[concorrenza sleale]
Qualunque siano il prestigio del vostro blog, l’affetto dei vostri lettori, le vostre amicizie importanti, le brutte foto con i vip che vi siete fatti a Venezia, preparatevi ad essere definitivamente demoliti da una dodicenne con l’apparecchio che sta passando le sue giornate sul set di Hellboy 2. E ce lo racconta pure. Ed è pure simpatica.
Nella foto, Maddy Gaiman dà istruzioni perentorie a Guillermo del Toro e Guillermo Navarro.
Eh, vabbè. Gaiman. Così son capaci tutti.
(si allontana roso dall’invidia)
A cock and bull story – Tristram Shandy
di Michael Winterbottom, 2005
Se il terzultimo film di Michael Winterbottom è (ancora) inedito in Italia, è approssimativamente per due ragioni – al di là della fama non proprio altisonante (almeno non ecumenica, dalle nostre parti) del libro di Laurence Sterne. La prima è che Steve Coogan, intorno a cui gira tutto il film, dalle nostre parti non lo conosce quasi nessuno, mentre nel mondo anglosassone è celeberrimo per il personaggio tv di Alan Partridge. E figuriamoci Rob Brydon. La seconda è che il film è apparentemente invendibile.
In realtà, in un paese in cui il prefisso fellin* è uno dei più abusati di sempre, se un film ha come culmine una lunga sequenza su un set di un film che sembra non dover decollare mai, e questa scena è accompagnata dalle marcette di Nino Rota, dico io, in qualche modo questa roba si poteva smerciare. Certo che Steve Coogan che interpreta Steve Coogan che interpreta Tristram Shandy che interpreta Walter Shandy (tutto vero), beh, qualche confusione la può creare.
Infatti, dopo mezz’ora passata a replicare l’incipit del testo originale nel modo più furioso e incontrollato che possiate immaginare (e anche furiosamente divertente, va detto), A cock and bull story diventa un meta-film che racconta con ironia e con un uso intelligente e complesso del caos diegetico l’impossibilità di raccontare al cinema la storia di Shandy, e forse ogni storia. Dall’altra parte, Steve Coogan intepreta sé stesso con un’abnegazione votata all’autodenigrazione (il ritratto che ne esce è quello di un borioso e insopportabile eterno ragazzino, e pure un tantino puttaniere) che – volente o nolente – attira su di sé tutta l’attenzione dello spettatore, rendendolo davvero – riprendendo il dialogo che apre il film – un film con Steve Coogan e basta. Fino al finale, che si ricollega a quello del libro in modo frettoloso e autoironico, con una comparsata di un enorme – in tutti i sensi – Stephen Fry.
Ma non si intendano le mie parole come uno sminuimento: A cock and bull story è un film decisamente spassoso, assoluto trionfo dell’inessenzialità, d’accordo, ma raccontato con intelligenza e senso del ritmo. In un film del genere, non è cosa da poco. Se la spocchia c’è, quantomeno è giustificata dai risultati. E il dialogo tra Coogan e Brydon che accompagna i titoli di coda è impagabile.
Ecco un film di cui avrei voluto scrivere per primo. E invece no.
Il matrimonio di Tuya (Tuya de hun shi)
di Wang Quanan, 2006
Nonostante i miei dubbi precedenti alla visione, il film vincitore dell’ultimo Orso d’Oro è stata una visione più che interessante: al terzo film, il regista cinese dimostra una dimestichezza inaspettata nel districarsi tra i registri diversi presi da una storia simile. Così, Tuya passa in un batter d’ali da straziante racconto di solitudine a buffo racconto gitano, da malinconico triangolo amoroso a (perché no, già che ci siamo, a sprazzi) affresco socioculturale. Il tutto dipinto con una notevole abilità scenografica (e fotografica) nello sfruttare la secchezza dei paesaggi della Mongolia.
Si tratta comunque di quelli che altri chiamerebbero "intrattenimento da festival", ovvero quei film che comuni spettatori vittime dell’horror vacui cercano spesso e volentieri di evitare, aiutati in questo compito dall’indolenza delle case distributrici. Lo è, effettivamente: ma in modo molto consapevole e non compiaciuto, intelligente e non intellettuale. E gli riesce qualche colpo davvero ben assestato: come il bellissimo montaggio parallelo in cui Bater tenta il suicidio mentre Tuya rifiuta il letto del suo promesso sposo.
