[double hype]
The history boys
di Nicholas Hytner, 2006
"The best moments in reading are when you come across something – a thought, a feeling, a way of looking at things – which you had thought special and particular to you. And now, here it is, set down by someone else, a person you have never met, someone even who is long dead. And it is as if a hand has come out, and taken yours."
Riassuntino for dummies: il film è la versione cinematografica dello spettacolo teatrale scritto da Alan Bennett che sotto la direzione dello stesso Hytner spopolò nel Regno Unito un paio d’anni fa (vincendo tra le altre cose l’ambitissimo Tony Award nel 2005 come miglior spettacolo). Seguendo l’esempio di La pazzia di Re Giorgio, il dinamico duo Bennett-Hytner ha tradotto per lo schermo anche questo The history boys.
Non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, ma l’adattamento cinematografico risente molto dell’impianto teatrale di partenza. Ciò significa, brevemente, la stessa qualità nei dialoghi, colti e molto più che brillanti, a tratti davvero entusiasmanti, e una regia abbastanza assente, o – almeno – non una delle più vispe che si possano immaginare. Tranne alcuni precisi momenti (soprattutto "musicali") in cui Hytner sembra voler girare un film degli anni ’80 e non solo negli anni ’80, con nostro sommo gaudio.
Ma anche con questi perdonabili peccatucci di personalità, The history boys è estremamente vivace e divertente, grazie soprattutto all’affiatatissimo team di giovani attori trascinati di peso dalla versione teatrale, e la sua ora e quaranta scorre che è un piacere. Certo, tutte la questioni più interessanti (la confusione del coming-of-age, le implicazioni "erotiche" dell’apprendimento) sono soltanto accennate, i "tagli" prodotti al testo fanno sentire il loro peso, ed è tutto un po’ troppo facilotto e sbrigativo (twist tragico compreso, anche se il "where are they now" finale è davvero ingegnoso), per riuscire a emozionare davvero.
Però se per il vostro sollazzamento possono bastare un gruppetto di liceali inglesi sessualmente ambigui in divisa nella Sheffield del 1983 (e non me ne chiamerei fuori, non con leggerezza), accomodatevi pure. Ce n’è per tutti. E poi ovviamente ci sono i New Order, i Cure, gli Smiths, gli Echo & the Bunnymen. Che ve lo dico a fare.
"How do I define history? Well it’s just one fucking thing after another, isn’t it?"
Nelle sale italiane dal 25 Maggio 2007.
Sunshine
di Danny Boyle, 2007
La prima considerazione che mi è venuta alla mente durante e dopo la visione di Sunshine è stata di natura sinestesica. Ovvero, la completezza e il talento con cui Boyle lavora sulla relatività polisensoriale nella trattazione della paura (cinematografica), e non solo. Buio come assenza di luce, come da copione, ma soprattutto luce che avvolge. Entrambi che uccidono. E così il freddo, e – ovviamente – il caldo. Idem.
La seconda considerazione è quella che hanno fatto in molti: ovvero, che Sunshine è uno di quei rari, rarissimi casi – ed è un complimento – in cui le ambizioni più enormi portano imprevedibilmente ai risultati migliori, e non a svaccare nel ridicolo. E’ segno che Boyle qualcosa da dire ce l’aveva davvero, se l’unica (lunga) parte del film in cui si “abbassa” a convenzioni da cinema di genere è quella che funziona meno. Perché se fosse rimasto tutto la mistura di kolossal europeo con aspirazioni globali (per il cast internazionale, per la grandeur visiva – soprattutto di certe impressionanti plongée spaziali) e claustrofobia d’appartamento che è tutta la prima ora abbondante di film, o il generosissimo miscuglio di pamphlet filosofico e cinema sperimentale che è tutto il finale (in cui lo spazio e il tempo – anche cinematografici – si dissolvono in un’assoluta distorsione, acida ma non meramente lisergica), sarebbe stato davvero ad un passetto dal capolavoro.
Ma questi non sono che un paio di pigri appunti buttati distrattamente sul pavimento, prime – e forse uniche, almeno scritte – riflessioni su un film che speriamo faccia ancora parlare di sé, al di là di qualche ovvia incomprensione a venire. Si sarebbe potuto parlare della colonna sonora degli Underworld, perfetta. O di molto altro ancora. Ma in realtà la cosa più rilevante di Sunshine – ed è impossibile non metterla in primo piano – è l’emozione pura, quella che – come volgarmente si usa dire – “ti tiene incollato alla poltrona”, e che ti fa stringere i braccioli di quest’ultima mentre Capa sfiora sorridendo un muro di fuoco, mentre Corazon scopre morendo una nuova vita, mentre Searle urla “cosa vedi? cosa vedi?”. Quella che ti fa avere paura, paura palpabile, reale, che ne venga una risposta.
