maggio 2007

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[gràindàus. ebbasta.]

Sì sì, andateci pure a vedere Turistas, voi.
Gne gne gne ma Tarantino gne gne gne.
IDIOTI.

Benvenuti nel nuovo episodio di Friday Prejudice. Ora.

(e scusate il ritardo, che è una giornataccia)

Zodiac
di David Fincher, 2006

Devo scrivere un post su Zodiac. Sono sdraiato nel letto, ho il computer appoggiato alle gambe, è passata la mezzanotte, e devo scrivere un post su Zodiac. Sarebbe anche ora. L’ho visto domenica pomeriggio, Zodiac. Cinema Apollo, un sacco di vecchi, ma non solo. Devo scrivere un post su Zodiac. Si dice sempre: se il post diventa un dovere, chiudilo, il maledetto blog. Ma non è esattamente la stessa cosa. Perché è vero che devo scrivere un post su Zodiac, ma anche che voglio scrivere un post su Zodiac.

Forse perché le uniche cose che mi soddisfano di ciò che ho letto in giro – per ora solo distrattamente, come al solito – sono quelle che rimangono attaccate ai semplici dati oggettivi riguardo al film. Che è frustrante. Che sono tutti bravi e che sono tutti belli. Che una regia così rigorosa e compatta non ce la aspettavamo, da quel baroccone di Fincher, persino noi a cui Fincher piace eccome. Che di fronte a sequenze come quella del tassista, o del proiezionista, o – soprattutto – dell’interrogatorio, non si può che chinare il capo. Che è bello. Cose così.

Per una volta, le ipotesi e gli svolazzi soggettivi altrui non riescono a sfiorarmi: letture cinefile (che mi avrebbero solo fatto esplodere il cervello, con tutto il rispetto), distanza tra le "parti" (che non riscontro affatto nella mia personale esperienza, né la distanza né – quasi – le parti stesse), la Parola Con La C, eccetera. Niente. Per dire: secondo me Zodiac è soprattutto una storia d’amore "a scalare". Ci sono due coppie. Le coppie si separano. Due di loro si incontrano. Si mettono in coppia. Si separano anche loro. Ne rimane uno. Solo con la sua ossessione, che è morale e tutto quello che vuoi, ma che è ancora strettamente legata alla sua prima infatuazione. All’unica figura femminile di rilievo spetta la battuta rivelatoria: "non è mai finito quel primo appuntamento". Io l’ho guardato anche così, Zodiac.

Poi, va da sé, Zodiac è prima di tutto un film di detection estremo, e si comporta di conseguenza, asciugando quasi tutto ciò che non è detection e lasciando così – sintomaticamente o intenzionalmente – a noi poveri sciagurati – lettori e scrittori – il campo libero a ogni possibile interpretazione di sorta. Personalmente, al di là della suddetta (curiosa ma non proprio serissima) idea di una struggente storia d’amore queer, la mia tentazione è quello di considerarlo, d’ora in poi, una mera mystery tale. State-of-the-art, si intende. Ma punto. Lo trovo molto più affascinante, bello e stimolante così. O forse sono solo pigro.

D’altronde, al solito, quando arrivo ultimo – come in questo caso – cerco una strada diversa, perché altrimenti la noia delle chiacchiere impolverate e la tardiva emulazione di riviste ormai ingiallite prende il sopravvento, e noi blog qui non serviamo più a niente. Piuttosto è meglio non dire niente. Dire che è bellissimo, punto. Che magari qualcuno ha esagerato – più da una parte che dall’altra – ma che se c’è un film da vedere, al cinema, ora, è questo. Facciamo così: ora ci metto un breve paragrafo che normalizzi tutto quanto. Così, per dormire più a posto con me stesso. Un paragrafo normale.

Eccolo.

In qualche modo questo film è un’altra faccia di un discorso già iniziato da Fincher in Se7en, e che conferma i tratti più autoriali del suo (miglior) cinema: Zodiac è il ritratto impietoso e cinico, complesso e corale ma ancora rigoroso e implacabile, di un mondo in cui ogni barlume di giustizia è sparito e stecchito, morto e sepolto sotto metri di terra, e la sola cosa per cui si può lottare ancora è la verità. I problemi sono due: primo, che la verità non paga un cazzo. Secondo, che per ottenerla devi rischiare di sacrificare – come minimo – tutto te stesso. E forse, se ti gira male, tutto ciò che ti sta intorno.