La bambina persa nella neve fa cascare le braccia, e potevano evitarcela: ma la sequenza del carretto ribaltato è una delle più sorprendenti degli ultimi tempi, come bellissimo è il finale circolare e tronco al tempo stesso. Poi, lo so, si vede benissimo che non so che diavolo scrivere.
Confetti
di Debbie Isitt, 2006
Confetti è un mockumentary in cui la fittizia testata giornalistica fashion che dà il nome al film organizza un concorso per il matrimonio più originale e bizzarro dell’anno. Partecipanti: un matrimonio "tennistico", uno naturista e uno musical. Primo premio, la casa dei sogni. Il film è girato con la tecnica "fly-on-the-wall" (camera a mano e improvvisazione comprese) portata al successo dal The Office britannico di Ricky Gervais, assoluta meraviglia, ma dal cui contraccolpo gli inglesi non sembrano riuscire a riprendersi.
Qualcuno si metterà anche a discutere, a cosa possa servire una tale spudorata e indiscussa apologia del matrimonio come massimo (o unico) compimento della Vera Storia d’Ammore, tenendo conto che all’irresistibile coppia di wedding planners gay (Vincent Franklin e Jason Watkins) non resta che una tenera ma grigia pantomima. Pazienza: dopotutto le ambizioni di Confetti si fermano ad un gradevole divertimento per buona parte della sua durata. Quanto basta: i trashissimi matrimoni che chiudono il film cancellano gioiosamente qualunque tentativo di prendere sul serio il film, e perciò criticarlo.
E poi, noi si è visto il film soprattutto per Martin "Adorable Poochie" Freeman e Jessica "l’amica di Simon Pegg" Stevenson, e sotto quel profilo – persino nelle poche parentesi serie – si è rimasti inevitabilmente soddisfatti. Massì.
Nei cinema dal 6 Luglio 2007
Paranoid park
di Gus Van Sant, 2007
[Cannes a Milano 2007]
Si può discutere quanto volete, sullo stile di Van Sant, sul suo modo rarefatto e ormai cristallizzato di fare "cinema d’autore", sull’effettivamente brutto scivolone che è stato Last Days rispetto alla grandezza di Gerry e Elephant, oppure (se proprio non avete un cervello) sulle sue aspirazioni sessuali. Quello che è certo è che un regista così al giorno d’oggi andrebbe coltivato. Dovremmo tenercelo stretto per gli anni a venire. Dovremmo volergli bene, e basta.
Perché Van Sant è uno dei pochi – dei pochissimi nel suo paese – registi contemporanei che riesce a dare un senso morale al movimento dei corpi nello spazio e ai volti dei suoi personaggi, senza aver bisogno di molto altro. E uno dei pochi che sa riflettere sui suoi temi, spesso controversi, con la giusta distanza ma senza dimenticare la portata emozionale che questi possono suscitare: in questo senso, nonostante l’evidente interesse di Van Sant alla "patina" che ricopre il film (i mille ralenti sugli skater nel parco eponimo, le solite infinite "camminate" – ma meno infinite che altrove – quasi un semi-abbandono delle tentazioni belatarriane?), le scene del "fattaccio" e della doccia – simmetricamente centrali nello sviluppo della fabula – sono autenticamente strazianti. Questione di tempi, di coraggio, dove altrove lo stesso sguardo reiterato e ossessivo sarebbe risultato morboso e indesiderato.
E poi c’è la fotografia di Christopher Doyle, eccellente dopo la prova "mascherata" di Lady in the water, capace di meraviglie "mobili" e "immobili", persino quando nascosta dietro l’artificio di una telecamera nascosta: anch’essa, nella sua splendente lucidità, al di là di sterili polemichette, contribuisce a fare di Paranoid Park un bellissimo racconto di formazione improvvisa, che rimane dentro lo stomaco come un sasso, e non vuole saperne di andare giù.
Con questo film si è chiusa lunedì la mia – molto parca – partecipazione alla rassegna di Cannes. I post sono aggregati sotto questo tag. Se ne avete scritto anche voi, non esitate a segnalarlo nei commenti.
Control, Anton Corbijn 2007
Control
di Anton Corbjin, 2007
[Cannes a Milano 2007]
Come sia difficile raccontare la storia di un’icona o di una leggenda (del rock, ma non solo) senza capitombolare sopra i soliti vecchi errori, è discorso ben noto. Il fotografo olandese Anton Corbijn, anche prolifico regista di videoclip, sceglie al suo esordio sul grande schermo di aggirare il problema e ribaltarlo alle spalle, dipingendo il ritratto di Ian Curtis, indimenticato leader dei Joy Division morto suicida a 23 anni, in modo inaspettato e originale.