In sostanza, uno dei film più suggestivi ed eccitanti degli ultimi tempi, uno di quelli che rivedresti immediatamente. E sai che forse andrebbe persino meglio.
[ehm, just waiting]
Io vi consiglio di non fare nulla fino al 1 Maggio.
Qui, nel nuovo episodio di Friday Prejudice. Clicca.
Le vite degli altri (Das leben der anderen)
di Florian Henckel von Donnersmarck, 2006
Non sono nemmeno il primo a farlo, ma anch’io devo chinare la testa: avrei avuto un pregiudizio negativo, o almeno, diciamo così, una buona dose di diffidenza, nei confronti di qualunque film abbia strappato di mano l’Oscar come miglior film in lingua straniera a Il Labirinto del Fauno. Ancora di più, trattandosi in questo caso di un film tedesco, nazione da cui negli ultimi anni sono usciti davvero ben pochi titoli che abbiano destato la mia attenzione. Invece, Le vite degli altri è un film assolutamente eccezionale.
E non solo: è un film di grande successo, non solo in patria e non solo nel circuito dei festival (dove ha comunque ricosso una quantità innumerevole di premi), diretto da un regista emergente, cosa ammirevole in un continente spesso troppo restio a "spingere" sui nomi nuovi. La ragione vive nella dote rara di riflettere su un dolorosissimo passato recente senza limitarsi ad un registro da "cinema civile", ma appassionando e coinvolgendo come un grande e complesso romanzo. In tutte le sue manifestazioni, sia visiva che narrativa, grazie anche a un tono che non rifugge i "comic reliefs" e una certa ironia mai forzata, e soprattutto grazie a una ricercatissima essenzialità che permette di tuffarsi in veri e propri varchi emozionali quando quella libertà e quella verità, spesso solo tratteggiate a parole, diventano azione, e diventano speranza.
Resta pochissimo da dire su un film che (quasi) tutti hanno già, giustamente, elogiato, impreziosito da una delicatissima e forse irripetibile armonia alchemica tra esigenze d’autore e cinema popolare. Una delle interpretazioni più incredibili e allo stesso tempo misurate degli ultimi anni (quella di Ulrich Mühe, enorme), alcune sequenze impressionanti (sopra tutte quella della doppia ispezione, che si conclude tragicamente, e il finale malinconico, catartico e perfetto) e la sceneggiatura di Henckel stesso, equilibrata e a tratti davvero sorprendente, fanno il resto.
The good shepherd – L’ombra del potere (The good shepherd)
di Robert De Niro, 2006
Negli scorsi giorni, i pochi blogger che si sono avventurati all’interno del lunghissimo secondo film di Robert De Niro si sono prodotti in un notevole massacretto. Mi limito però a una constatazione da pagellino: non ho letto tali critiche per non esserne condizionato, visto che già la successiva visione del film di Florian ha spostato in basso la levetta del gradimento . Ci sono e spie e spie, questo va detto.
In ogni caso, a costo di attirarmi le ire o le antipatie dei molti delusi (ma tutto sommato, stiamo parlando di un attore in vacanza, più che di un regista da hype) non posso dire di non aver gradito questo interminabile e classicissimo romanzotto spionistico con (parecchi) inserti da romanzotto d’appendice, per due ragioni ben evidenti. La prima è il tono che De Niro stabilisce fin dalla sequenza iniziale, sommesso, grigio, triste, vagamente in controtendenza, e che ben si addice al suo grigio, triste e ambiguo protagonista. La seconda è la sensazione di abissale tristezza e disperazione portata da tutta la parte finale.
Poi, per quanto il film sia molto meno politico di quanto possa apparire, solleva più di un dubbio sulla liceità delle istituzioni "parastatali" (chiamiamole così, per ridere) statunitensi, ha dalla sua la sceneggiatura prevedibile ma decisamente "ferrea" di Eric Roth, un cast di secondo piano interessante per quanto bizzarro (ma il cameo dell’invecchiatissimo Joe Pesci fa perdonare tutto, persino Angelina Jolie), e qualche scena-madre che, pur facendosi dimenticare il mattino dopo, la sera stessa lascia un buon saporino in bocca.
