione…

…il nuovo episodio di Friday Prejudice. ONLINE, bitch!

E qualcuno mi regali un titolista, please.

L’amore giovane (The hottest state)
di Ethan Hawke, 2006

Per farne una promozione positiva e propositiva, ci vorrebbero solo due o tre righe per esaurire quello che s’ha da dire sul secondo film del 36enne attore texano che, dalla pubescente timidezza di Explorers, è diventato negli anni uno dei principali portabandiera del cinema indie americano. Principalmente perché, per una volta, questo è un film più piacevole da guardare che da raccontare. Forse perché a raccontarlo (o a raccontarselo, uscendo dalla sala) vengono fuori cose e cosette che sminuiscono quel briciolo di impatto emotivo che il film ha causato.

Per esempio, il primo pensiero che ho espresso a voce alta alla fine del film è stato "quando la smetterò di vedere film il cui protagonista sono io?" – e vi assicuro che è proprio così, e insomma, sono cose – che seguiva a ruota il pensiero ricorrente durante il film, ovvero "Ammazzate. Questa. Donna". Lauta ricompensa a chiunque mi portasse la testa di Catalina Sandino Moreno. Mi sono domandato quasi subito quale possa essere la reazione di una spettatrice di fronte ad una rappresentazione femminile, non solo così antipatica (e così stilizzata e semplicistica, anche nel personaggio della madre) ma più propriamente così malvagia. Non voglio spendere troppe parole su questo argomento. Tornando invece al pensiero principale, il film basa insomma molta della sua riuscita sui meccanismi di identificazione. E quale migliore modo per ottenere ciò, se non tuffandosi a capofitto nella banalità?

Ora, io rifuggo quanto possibile dall’uso della parola banale e suoi derivati. Banale è abusato, brutto, banale di per sé. E’ come americanata, è come buonismo, per capirci. Qui però l’accezione è talmente complessa che val la pena di fare un’eccezione: la banalità non è un neo, un difetto. La banalità è per Hawke un modo di rivestire il quotidiano, un modo di riscrivere e trascrivere la semplicità del mondo e dei rapporti umani. In questo senso, all’interno della sua totale e assoluta prevedibilità (persino nei singoli passaggi della sceneggiatura, a dire il vero piuttosto deboluccia), il film funziona alla perfezione.

Poi però, c’è il contesto. Che è quello di un complesso edipico non risolto, che è quello di una delocalizzazione forzata, e che è – soprattutto – la congiunzione delle due cose. Che tra di loro, va detto, legano davvero bene. Il volto del padre dimenticato e poi ritrovato è quel pezzo di Texas che è rimasto nel tuo cuore. Ecco, forse quello che non mi ha convinto del tutto di The hottest state è il modo in cui la sua struttura romance fatica – e lo fa, in modo evidente – ad appiccicarsi al suo contesto. Che in questo caso rischia di diventare pretesto. O di apparire tale.

Incredibilmente stupido la versione italiana del titolo. Che era effettivamente difficilotto da tradurre: questo è il motivo per cui alcuni titoli rimangono in lingua, e per cui molti altri dovrebbero fare ugualmente.

Nei cinema dal 23 Marzo 2007.

[defàuntain, you got served!]

In your face, Darren Aronofsky!

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Ora. Clicca. Qui.

(E poi non dite che non vi avevo avvertiti)

Correndo con le forbici in mano (Running with scissors)
di Ryan Murphy, 2006

Avrei tanta voglia di scrivere un post imbestialito nei confronti di questo film, che parte da una vicenda – più letteraria che umana – quantomeno invitante, se non altro per tutte le questioni extratestuali che potrebbe sollevare su narratività e veridizione (Augusten Borroughs si è davvero inventato tutto? Questa informazione può modificare in qualche e in quale modo la ricezione del testo?) non fa che riconfermare il trend tristarello per cui a destare l’interesse dello spettatore colto americano dovrebbero bastare dei nuclei familiari composti da gente intontita, bislacca, bizzarra. O semplicemente matta da legare.

Ecco, Running with scissors, in quanto a rielaborazione del romanzo di formazione con sottotesto sull’identità sessuale incluso, riesce a far sembrare una perla rara persino C.R.A.Z.Y. Ryan Murphy riesce nel delicato intento di sbagliare quasi tutto, o praticamente tutto, a partire dalla gestione delle performance attoriali: è davvero assurdo che l’unico sopportabile (a parte quell’angelo in terra di Evan Rachel Wood) sia l’onesto Joseph Cross di fronte a tali facce note tutte in vena di guizzi di boria gigiona. Ma d’altronde, se l’idea di climax narrativo è un mucchio di persone di nessun interesse che urlano fortissimo distruggendo cose, la (finta) profondità del resto viene da sé.