Ho scritto il post su Zodiac. Dopotutto, l’ho visto domenica pomeriggio, Zodiac. Era anche ora. Cinema Apollo, un sacco di vecchi, ma non solo. La maggior parte della gente si lamentava perché era troppo lungo, Zodiac, e che non c’era l’intervallo. Al bagno ho sentito diverse persone dire che gli scappava, e ci vorrebbe l’intervallo in un film così lungo. Fuori dal bagno ho sentito chiaramente una sgraziata quarantenne con tacchi troppo alti lamentarsi dell’incapacità di Fincher di gestire il tempo. Troppo lungo, Zodiac. Ma andate a vedere Epic movie e levatevi dai coglioni.

Paris, je t’aime
di Registi Vari, 2006

Paris, je t’aime è il film collettivo che ha aperto Un certain regard a Cannes 2006, ed è composto da 18 corti di circa 5 minuti ispirati ad altrettanti arrondissements parigini (due di essi, peraltro potenzialmente interessanti, ne sono rimasti fuori). Una volta dichiarato che il film è un’esperienza abbastanza positiva, se non altro per la brevità e per la varietà – ma nemmeno sempre – delle sue parti, e che si può dire poco altro, vista la sottilissima e pretestuale congiunzione tra esse (sono tutte storie d’amore? Quindi?), la pericolosa tentazione è quella di mettersi a scrivere qualcosa su ognuno dei 18 segmenti che lo compongono.

A quanto pare ci sono cascato come una pera.

Bruno Podalydès
L’incontro tra un uomo cinico e solo e una donna svenuta per strada. Ridotto all’osso e non proprio scoppiettante come inizio, ma Podalydès (anche attore protagonista) ha un’espressività invidiabile.

Gurinder Chadha
Inevitabile che la Chadha tirasse fuori un’altra volta "l’amore ai tempi del meltin’ pot", tanto più che di Parigi si tratta. Naif fino allo svenimento, ma piacevole. Cyril Descours mette tenerezza, Leïla Bekhti è una ragazza da sposare.

Gus Van Sant
L’incontro tra due giovani – e bellissimi – ragazzi, segnato dall’incomprensione linguistica e concluso da una corsa nelle vie di Marais. Tra i segmenti migliori, come si poteva ben prevedere. Cameo di un’enormerrima Marianne Faithfull.
Watch it

Joel and Ethan Coen

Scherzetto semi-barocco che gioca con l’ignoranza e la paranoia del turista fai-da-te. Divertente sciocchezzuola e poco più, ma ovviamente girata come dio comanda. Steve Buscemi sperduto e picchiato è sempre un bel vedere.
Watch it

Walter Salles and Daniela Thomas
L’odiosissima Catalina Sandino Moreno è una messicana divisa tra il figlio e il lavoro di babysitter. In bilico tra commozione e ricatto, ma tendente a quest’ultimo. Apprezzabile dono della sintesi, ma c’è un limite alla mia pazienza. Che palle.

Christopher Doyle
Non ci sarebbe bisogno di dirlo, è un’autentica goduria per gli occhi. Balletti colorati, vestiti e capelli al vento, focali corte, Li Xin. Assolutamente vacuo, ma io me ne sono innamorato.
Watch it

Isabel Coixet
Un onorevolissimo terzetto paneuropeo (Sergio Castellitto, Miranda Richardson, Leonor Watling) in una storia d’amore, abbandono e responsabilità che ho pure gradito ma che ho già parzialmente rimosso.

Nobuhiro Suwa
Il segmento del regista di M/Other farà felici i fan della Binoche e pochi altri, ma Willem Dafoe, Caronte per bimbi conciato come un cowboy, ripaga di quei cinque minuti di frignata.

Sylvain Chomet

Il regista di Appuntamento a Belleville ripropone anche live-action il suo stile esagitati e cartoonesco. Uno di quelli che ci mette più del suo, ma forse esagera: dopo un minuto vorresti fare un mimicidio di massa.
Watch it

Alfonso Cuarón
Doveva esserci per forza, quello che ci piazzava il piano-sequenza. Secondo me se lo sono pure litigato. Al di là di quello, non c’è molto. Giusto il meraviglioso vocione rauco di Nick Nolte, se vi basta.

Olivier Assayas
Il segmento dell’ex-marito di mia moglie è un’interessante variazione sui suoi temi abituali, sia nell’impostazione che nell’indole. Maggie Gyllenhaal è bravissima nel rischioso ruolo di quella fatta fino ai capelli e ubriaca marcia. So che molti di voi recupereranno questo film solo per quest’ultima frase.