D’accordo, non sarà propriamente lo spettacolo più lieve e scorrevole della vostra vita, ma da un film di due ore e quaranta su intrighi gestiti da dietro una scrivania, per di più con un protagonista lessato come Matt Damon, non potevo effettivamente aspettarmi molto di più. Niente di eccezionale, ma – se proprio devo – sono qui a difenderlo con i denti. Forse.
The illusionist
di Neil Burger, 2006
Quando ho visto The illusionist, ormai parecchi giorni fa, soprattutto durante la visione, non ero poi così dispiaciuto. Almeno, non lo ero rispetto al pregiudizio diffuso per cui qualunque film con maghi ottocenteschi che fosse uscito a così breve distanza dal magnifico The prestige avrebbe toppato. D’accordo, è evidentemente una poverata, Ed Norton non ha un barlume del fascino e della bravura di un tempo, Jessica Biel non è una ragione sufficiente (anche se le manca tanto così) ed è effettivamente noioso come la morte.
Però, mi sono detto, almeno sono arrivato all’orripilante finale senza lamentarmi troppo. Di questi tempi mi capita abbastanza di rado. Poi, riflettendoci per benino, ho compreso la ragione: se sono giunto sano e salvo fino al suddetto orripilante finale è solo perché per tutto il film il mio cervello (e quello di qualunque essere pensante, suppongo) ha immaginato il twist più ovvio e scontato possibile, e ha aspettato la fine per vedere se, per qualche assurda e ridicola sborniona degli sceneggiatori, sarebbe finita davvero così. E infatti. Ma finché si tratta di prevedibilità, figliuoli miei, è roba che capita anche nelle migliori famiglie.
Qui non è così. Il problema è che tale idiozia conclusiva – corollata peraltro da un luminoso idillio campagnolo terminale degno di una fucilata alle (s)palle, possibilmente non alle mie – viene presentata come la Signora Sorpresa Delle Sorprese. E no, non è la stessa cosa che alcuni avevano criticato in The Prestige (dove, appunto, c’era di mezzo un "doppio" prestigio). Qui c’è semplicemente un finale lineare, che conclude la vicenda e punto, ma che viene rappresentato come se fosse quello de I soliti sospetti, tra l’altro con il bruttissimo – ma ancora bravo – Giamatti che se la ride e batte il pugno sulla mano aperta. Nemmeno Gambadilegno.
Insomma, su alcune sviste si può fare orecchie da mercante, ma roba così è davvero difficile da digerire. Per dire, senza questo finale The illusionist sarebbe stato anche salvabile. Però, diciamola tutta, sarebbe stato in ogni caso questo filmetto da due soldi, uscito nel momento più sbagliato, diretto senza un grammo di sentimento alcuno, con una regia che si nasconde timida timida dietro una fotografia che non risparmia frotte di imperdonabili finte sciccherie: effetti "pellicola vecchia" di Movie Maker e "iride a manetta"? E questa robaccia avrebbe avuto pure una nomination agli Oscar?
[occhioni blu]
Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Right there, right now.
[grave misunderstandings]
Perché disperarsi se lo splendido Homecoming di Joe Dante esce finalmente in dvd nel nostro paese?
(1) il titolo italiano è Homecoming – Candidato maledetto.
(2) la sinossi riportata sulla fascetta è la seguente:
Il panico e lo scandalo dilagano nell’intero paese quando la stampa scopre che ad aver vinto le elezioni presidenziali è uno zombie.
WTF?
Se non ci credete cliccate qui.
E sì, credo che roba così si commenti da sola, ma fate voi.
[tonite]
Maxïmo Park @ Rolling Stone, Milano
Website, Myspace, Moblog, Wikipedia, Last, Allmusic, Youtube
Our velocity video directed by Nima Nourizadeh
"Are you hopeful or just gullible?"
[natalie portman nuda]
Mille titolisti imbecilli e mille brutti film italiani.
Ovviamente, nel nuovo episodio di Friday Prejudice. Clicca.
The last kiss
di Tony Goldwin, 2006
Rifare negli States un film come L’ultimo bacio non era propriamente un’impresa eccezionale: solo per la sua impostazione "corale", il soggetto di Gabriele Muccino si prestava facilmente ad un remake americano. Motivo in più per rimanere delusi da questo film bruttino e – soprattutto – sostanzialmente inutile. Molti anti-mucciniani potranno pensare "ecco, questo mostra che il suo cinema non è che una grandissima fregatura". Al contrario, la mia idea è che il fallimento del film di Goldwin sia da addebitare all’abbandono, quasi sistematico, di tutto ciò che di buono c’era nel film originale.