Ma il problema del film è soprattutto la gestione dinamica del racconto: in parole poverissime, Running with scissors è uno dei film più insopportabilmente noiosi degli ultimi tempi. Liberi di gradirne il ritmo catatonico, ma non mi si venga a dire che questo è un ritmo ricercato, raffinato, meta-jazz, meta-chic. A me sembra solo un ritmo venuto da cani. In un film venuto da cani. E privo, oltre che di qualunque interesse che non sia meramente psichiatrico (o identificativo, fate voi: io mi sono identificato con il gatto, almeno lui si è potuto togliere dalle palle in fretta), di almeno una scena – che sia una, dico una – da ricordare per più di mezza giornata. In film del genere, almeno "la scena" di solito riesce bene. Invece, niente. La neve nella stanza! Ma dico! Eat it, Alain Resnais!

Va bene, forse aveva ragione la mia quasi-sorellona quando mi disse una cosa tipo "ti piace quasi tutto, ma quando non ti piace ti incazzi proprio, eh?", però in questo caso avrei proprio bisogno di sfogarmi. E questo post no, non è abbastanza.

Hard candy
di David Slade, 2005

"Nothing’s yours when you invite a teenager into your home."

Il primo lungometraggio di David Slade non è uscito in Italia, e non è difficile capire perché: al di là della bassa vendibilità (i due attori sono semisconosciuti dalle nostre parti, e il regista viene dai videoclip), la storia del ribaltamento tra vittima e carnefice in un tema come la pedofilia non passa propriamente come acqua fresca dalle nostre parti. Motivo in più per distribuirlo, dico io. L’importante è che se ne parli, no? Certa gente non impara.

Poi, bisogna distinguere l’interesse (per un film americano ma piccolo piccolo) e la curiosità (per una delle locandine più belle mai viste e per gli splendidi titoli di testa) dall’effettivo risultato: nonostante l’alone di micro-cult, probabilmente per il passaparola su internet (è davvero impressionante il numero di mash-up et similia presenti su youtube), la critica non è stata altrettanto benevola. Qui in Italia se n’è parlato poco, ma altrove il film è stato pressoché stroncato. Forse la verità sta nel mezzo, o forse non c’è alcuna verità, o forse non ho voglia di sbilanciarmi su un film che pur sbagliando molto mi ha affascinato e tenuto sul chi vive fino alla (scontata) conclusione. E che chiude con Elephant Woman dei Blonde Redhead, per dire.

Insomma, ok che è davvero troppo lungo, ok che superato il parossismo di "violenza celata" l’interesse scema quasi completamente, ok che il gioco al gatto e al topo alla fin fine stanca, ok che la macchina da presa ballerina con gli otturatori aperti fa venire il voltastomaco. Ma Slade fa anche un uso cosciente e intelligente dell’unità di tempo e di spazio, e sono azzeccatissimi i suoi lunghi (e finti) pianisequenza, che si nascondono dietro le pareti costringendoci a non guardare. E a non desiderare, in un gioco di – appunto – continuo ribaltamento prospettico che, per quanto prevedibilotto, coglie nel segno. E non è rassicurante né conciliante: tifare empaticamente per il pedofilo non è una cosa che capita tutti i giorni, nemmeno al cinema.

O è tutto merito di Ellen Page? 14 anni nel film, 17 ai tempi delle riprese, 20 ora. Ma già una grandissima attrice.


David Slade Random Videoclip Selection:
Stop the rock (Apollo Four Forty), Take the long road and walk it (The Music), Sour Girl (Stone Temple Pilots), New born (Muse), Clubbed to death (Rob Dougan), Donkey Rhubarb (Aphex Twin), Strange little girl (Tori Amos), Carmen Queasy (Maxim & Skin)
Sì, lo so che sono tutti uguali.

[nel vostro negozio di fiducia]

Ed era anche ora.

[i miei post su Seom, Bad Guy, Address unknown]

Election 2 – Harmony is a virtue (Hak se wui yi wo wai kwai)
di Johnnie To, 2006

Quando vidi Election, sollevai qualche dubbio. Non sul film in sé, indiscutibilmente bellissimo, ma sul fatto che, con un tale materiale, To non fosse riuscito a fare un film che mi facesse schizzare pezzi di cervello in giro per la stanza in preda ad attacchi di gioia incontrollata. Ebbene, Election 2 ha tutto quello mancava al capitolo precedente, anzi, molto di più.