Ovvero, da un lato fornendo un ritratto del lato meno “leggendario” di Curtis, un ritratto più affettuoso e insieme consapevole e realista di quello di un mero fan – quello di un ragazzo normale, clinicamente sfortunato e affettivamente debole, lontano dai canoni del maledettismo a cui brutti biopic passati ci hanno abituato, anche se in ogni caso destinato ad essere divorato dal suo stesso talento. Dall’altro, scegliendo uno stile il più possibile “neutro” (anche se in realtà meravigliosamente fotografato da Martin Ruhe) e lasciando che l’incredibile, stupefacente interpretazione di Sam Riley – “mimetica” fino alla morbosità – faccia il grosso del lavoro.
Ne è scaturita un’opera rock inusuale e sconcertante, sommessa e dolente, proprio come le canzoni del gruppo di Ian Curtis, oltretutto bellissima da vedere – e da ascoltare. Si vede che è il prodotto di un fan (per la “vicinanza” sopracitata, pur nella secchezza dello stile) e di uno che sa perfettamente di cosa parla, non di uno capitato lì per caso (dubito che i fan duri e puri avranno di che lamentarsi), e tutto questo non fa che giovare al film. Gli giova meno, forse, la supervisione produttivo/narrativa di Mrs Curtis e di Tony Wilson, che infatti ne escono molto più che immacolati – mentre i futuri New Order passano per un gruppo di cazzoncelli.
Ma quasi non ci si bada. Bellissimo, punto.
Smiley face
di Gregg Araki, 2007
[Cannes a Milano 2007]
Vorrei limitarmi a dire che mi sono fatto alcune delle più grasse risate degli ultimi tempi, e invece ho la sensazione che ci sia sotto qualcosa di più: tutto sommato è una stoner comedy piuttosto tradizionale, e con tutti i crismi del suo genere. Ma Araki (pur su commissione) l’ha girata con un ritmo bizzarro e altalenante, con tocchi sperimentali innocui ma godibilissimi, e soprattutto l’ha infarcita di uno spirito caustico, causticissimo, che se non è usuale rispetto al suo cinema, è assolutamente personale.
Tornando alle questioni di fatto, Smiley face è un autentico Spasso con la Esse Maiuscola: la nostra adorata Anna Faris che si trascina – letteralmente – per Los Angeles in fattanza durissima per un’ora e mezza – e garantisco che la sua faccetta inebetita non annoia mai e vale da sola il prezzo del biglietto – sarebbe pure bastata: e invece c’è Adam Brody che fa il pusher coi rasta e dai modi gentili, c’è la geniale comparsata di Marion Ross, c’è un coinquilino nerdissimo che si fotte i teschi (sic), c’è un "doppio" monologo delirante con protagonista Un Certo Libro, e c’è la sequenza catartica – ancora con protagonista Un Certo Libro – più assurda e liberatoria che potessimo sperare.
Le voyage du ballon rouge
di Hou Hsiao-hsien, 2007
[Cannes a Milano 2007]
Prima di tutto, un’onesta ammissione: non ho mai visto un film intero di Hou Hsiao-hsien. E ne ho pure avuto spesso la possibilità. Tra le altre cose, sono stato portato fuori strada dalla bruttezza di una copia VHS mai terminata di Città dolente, dalla difficoltà di reperire una versione integrale di Millenium Mambo, e via dicendo. il regista taiwanese (a differenza del suo quasi-allievo Tsai Ming-liang) è sempre stato per me un autore conosciuto solo sulla carta, sugli altrui commenti entusiasti, su spizzichi e bocconi di un cinema che avrei potuto amare. Ma la vita è lunga.
Detto questo, in questo suo primo film europeo, Hou racconta una storia che è davvero "di tutti i giorni", riprendendo e riproducendo il quotidiano con una leggerezza – pari a quella del palloncino del titolo – che non può non lasciare affascinati. Come il fatto che pur non succedendo praticamente "niente", in senso canonico – l’interesse di Hou è infatti programmaticamente focalizzato sull’inessenziale, su quello che generalmente rimane fuori dall’inquadratura e quindi dal tempo della visione – Le voyage du ballon rouge riesce a restituire, a piccoli tratti – nella tenerezza di uno sguardo, in una paura, in un ricordo, in una malinconia – dimensioni inspiegabilmente universali. Anche con l’aiuto di una fotografia stupenda (ovviamente zeppa di piani-sequenza) che dà una vera lezione di come si illuminano e come si riprendono i volti umani, come l’espressività quieta e dolcissima di Sang Fong).