The last kiss non è solo un filmetto insignificante, vagamente pruriginoso – sicuramente più del film del 2001 – e privo di un’idea di regia (a dirigere c’è un caratterista dal volto noto, al terzo film dopo molti episodi di serie tv, e non particolarmente brillante con la macchina da presa), ma un film i cui momenti "forti" ricalcano con esattezza la versione originale, e intorno a questi tutto crolla irreparabilmente. Le storie secondarie (compresa la più interessante, quella dei genitori) diventano quasi completamente irrilevanti, la giovane seduttrice è troppo figa e intrigante (non un’ochetta qualunque come Martina Stella) per rendere credibile il cedimento "ingiustificato" del protagonista, e potrei andare avanti per ore.
Ma la cosa più inquietante è l’autentico ribaltamento morale della parte finale. Laddove Muccino, dopo aver reinterpretato (a suo modo) un giocoso – anche nel senso di compiaciuto – decadimento della famiglia portato dall’impossibilità di una generazione di accedere alle responsabilità dell’età adulta, "rimettendo le cose a posto" e poi sferrando un ammiccante attacco-beffa nel celebre (scorrettissimo ma indimenticabile) take finale, Goldwin praticamente decide di non chiudere affatto il film. Ovvero: lo lascia sospeso sulla carta, ma in realtà lo chiude esplicitamente, per di più con una catarsi familiare "fuoricampo" (ma fino a un certo punto) che ha lo stesso valore della riappacificazione più conciliante che si possa immaginare. Un bacio sul tramonto, roba così.
The last kiss lascia in qualche modo sgomenti, perché se è vero che la cura tecnica c’è, qualche attore fa il suo porco lavoro, la colonna sonora (Zachbraffiana in tutto e per tutto – leggasi: indiefrocia) è interessante, e Rachel Bilson di O.C. è talmente bella da perdonarne la visione intera, quasi tutto il resto è approssimativamente da buttare. Soprattutto la pessima sceneggiatura del premiatissimo Paul Haggis: insicura che il messaggio del film possa "passare" attraverso situazioni che – lo sappiamo – non potrebbero essere più esplicite, mette persino in bocca ai personaggi vere e proprie didascalie che spiegano le banalissime metafore portanti del film.
Bisognerebbe forse prendere il film così com’è, considerandolo solo in sé e non in confronto all’opera da cui è tratta: ma anche allora apparirebbe un gap enorme tra intenzioni e risultati. Un film squilibrato e semplicistico, e sotto sotto di una superficialità sconcertante. Tutto quello che si molti additavano a Muccino, appunto, già a quei tempi. Ma molto peggio.
UPDATE
Il sunto della parte finale sul blog di Eskimo. Imperdibile.
Un ponte per Terabithia (Bridge to Terabithia)
di Gabor Csupo, 2007
Sono un piagnone, va bene. Ma non mi si può mettere in un film gli elementi (a) ragazzino delle medie introverso e vessato dai bulli (b) casa sull’albero (c) amichetta figa e intelligente (d) casa sull’albero (e) tragedie improvvise (f) casa sull’albero, e poi chiedermi pure di non frignare.
Al di là di questo (che nel mio caso non è poi così rilevante, si sa), Bridge to Terabithia, pur non essendo un film particolarmente eccezionale o illuminato, è comunque un film per ragazzi onesto e abbastanza appassionante, tristissimo ma non deprimente, che scostandosi praticamente da tutto ciò che viene prodotto per i preadolescenti al giorno d’oggi (sarà un caso che le antipatiche sorelle di Jess guardino Hannah Montana in tv?) e raccontando la sua storia con innegabile delicatezza, dà più di quanto non gli si chiedesse.
Persino l’annunciatissimo twist tragico del film è gestito bene, asciugando il pathos rispetto a cose ben più straziapalle come My girl, e stringendo i tempi anche nella durata (ridottissima) del film: ma si ha ugualmente il tempo per dire qualcosa di sensato su un’età impegnativa che si tende troppo spesso a tralasciare con leggerezza. Attribuendole peraltro un’ammirevole maturità.