A lottare per l’elezione biennale della presidenza della triade stavolta ci sono Louis Koo e – ancora una volta – l’incredibile Simon Yam: e in ballo questa volta ci sono, da una parte il compromesso tra i propri sogni e l’ineluttabile violenza della politica e della società, con la quale (e con il sangue di chi ci si mette in mezzo) gli stessi sogni vanno sporcati, dall’altra c’è la lotta interiore tra le proprie responsabilità di padre e il delirio di onnipotenza di una ybris profonda e straziante che aumenta notevolmente il manto tragico che ricopre la saga.

Un film nerissimo, caustico e implacabile sull’annichilente spiralità del potere, spaventosamente violento eppure uno dei film più rigorosi e “morali” di un autentico grande maestro del cinema asiatico: incredibile che nel giro di pochi mesi To abbia diretto un film asciutto come Election 2 e uno strabordante come Exiled. Ma ancora più incredibile è che siano entrambi a tanto così dal capolavoro assoluto.

L’ho già detto, magnifico? Magnifico.


L’edizione DVD hongkonghese, double-disc e region-free, si può acquistare qui su Play Asia a 13 euro circa.

Lettere da Iwo Jima (Letters from Iwo Jima)
di Clint Eastwood, 2006

L’ultimo film di Eastwood, "seconda parte" di un dittico dedicato alla celebre battaglia che nella WWII coinvolse americani e giapponesi nell’isola che dà il titolo al film, l’hanno visto approssimativamente tutti, e tutti ne hanno scritto, e tutti hanno apprezzato. Chi più chi meno, forse, ma due sono le cose che saltano agli occhi: che è abbastanza difficile trovare un parere che non sia molto positivo, e che chi si fosse ritrovato parzialmente infastidito o semplicemente annoiato da Flags of our fathers (come me, tra gli altri) ha apprezzato in maniera decisamente maggiore il suo "controcampo nipponico".

Dunque, seguendo queste due Oltremodo Ovvie Osservazioni, questo post potrebbe funzionare in due diverse modalità, come lo svolgimento di un temino proposto da un professore particolarmente esigente.

Prima modalità: spiegare brevemente le differenze tra Flags e Letters, due film che pur condividendo molto da un punto di vista tecnico-formale sono profondamente differenti. Frammentazione – dicono postclassica – da una parte, linearità estremizzata dall’altra. Manfrina antibellica a sostituire una guerra sul campo che dopo un po’ non ha più niente da dire da una parte, cupa e pura battaglia e buio e nascondersi e caverne e rumore di bombe dall’altra. Ryan Philippe da una parte, Ken Watanabe dall’altra. Una volta compiuto ciò, attraverso un’analisi comparata spiegare per quale motivo Letters sia un film mostruosamente più riuscito di Flags, più soddisfacente, interessante, stimolante, o semplicemente "bello, punto". Perché, intendiamoci: lo è.

Seconda modalità: analizzare con attenzione i trecentoventidue post su Letters presenti sulla cineblogosfera – che fino ad oggi sono stati perlopiù ignorati dal sottoscritto – con particolare attenzione a quelli situati nella zona quattro-palle-e-mezzo o cinque-palle, e cercare di trovare elementi ed esemplificazioni che girino attorno al versante emozionale del film. Una volta compiuto ciò, cercare di spiegare come sia possibile che un film così oggettivamente "bello, punto", pur nella benedettissima assenza dell’insopportabile boriosa ridondanza di Flags e nel chiaro apprezzamento nei confronti di un cast eccezionale, soluzioni fotografiche entusiasmanti, una compattezza di racconto di cui sentivamo la mancanza nel grosso cinema americano, sia capace di lasciare in uno spettatore mediamente preparato a tutto e avulso da preconcetti una scia di emozioni, appunto, pari – circa – alla lunghezza zero.

Svolgimento.

[today]

Tanti auguri a me.

(song: "Happy Birthday" by Tender Forever)
(clip: directed by Justin Lowe)

Intrigo a Berlino (The good german)
di Steven Soderbergh, 2006

Non si pensi che io voglia per forza corroborare il mio già espresso pregiudizio su questo film e sul suo – insopportabile – regista. Perché dopo aver visto una cosa come The Good German, credo che possiamo essere tutti – o quasi – d’accordo almeno su un aspetto, però fondamentale: questo film è un mero giochino. Poi bisogna vedere se questo giochino di ricostruzione citazionista può interessare o meno, e se può accontentare per più di una decina di minuti. Perché prima o poi vorremmo vederci anche del cinema, intorno.