Non mi sono strappato i capelli, perché la referenzialità cinefila ("Il palloncino rosso" di Albert Lamorisse) è in questo caso quasi stridente, perché la popputa Binoche è bravissima – davvero, roba da inchini - ma troppo innamorata di se stessa, e – questione del tutto personale – per lo strafogamento di marionette. Ma come ci sia riuscito, a fare tutto il resto, me lo sto ancora chiedendo.
[solo Papurika]
E lasciate stare tutto il resto. Che comunque c’è…
… nel nuovo episodio di Friday Prejudice. Dai. Su.
A est di Bucarest (A fost sau n-a fost?)
di Corneliu Porumboiu, 2006
Mentre nella giornata di ieri il pubblico affollava (?) le sale milanesi per vedere il film rumeno che ha vinto a (semi)sorpresa la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, il sottoscritto, sopraffatto dalla stanchezza, se n’è stato a casa a vedere il film rumeno vincitore della Camera d’Or l’anno passato, uscito in sordina anche nel nostro paese, dove ha conquistato non pochi cuori.
Se non è stata una sorpresa, dunque, è stata comunque una soddisfazione: A est di Bucarest è un film piccolo piccolo, costruito tra l’altro su una assoluta e progettuale semplicità (a partire dalla divisione in due parti eque e distinte), ma che riesce ad andare al di là della riflessione "locale" sulla storia della rivoluzione, per dire qualcosa di più che sensato, non solo sul rapporto tra Storia e Memoria, e tra memoria collettiva e individuale, sulla rivoluzione nelle strade e su quella che è dentro ciascuno di noi.
Ma anche sulla frustrazione dell’impossibilità del progresso in una Storia che sembra mordersi la coda., e davanti alla quale le Cose Che Sembravano Importanti non sono più altro che pallide e inutili ossessioni, in cui affoga la dimenticanza di quello che è rimasto di bello al mondo. Fuori può ancora nevicare, come un tempo (anche se solo per un giorno, "prima che torni ad essere fango"), e la speranza (lieve, ma intrisa di poesia) giace nella voce delle nuove generazioni.
Senza contare le risate incontrollabili (inaspettate, dopo una prima parte così sorniona) e almeno un monologo da pelle d’oca, quello dei fiori rubati e di un eroismo "da camera": il riscatto e il perdono sono forse l’unico eroismo possibile. E tutto questo con tre soli (bravissimi) attori, una telecamera claudicante, e uno squallido set televisivo. Provateci voi.
[un altro post dove parlo dei fatti miei e poi basta giuro]
Photo © Tom Medwell
- per quei pochi a cui interessasse, il weekend nella Perfida Albione è stato bellissimo. A Londra si mangia molto meglio (e molto di più) si quanto si pensi, e soprattutto i geek come me spendono montagne di euro in DVD e non solo.
(Ma ehi, va’ che sono stato pure al British Museum, al Museo di Storia Naturale, alla Tate Modern, alla V&A a vedere quei mattissimi dei surrealisti, e mi sono quasi-sbronzato con Valido a Camden. Non si vive di soli Dalek.)
- sul concerto di Andrew Bird allo Scala non devo dire niente perché potete immaginarlo da soli. Un Dio, punto. Ho ancora i brividi. E quindi segnalo la sua supporter St Vincent, che ha stregato il pubblico con un live solista – voce, chitarra e tacco – divertentissimo e spaventosamente intenso.
(nella foto sopra c’è pure la mia testa, ma non si vede – qualche mia foto londinese potete trovarla qui.)
- se non ho scritto niente finora è perché non ho visto alcun film (né a Londra né dopo, tranne una gasatissima revisione casalinga di Advent Children, iersera) e non volevo fare questo post. Pazienza. Tranquilli, non dimentico i miei doveri. Datemi tempo.
- dopo aver letto l’insuperabile post di Violetta (forse uno dei suoi migliori di sempre – il che è tutto dire), mi è passata la voglia di fare il più volte annunciato nuovo post sulle serie tv. Probabilmente non lo farò mai. Però colgo l’occasione per difendere strenuamente la prima stagione di Heroes fino alla fine dei miei giorni. Sì, persino il finale. Un affettuoso parcometro in testa a chi dice il contrario.