Traumatico – soprattutto per un 26enne – l’impatto con la colonna sonora: tralasciare è meglio. Tanto più se una delle canzoni è firmata da Hayden Panettiere. Pensavamo avesse solo dei superpoteri, ora sappiamo che fa pure della musica orrenda.
Epic movie
di Jason Friedberg e Aaron Seltzer, 2007
Non so se qualcuno si ricorda quanto scrissi a suo tempo riguardo al brutto Date movie di Aaron Seltzer (rinominato Hot movie nei lidi italici). Beh, potete pure dimenticarvelo: "degenerazione definitiva di un genere"? Oppure "è chiaro che si ride quando si riesce a non provare imbarazzo?". Macché: Epic movie, al confronto, fa sembrare Date movie un autentico capolavoro della spoof comedy. Viene quasi – dico quasi – voglia di rivederlo: qualunque cosa per dimenticare questo abisso di nefandezze, questo autentico Nadir del cinema comico.
In questo momento, a un paio di giorni dalla visione, ripensare alle singole gag, o alle scene, o persino a intere sequenze di Epic movie – che riprende lo scheletro di Narnia appiccicandoci sopra un po’ di tutto (persino Borat) e sempre nel modo più imbarazzante – mi causa letteralmente delle fitte intercostali. Ve lo assicuro, con il cuore in mano: io sono uno che quando sospende il giudizio è capace di ridere a crepapelle con qualunque stronzata gli si metta davanti (salvo poi giudicarla tale a posteriori). Ma Epic movie no. Non solo non fa mai e dico mai ridere: fa innervosire, imbestialire, incazzare a morte.
Non solo ci si deve chiedere con serietà quale sia il senso di produrre un film simile, ma anche perché un film che effettivamente non fa altro che "imitare" un tot film recenti di grande o medio successo senza un briciolo di sforzo narrativo (almeno incrociare creativamente i riferimenti, cosa che persino Scary movie 4 faceva benino) e soprattutto senza un millimetro di "spostamento critico" (necessario per forgiare la parodia – cosa che infatti Epic movie non è), una simile schifosa porcheria, una tale indecorosa poverata indegna persino dei filmatini degli utenti di youtube (che spesso sono più divertenti di qualunque cosa qui proposta), abbia ancora tanto successo negli States, e pure da noi.
Generalmente lesino parecchio sui "voti minimi", anche perché evito di vedere i film che li potrebbero meritare. Eppure in questo periodo si è parlato di Ghost rider, The fountain, Stay alive. Ecco, per farvi capire: Epic movie è più brutto di tutti questi film sovracitati, ed è il più brutto film dell’anno, probabilmente imbattibile. E al momento, è anche il film più orrendo che mi riesca di immaginare, persino in potenza.
Ora che siete avvertiti, statene alla larga e basta: non fate che sia vano il mio sacrificio.
[no, non è quello, è quell'altro]
E dopo questa piantina, farò sparire il vostro CERVELLO.
Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Right now. Yeah.
Dog bite dog (Gau ngao gau)
di Cheang Pou-soi, 2006
Se Soi Cheang non le azzecca proprio tutte (Hidden Heroes pare sia bruttarello, e Home sweet home lo è di sicuro), quando le azzecca ne escono delle cose davvero belle e inaspettate. Al di là dei begli horror degli inizi, Love battlefield fu una sorpresa quasi sconcertante, e Dog bite dog – fatte le dovute proporzioni, perché non arriva a quei livelli – non fa che confermare il talento, insieme essenziale e spudorato, di uno dei più interessanti, forse il più interessante tra i "nuovi" registi di Hong Kong.
Anche il finale di Dog bite dog, allo stesso modo di quello di Love battlefield, fa discutere, citato in moltissime recensioni come un enorme punto a suo sfavore. E’ vero, il film è troppo lungo, e una sforbiciata della parte finale, la più solare e la più stilizzata, avrebbe giovato eccome: ma la parossistica coerenza con cui Cheang tratta la sua materia (là era un romanticismo portato alle estreme conseguenze, qui a farla da protagonista è l’istinto bestiale) non riesce a farcelo odiare davvero. In qualche modo, è persino affascinante. Almeno, è sicuramente coraggioso.