Oliver Schmitz
Il regista sudafricano, a me pressoché sconosciuto, gira uno dei segmenti migliori, capace di sintetizzare in pochi minuti una storia che – caso unico? – avrebbe meritato un film a sè. O almeno un po’ di tempo in più. A suo modo, struggente.
Watch it

Richard LaGravenese
Buon sceneggiatore e regista inesperto, LaGravenese dirige il noiosetto segmento di Pigalle, ovviamente ambientato in un peep-show. Puttane e romanticherie: ecco a voi uno che ha preso Parigi troppo alla lettera.

Vincenzo Natali
Cosa ci faccia qui dentro, questa insulsa ridicolaggine con Padron Frodo vampirizzato da una bonazza, andrebbe chiesto a chi di dovere. Sono passati 10 anni da Cube e questo tizio ancora ci mangia. Fermatelo.

Wes Craven
Da un Craven ambientato a Père-Lachaise ti aspetti come minimo un horroretto, e invece c’è il fantasma di Oscar Wilde che salva una coppia in crisi a suon di aforismi. OMG.

Tom Tykwer
Quasi una costola di Lola corre, otto anni più tardi. Di tutta la cumpa, Tom Tykwer è quello che ha sfruttato meglio il tempo a sua disposizione, e di sicuro quello che si è sbattuto di più. Sarà pure roba vecchia, ma visto il contesto forse è il segmento più bello. E poi c’è Natalie Portman, dai.
Watch it

Gérard Depardieu e Frédéric Auburtin
Gena Rowlands interpreta e scrive un segmento che funziona solo come omaggio al settantasettenne Ben Gazzara. Che però è newyorkese. E poi biascica, non si capisce nulla di quello che dice. Sbadigli.

Alexander Payne

A chiudere la sequela è la "storia d’amore", ben scritta, tra un’americana di mezza età e la città di Parigi herself. Solitudine, malinconia, cinismo, un deciso – e non sottilissimo – sarcasmo verso i compatrioti, ma con una punta di speranza: chi odia a morte Payne avrà pane per i propri denti.
Watch it

[palme d'or]

I’m a cyborg, but that’s ok (Saibogujiman kwenchana)
di Park Chan-wook, 2006

I’m a cyborg è un film che ha uno scopo ben preciso, e si prefigge di definirlo nel modo più compiuto possibile. Si potrebbe persino parlare di film a tema, sotto questa prospettiva: disegnare l’affresco di un microsistema in cui verità e menzogna si incrociano e si fondono (il monologo iniziale di una mitomane, per di più in piano-sequenza, è una dichiarazione d’intenti), e con loro la realtà e l’immaginazione. Una volta tracciate le linee generali, procedere a mostrare come in un mondo dove tali regole sono ribaltate o confuse, anche i modi di rappresentazione e narrazione devono essere sovvertiti o mescolati. E così, tutta la seconda metà del film è un lunghissimo crecendo verso un climax che però riguarda un atto che "nel mondo fuori" è di una semplicità disarmante. In questo obiettivo, Park riesce alla perfezione: basti vedere quanto tutto il sovracitato pre-finale, nonché il finale romantico, sommesso, poetico e abbagliante, funzionino anche e soprattutto da un punto di vista emozionale, pur nella loro paradossalità.

Sarebbe però disonesto tacere del fatto che il film fa una fatica micidiale a ingranare: dopo gli splendidi titoli di testa, dove i credits sono creativamente mimetizzati nell’ambiente – altra dichiarazione d’intenti, per non essere preso troppo sul serio? – e dove racconto, flashback, passato, presente si mischiano in modo magistrale facendoci girare la testa, tutta la prima parte è volutamente lenta e sottotono, stralunata e inafferrabile, volta a delineare le relazioni tra i tantissimi personaggi – seguendo le orme di altri film ambientati in case di cura – più che a procedere in sviluppi diegetici. E da un regista – tutto sommato – concreto come Park, non ce lo si aspettava. Ci vuole, insomma, una bella dose di pazienza. Che però viene ripagata dalla svolta narrativa della seconda parte – che inizia approssimativamente dal "trasferimento" tra Il-Sun e Young-goon, o forse dal sogno ultra-visionario di Young-goon nell’incubatrice – che corrisponde anche a una notevolissima virata qualitativa del film.