- negli ultimi tempi si fa un gran parlare di quanto sia brutto, inutile e stupido Twitter. Io che ci sono dentro fino al collo è meglio che stia zitto, esattamente come ho fatto finora. Il rimedio sicuro per placare ogni discussione? I twittergatti. Signore e signori, vi presento Luna e Mila.
- a proposito di gatti, approfitto di questa riga vuota per segnalare il mio sito preferito da un mesetto a questa parte. E vogliamo parlare di Mr Lee Cat Cam? Cristo, devo essermi proprio rincoglionito.
- la cosa più importante, nel contesto, è che oggi inizia l’attesa rassegna di Cannes a Milano, purtroppo quasi del tutto priva dei Film Che Volevamo Vedere. Pazienza. Il lavoro mi impedirà comunque di presenziare a tutte le epiche proiezioni pomeridiane, e le mie colorate fatine Fatica e Pigrizia di partecipare ad alcune proiezioni serali. Ma è certo – visto che ho acquistato l’abbonamento – che mi si vedrà spesso da quelle parti, nei prossimi giorni. Mi riconoscete perché sono fico.
(scherzi a parte, colgo l’occasione per segnalare l’imperdibile doppietta di mercoledì sera. Hou Hsiao-hsien + Gregg Araki? Prendetelo come un invito. Oppure come un obbligo, fate voi.)
[bloody hell, mate!]
[first]
Come già si evince dal post precedente, il primo episodio di COERCIZIONE! è terminato con la vittoria di Queer Duck, seguito a pochi passi dall’ormai leggendario Mammoth. Ho fatto quest’orrendo grafico con OpenOffice Calc tanto per dare l’idea dello stacco vertiginoso che i due film suddetti hanno dato agli altri quattro. Eat it, Heather Graham! Pheeu. Da segnalare l’insuccesso del bruttissimo Happily n’ever after: vuoi vedere che mi avete fatto un favore?
[second]
Tra qualche ora me ne vado dall’Italia per quattro giorni, diretto nella capitale della nazione che negli ultimi mesi, con mia stessa sorpresa, sta catalizzando i miei interessi cinematografici, televisivi e musicali. E non solo. Obiettivo sicuro del viaggio è questo concerto, già in forse quest’altro, certe una capatina qui e una qui. Il resto è tutto da decidere. Fino a domenica notte sarò praticamente irreperibile. Passate un buon weekend anche voi (e se siete nel Nord Italia non fatemi lo scherzo di perdervi questo).
[third]
Non posso ovviamente lasciarvi senza Friday Prejudice, tanto meno nella settimana in cui escono un film di Soderbergh e il film con John Cena, o no? Dopotutto è già giovedì.
Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Eccolo qui.
[COERCIZIONE!]
[innocua rubrichetta di masochismo cinefilo - S01E01]
Di seguito trovate un elenco di sei titoli ancora inediti in Italia che il Vostro Umile non ha assolutamente voglia di vedere.
Sta a voi decidere, attraverso i commenti di questo post, quale di questi film il sottoscritto sarà assolutamente obbligato a vedere, e a scriverne entro qualche giorno.
1. "Factory girl" di George Hickenlooper è il film in cui Sienna Miller interpreta Edie Sedgwick. Impietosamente massacrato dalla critica americana.
2. "Gray matters" di Sue Kramer è una commediola cheap con Heather Graham. Come sopra.
3. "Happily n’ever after" di Paul J. Bolger e Yvette Kaplan è il millesimo cartoon in cui le fiabe tradizionali vengono rilette in modo politically uncorrect, ma peggio.
4. "Mammoth" di Tim Cox è un tv-movie in cui lo scheletro del celebre animale preistorico viene posseduto da entità aliene provenute da un asteroide caduto sul museo. Giuro.
5. "Queer duck: the movie" di Xeth Fainberg è un film tratto da un cartoon in Flash il cui protagonista è un papero gay determinato a diventare etero.
6. "The tripper" di David Arquette è il primo film diretto dal marito di Courtney Cox, un horror su un serial-killer che uccide hippy ispirato da Ronald Reagan.
Gioca anche tu a COERCIZIONE!
Quale film vuoi costringermi a vedere?
Basta un commento!
Le urne si chiudono mercoledì sera. Fate del vostro peggio.