Comunque, Dog bite dog è una storia di caccia all’uomo tra un poliziotto hongkonghese e un killer cambogiano, che inizia senza tanti fronzoli con due lunghe sequenze autenticamente da antologia (la ricerca silenziosa di Lam Suet tra i banchi del mercato) e si trasforma in una corsa infernale che trascina con sè amici, colleghi, parenti, identificazioni e canoni narrativi, diventando in fretta una sorta di caccia reciproca, cane contro cane appunto, una lotta in cui l’unico modo per essere in gara è rinunciare definitivamente alla propria umanità e confrontarsi con la propria bestialità, con la vendetta, con la furia. Perdendocisi, irreparabilmente.
Un film fatto di poche parole, di fiammate di violenza e lampi di rabbia, di corse sfrenate e di attese, di dolci quanto false speranze, prima buio e blu scuro come la notte, poi virato nel colore della terra e della carne. A modo suo, sensazionale.
Stay alive
di William Brent Bell, 2006
Ci sono film in cui il post equivale per me ad una sorta di liberazione. Ovvero, si sapeva che Stay alive faceva schifo, lo si è visto lo stesso, fa effettivamente schifo: scriverne significa levarselo per sempre dalle palle, lasciarlo al passato, possibilmente dandogli lo spazio che si merita. Giusto quattro o cinque righe.
Che sarebbero finite. Poi mi rendo conto, pur sapendo che non avrò voglia di soffermarmi a rileggere, che questo film solleva alcuni interrogativi interessanti. Rispondervi, quello sì, sarebbe troppo.
Uno: questo film è popolato quasi esclusivamente di giovani e promettenti star di pompatissime e spesso eccellenti series statunitensi. Elencandoli: The O.C., One tree hill, Malcolm in the middle, Gilmore Girls (Milo Ventimiglia con la barba, che però schiatta quasi subito – probabilmente per il troppo potenziale macho – e sì, questa è una battuta), Carnivale, The wire. La domanda (retorica) è questa, corroborata da altri film simili usciti negli ultimi tempi: è mai possibile che sia il teen-horror – che pure davamo per spacciato già da anni – l’unico sbocco nelle sale at attendere le giovani e promettenti star del favoloso mondo delle series statunitensi?
Due: se cerchi di mettere in piedi una storia che non ci starà mai e poi mai (roba come Kairo non si scrive da sola e non si scrive così, ma la Bathory che possiede un videogioco – e non nel senso che ce l’ha in casa – è proprio una signora cazzatona col botto) con una trafila di personaggi insulsi e tra l’altro inseriti nel codice "stupidi e fanno cose stupide", e se per miracolo ti esce un personaggio interessante che dice cose quantomeno divertenti e/o intelligenti (Phineus, interpretato da Jimmi Simpson – la gag telefonica con Abigail è scema ma mi ha fatto molto ridere), e lo fai uscire di scena in quel modo, anzi, se lo fai uscire di scena, period, allora ho capito, sei proprio stupido e basta.
Tre: questo film non è solo bruttissimo, ma dura solo un’ora e venti, circa. Esistono però già dallo scorso Settembre due versioni del Dvd Regione Uno: la prima è questa, la theatrical, il cui rating del MPAA è il celeberrimo e malefico PG13. L’altra è unrated, ma invece dei soliti dettagliucci aggiunti (più sangue, più sesso, più droga) è letteralmente un altro film: dura un’ora e quaranta, c’è un personaggio in più, persino una sottotrama in più. Insomma, Stay Alive Unrated è Stay alive. Quella vista in sala – anche da noi – non è che una versione edulcorata (non fa paura e non si vede una cippa), e quindi sostanzialmente inutile come horror e di per sé, un film addirittura impensabile per il magico reame degli adoratori di Eli Roth che è diventato il contesto horrorofilo di questi mesi. Ma anche per una qualunque persona sana di mente che non trova spaventoso Topo Gigio. Tutto ciò avviene chiaramente per permettere ai distributori di sfruttare l’enorme target dei panciuti e ignoranti ragazzini americani under 17. Gli stessi che poi ovviamente si compreranno il dvd unrated, bevendosela tutta fino all’ultima goccia. E non dico cosa, né di chi. Ma finché lo fanno laggiù, fatti loro, facciano pure: se da noi si segue l’esempio però è un altro paio di maniche. Per dire, distribuire nelle sale italiane la versione unrated non avrebbe avuto più senso? Almeno avrebbe avuto un senso, uno qualunque. Siamo ad Aprile, mica a Luglio. Ma qui non è nemmeno una questione di etica distributiva: è una questione di farcelo mettere nel culo e dire pure "grazie signore, ne vorrei ancora".
E meno male che meritava quattro righe.