Ci sono senz’altro delle cose buone, e inaspettate. Ma sono riassumibili in poche parole: l’uso di Cate Blanchett, vera protagonista, intorno alla quale il bravo Paul Attanasio ha scritto un personaggio complesso e storicamente sfaccettato, la struttura dello script che sposta il punto di vista su tre personaggi (quasi dei "capitoli" introdotti da brevi interventi delle voci off), e la furbizia con cui si sfrutta la possibilità di far scopare e dire fuck ai personaggi di un film degli anni ’40. Certo, da lì a parlare di pretese realistiche, o storico-politiche, ce ne passa. E a quel punto preferivamo Dead men don’t wear plaid.

Un tiepidissimo (freddo? Magari) esercizio di stile, ma meno stiloso di quanto vorrebbe. Un film poverissimo negli intenti e non solo (sotto il bianco e nero – tecnicamente posticcio, visto che il film è girato a colori – e le inquadrature filologiche si intravede una realizzazione amicale, per non dire familiare), seriosissimo e assolutamente privo di qualsiasi ironia, che fa l’enorme errore di scopre tutte le sue carte nel giro di pochi minuti, lasciando tutto il resto del film immerso nella noia e nell’attesa – nostra – che riappaia il volto – e l’accento – di Cate Blanchett, a illuminarlo per alcuni istanti.

Poche volte fu più azzeccato l’aggettivo inutile.

The Darwin Awards
di Finn Taylor, 2006

Facciamo un piccolo briefing, per chi fosse rimasto indietro: i Darwin Awards, presenti sulla rete – in un modo o nell’altro – da più di vent’anni, indicano un "riconoscimento" postumo dato annualmente a persone morte in modo particolarmente idiota, tanto da far indicare la scomparsa di costoro come un evidente progresso positivo dello sviluppo evolutivo della nostra specie. La gente sull’internet è proprio mattissima, signora mia.

Al di là dell’effettivo divertimento di un sito come darwinawards.com (redatto dalla biologa furbacchiona Wendy Northcutt, che ha pure pubblicato un tot di libri sull’argomento), il dato che più mi incuriosiva del terzo film dell’indipendentissimo (e sconosciutissimo) Finn Taylor è uno soltanto: personalmente, di film tratti da siti web, non ne ho mai visto uno. E spero bene che sia l’ultima volta, dannazione: definire The Darwin Awards una sciocchezza è ingentile nei confronti di centinaia e centinaia di sciocchezze sparse nel mondo, e che meritano rispetto. Diciamo piuttosto una schifezza.

Come si può facilmente immaginare, il film è assolutamente privo di qualsiasi sostanza, ma che dico, ritmo, capacità recitative, registiche, tecniche, umane, ed è poco più che un’accozzaglia di morti e/o incidenti causati dall’immensa imbecillità del genere umano (o del genere americano, legati da una trama-cornice ridicola, dai vaneggiamenti e strabuzzamenti del protagonista Joseph Fiennes (sempre più fratello scemo di Ralph) e della più antipatica Winona Ryder ever, e da un numero enorme di attori semi-famosi in particine secondarie. Se il massimo divertimento di un film è dire "ehi ma quella è Juliette Lewis, la popstar!", oppure "ehi ma quello è quel tizio che ha fatto quel film con quell’altro tizio!" oppure "ehi ma quello è Chris Penn, cavoli, se mi avessero fatto vedere questo film prima che schiattasse, avrei scommesso sulla sua morte al volo!", allora le cose si mettono mettono male.

The Darwin Awards è Una Palla Mostruosa e un vero autentico pacco, stracolmo di tutti i tipici attributi dell’indie-cult ma della cui esistenza fortunatamente in pochissimi al mondo si sono accorti. Una volta tanto, scorre sulla mia schiena la netta sensazione di aver buttato completamente nel cesso quasi 90 minuti della mia vita.

Infine, due parole sulla colonna sonora. Già è difficile sopportare un tappeto sonoro finto-jazz degno di un ascensore di terza categoria. Ma come si può pensare di far convivere nella stessa sceneggiatura una spaventosa marchetta agli Wilco (simile a quella che la Portman fece agli Shins in Garden State, per capirci, ma qui non funziona) e la partecipazione – che nel finale diventa ridicola, se non addirittura penosa – dei Metallica?

[she's a maniac, a maniac on the floor]

Da 24 Minuti di Venerdì 2 Marzo 2007.

[is nice]

Questa settimana nelle sale, il nuovo film di Pino Insegno.

E il nuovo episodio di Friday Prejudice. Click, bitch.