Ma vi do un consiglio: se avete intenzione di vedere questo film, tra gli approcci possibili, scegliete quello più vergine. Lasciate stare i film precedenti di Park: quello è un percorso a cui sembra aver rinunciato definitivamente, sottolineando – si capisce – il suo desiderio di una "quiete dopo la tempesta", di una rinfrescante valanga – zuccherina, perché no – dopo le disperate efferatezze dei suoi film precedenti. Che poi ci sono, anche qui, ma sublimate in un paio di straordinarie sequenze semi-oniriche. Da un lato però – basti pensare a quanto si trovi qui della complessa struttura ad incastro (soprattutto nell’incipit) e dell’ironia diffusa e sorniona di Lady Vendetta – si potrebbe parlare anche e tranquillamente di un’evoluzione. Anche se i risultati non sono gli stessi, va da sé.

Il problema di I’m a cyborg è quindi, più che altro, un problema nostro: siamo ormai così abituati a considerare i film di Park Chan-wook come la vetta delle nostre classifiche annuali che non sappiamo più accontentarci. Forse siamo noi a dover fare ammenda, e accettare che il Nostro Prediletto possa girare dei film che siano – come I’m a cyborg, but that’s ok è, innegabilmente – semplicemente bellissimi, dolcissimi, commoventi e – inspiegabilmente, o forse magicamente – di un’universalità quasi spaventosa. E forse nulla più. L’importante è non smettere di sperare che Park possa produrre altri Capolavori in futuro. Magari, chissà, con un paio di canini aguzzi.

[post in attesa]

[tre-ni-no, tre-ni-no!]

Facciamo "tutti insieme il trenino dell’ammore di Cillian" (cit)

Ovviamente, nel nuovo episodio di Friday Prejudice. Clicca.

Breakfast on Pluto
di Neil Jordan, 2005

Adattando un altro libro di Patrick McCabe dopo The butcher boy, Neil Jordan riesce a mescolare ancora una volta un cinema che parla della sua Irlanda (e di tutto quelle che ci sta intorno – leggasi: guerra) e insieme una storia individuale che sfiora e accarezza i generi a cui si avvicina, senza farsene divorare. Qui, un romanzo di formazione di un giovane travestito in fuga da un villaggetto irlandese grigioverde fino ai peep-show londinesi rosa shocking: un viaggio lungo, densissimo, appassionante, commovente, e comunque stracolmo di personaggi capaci di conquistarti con un gesto o una frase. E con una colonna sonora meno scontata di quanto ci si aspettasse, eppure splendida.

Ma una cosa va chiarita fin da principio: mentre Neil Jordan qualche scivolata la prende, forse per qualche momento di disattenzione o perché il film dura giusto dieci minuti – e un finale – di troppo (ma non è un danno enorme, il cast – e un paio gi gustose autocitazioni, leggasi: Stephen Rea – fanno perdonare questo e altro), gran parte del merito della bellezza del film va a Patrick/Patricia "Kitten" Braden. Inanzitutto, il modo in cui il personaggio è scritto, dagli stessi Jordan e McCabe: vicino – anzi, appiccicato – all’ossessione quasi bipolare per la madre (divenuta per distacco una "donna fantasma"), eppure distante nella rappresentazione, a volte persino giocosa e creativa (come nell’incredibile scena onirica in cui una Patricia versione ninja uccide i cattivi e restaura la pace con l’aiuto di un profumo spray), quasi un musical senza parti cantate – per starsene poi in silenzio quando è il tempo di soffrire, di perdere, di morire, di ritrovarsi, di riconciliarsi.

Ma a lasciare di sasso è soprattutto l’interpretazione di Cillian Murphy. Che non solo sa camminare con i tacchi in un modo che molte donne si sognerebbero, ma che sa anche esprimere la profondità della frustrante fuga del suo personaggio dalla solitudine con un semplice sguardo, con un tono di voce, con una frase o un’altra, ripetute fino allo sfinimento. Se non ci fosse stata almeno la bellissima Ruth Negga a controbilanciare, sarebbe stata decisamente una Serata No per la mia eterosessualità.

Nei cinema dal 25 Maggio 2007

[post in attesa]

"I knew you were only joking about the roses. And the sweeties.
But it was nice while it lasted."

[tonite]
[ma yesterdaynite pure stavolta]

Of Montreal @ La Casa 139, Milano

Sito, Myspace, Wikipedia, Last.Fm, Elephant6, Fans

Heimdalsgate Like A Promethean Curse
video directed by The Brothers Chaps

[non è un'idea mia...]

…ma del vero protagonista della settimana. Altro che Zodiac.

Tutto nel nuovo episodio di Friday Prejudice. CLICCA.

[apollineo vs dionisiaco - 1]
 

Io, l’altro
di Mohsen Melliti, 2007

[spirito dionisiaco]

C’è Raul Bova che fa il pescatore e parla siciliano. C’è Raul Bova che guarda una profuga morta in mare e dice "poverini, cercano la speranza e trovano la morte". C’è la svolta thriller. Scult tra gli scult, c’è una specie di morphing tra il ritratto di Bin Laden e quello di Padre Pio. Era l’unica ragione per andarlo a vedere, e ve l’ho rovinata. Bin Laden! Padre Pio! Bin Laden! Padre Pio! Bleah.

[spirito apollineo]

La mia recensione su Cinema4Stelle.

nota: questa stupida rubrichetta si propone, almeno per oggi, di mettere un po’ di ordine nella mia recente schizofrenia privata e professionale. Trovo comunque che l’immagine sia deliziosa: potrebbe diventare un’abitudine.

Fascisti su Marte – Una vittoria negata
di Corrado Guzzanti e Igor Skofic, 2006

Mettiamo subito in chiaro una cosa: chi scrive considera Corrado Guzzanti uno dei più grandi uomini di spettacolo dei nostri tempi, e la mia ammirazione per lui ha rasentato in passato (quando era più presente, come con quell’assoluto Capolavoro della TV italiana che fu Il Caso Scafroglia) forme persino ossessive. Detto questo, e messo quindi alla luce dei fatti che non ho un briciolo di oggettività di fronte a tutto ciò, è chiaro anche che non pretendevo che il film di Fascisti su Marte fosse anche un bel film. Soprattutto per una ragione: conoscevo la tiritera.

Se ci si approccia al film conoscendone i contenuti, il gioco non può che durare poco. Il film è infatti troppo lungo, troppo lento, troppo ripetitivo, troppo risaputo, almeno per chi conosce già la materia di cui è fatto. Ciò nonostante, Una vittoria negata, anche in questa prospettiva, è un film migliore di quanto ci si aspettasse: la struttura a sketch rimane quasi intatta, ma sotto a questo progetto assurdo, insieme amatoriale e sperimentale, c’è una struttura portante ben più radicata, che viene fuori con molta chiarezza e che possiede la forza risanatrice della Vera Satira – sempre a costo di prescindere dalle troppe tentazioni all’eccesso di Guzzanti & C.

Poi mi sono immaginato un approccio "vergine" al film, senza insomma aver avuto l’esperienza della versione "seriale" di Fascisti su Marte andata in onda sulla RAI. In tal caso, vi sfido a trovare nel cinema recente del nostro paese qualcosa di così spudorato, libero, svincolato da ogni legame con i linguaggi e gli stili dominanti, e soprattutto così spaventosamente divertente, così innegabilmente geniale.

Ecco, Geniale è un’altra di quelle parole che mi tengo ben stretta e che non sputtaneggio in giro. Questa è un’eccezione.

[hype?]

Ottobre.
(in Giappone, ça va sans dire)

[ultimate chicken fight]

[da Family Guy – S06E16, "No Chris Left Behind"]

[tonite] [double feature]

MTV brand:new night @ Rolling Stone, Milano

The Long Blondes @ Rolling Stone, Milano
Sito, Myspace, Wikipedia, Last.Fm

Once and never again video directed by Rupert Noble

The Pipettes
Sito, Myspace, Wikipedia, Last.Fm

Judy video directed by Juno

[tonite]
[in realtà yesterdaynite, ma la rubrichetta si chiama così]

Non voglio che Clara @ Goganga, Milano

Sito, Myspace, Wikipedia, Last.Fm
Indiepop, Rockit, S/A, Ondarock, Musicboom

Cary Grant video directed by Mauro Lovisetto

"La storia più porno che hai
tienila in serbo per quando torno da lei"

[non so cosa scrivere qui]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Them (Ils)
di David Moreau e Xavier Palud, 2006

Controindicazioni del non avere materialmente tempo: dover aspettare quattro giorni e quasi la mezzanotte per scrivere un piccolo ma decoroso post su un piccolo ma decoroso horror francese.

Controindicazioni dello scrivere un post dopo quattro giorni: non mi ricordo granché. Ho visto Them di sabato sera, da solo e al buio, mi sono sommariamente divertito, giusto una volta o due mi sono pure spaventato, appena appena. Ne ho apprezzato l’assoluta essenzialità, la gestione coerente delle unità aristoteliche, il gusto del recupero-del-puro-racconto, alcuni momenti che non saprei ripetere, la brevità (sembra poco, ma è un fattore importante) e il finale-beffa, risaputo ma dal buon effetto, e poco altro.

[poi, avevo un sacco di altre cose da aggiungere che non ricordo, c'era anche una cosa tipo "se vai a vivere in culo ai lupi nelle campagne rumene, e in più sei la macchietta dello scrittore inetto che si fa mantenere dalla fichetta, e in più sei il clone di Rodrigo Santoro (si intenda, in versione Paulo-di-Lost, non in versione Serse-di-Persia), e in più usi un portatile vecchissimo che monta un windows vecchissimo su cui giochi a Space Cadet 3D Pinball, cielo, un po' te la sei cercata", e altre osservazioni molto meno trattenute su Olivia Bonamy.]

Controindicazioni dello scrivere un post quasi a mezzanotte: ho già finito.

Hot Fuzz, Edgar Wright 2007

Hot fuzz
di Edgar Wright, 2007

“I may not be a religious man, but I know the difference between right and wrong.”
“Oh, fuck off, grasshopper.”

Mi trovo in difficoltà a scrivere di questo film: non perché non trovo le parole, ma perché mi vengono alla mente soltanto superlativi. Il regista Edgar Wright e l’attore principale Simon Pegg, entrambi anche sceneggiatori e amici dai tempi di Spaced, sono riusciti a replicare quello che in Shaun of the dead ci poteva essere sembrato il frutto di una miracolosa e irripetibile magia. E invece – a quanto pare  – c’è molto di più.

Ci vuole poco a spiegare il film: prendete Shaun, appunto, e sostituite gli horror di George Romero con gli action movie americani (Bad boys 2 e Point break in prima linea, ma non solo). Il risultato è lo stesso: ovvero, un film che è insieme una commedia pura, la vivace parodia dei suddetti film d’azione (con un’attenzione particolare ai sottotesti slash dei buddy movie), e un film d’azione con una trama coerente, coinvolgente e credibile, con tanto di incredibile sparatoria finale: senza però che nessuna delle tre cose ostacoli l’altra. Già per essere riusciti a imbroccare due volte di fila un progetto simile i due ragazzacci del South West England meriterebbero tutta la nostra stima. E invece – possiamo dirlo – c’è molto di più.

Hot fuzz è infatti molto più spassoso di quello che poteva far presagire il trailer: anzi, è probabilmente la commedia più bella e divertente dell’anno. Merito di una sceneggiatura ancora illuminata da tantissimi dialoghi geniali e ancora basata sul un numero spaventoso di riferimenti esterni (citazioni, spesso molto esplicite), semi-esterni (le decine di gustose autocitazioni di Shaun of the dead), e interni (i dialoghi che si “anticipano” e si “ripropongono”, in un gioco di rimbalzi narrativi che fa impallidire la maggior parte deli screenwriters d’oltreoceano, e non solo quelli action). E invece – insisto – c’è persino qualcosa di più.

Perché, per quanto Shaun rimanga nei nostri giovani cuoricini come una delle più belle scoperte degli ultimi anni – e per quanto l’infamia con cui è stato accolto dalle nostre parti bruci ancora – Hot fuzz per alcuni aspetti (mi sento di dire: aspetti cruciali) è un film – persino – forse – quasi – migliore. Si tratta di maggiore dimestichezza nella regia, maggiore coraggio nello sperimentare in fase di montaggio (ed è una delle cose che più salta agli occhi, basti pensare alla sequenza del viaggio da Londra alla campagna), ma ne guadagna anche il disegno dei personaggi e delle relazioni tra di essi. E c’è l’incipit più formidabile degli ultimi tempi.

Visto che stavolta ci fanno la cortesia di metterlo nelle sale – in tempi infami, a metà Agosto – speriamo solo che non venga svilito e spacciato per una semplice volgare parodia. Almeno, speriamo che nessuno ci caschi: Hot fuzz è un film a cui vogliamo già un porco bene. Guai a chi lo tocca.

Nelle sale italiane dal 17 Agosto.