[apollineo vs dionisiaco - 2]
Grindhouse – A prova di morte (Death proof)
di Quentin Tarantino, 2007
[spirito apollineo]
La mia recensione su Cinema4Stelle.
che dovrebbe brevemente esaurire l’interesse di chi passa di qui e vuole leggere giusto due parole su Death proof al di là di quelle quattro pallette e mezza, visto che nell’attesa di fare questo post sembra si possa parlare di una vera guèra, mentre per tutti gli altri c’è ovviamente lo
[spirito dionisiaco]
ovvero un lungo, sostenuto ma non sempre serissimo dialogo avvenuto venerdì mattina via email tra il sottoscritto e il Molto Esimio Dott. Manu di secondavisione, in sala con me la sera precedente, i cui interventi, spesso illuminanti, potrete leggere nell’elegante color maròn - e il primo che viene a dire che trascrivere un dialogo su due persone che la pensano allo stesso modo è inutile lo strozzo
Visto che ieri non abbiamo potuto approfondire: il film di Tarantino è meraviglioso. Lui è un genio, talmente avanti che nemmeno lui lo sa. Ciao.
Io quando esco dalla sala raramente ho un’opinione su un film, mi viene dopo un quarto d’ora. Ahah. Comunque il film è incredibile, sono d’accordo. Poi non so se meraviglioso, ma che spettacolo, dio mio. Devo ancora maturarlo, e soprattutto VA visto in lingua originale (mai visto un doppiaggio del genere su un film di questo profilo). Baci.
MMhh. Temo che in lingua si trovi nella versione più corta. Per ora, perlomeno. Fidati, meraviglioso. Ti convincerei lo so. Se non altro perché c’è Kurt Russell.
Ahah, sono sicuro che mi convinceresti (ma non ce n’è bisogno, se mi trattengo è solo perché la mia ragazza ha frenato un po’ i miei entusiasmi, altrimenti mi sarei già comprato quella cazzo di macchina e starei sfrecciando per la provincia uccidendo fighe). Quello che è certo, al di là di tutto ciò che è autoriflessivo nel film (cioé il 90% del film) è che non ho mai visto un inseguimento simile nella mia vita. Avevo letteralmente il culo sollevato dalla sedia. Gesù.
Inoltre, da noi gli omaggi al cinema di genere anni 70 li fa Er Piotta. Il che è l’argomento conclusivo, definitivo, della querelle giornalistica sul cinema italiano. Il meraviglioso (oltre alla tecnica) è che al di fuori di citazioni, omaggi, autoriflessività, strizzate d’occhio, è anche un film profondamente intelligente. Fa vedere che cos’è lo stile, che cosa sono i punti di vista, che cos’è la variazione sul tema, che cos’è la gnocca e che cosa sono gli scontri di macchina. Il computer dalle scarpe da tennis.
Un film al 100% teorico e allo stesso tempo al 100% di puro "genere"?
Secondo me si. Lui non supera il genere, non lo ibrida, né fa tutte quelle cazzate di cui parla gente che non ha la minima idea di cosa sia il genere. Ne prende la parte carnale, la mantiene, la lucida e la getta in mezzo al tavolo per rifletterci. Insomma spariglia in modo intelligente. Bisognerebbe capire come riesce a fare tutto questo. PS: io Tango e Cash lo vidi al cinema e mi piacque molto. Non me ne pento. Ah, no.
"Bisognerebbe capire come riesce a fare tutto questo" mi sembra una frase rivelatoria. c’è qualcosa di davvero misterioso nell’apparente naivite di un dialogo infinito come quello in piano-sequenza alla taverna, che dà l’idea di essere fine a se stesso e invece finisce – collegato con quello che accade nella "revenge" finale – per essere una profonda riflessione sul cinema di genere stesso. Insomma, come diavolo fa? L’abbiamo capito davvero o facciamo un atto di umiltà e ammettiamo che ne siamo affascinati e rapiti, e basta? Personalmente, per quanto mi riguarda, per ora, propenderei per la seconda ipotesi.
Si. Per ora propendo anch’io per la seconda ipotesi. Anche se secondo me l’ineffabile non regge, è una facile risposta, e bisogna provare a spiegarlo (con più tempo, con più concentrazione). Rivelatorio forse è l’inseguimento, in cui le auto anni 70 superano e sorpassano i SUV di oggi. è il simbolo dell’operazione di innesto fruttuoso e non fine a se stesso.Il mistero è nei dialoghi lunghissimi sul nulla e paradossalmente non noiosi, sempre centrati, sempre pronti ad essere rivelatori senza aver mai il tono "ecco questa è la frase storica con cui ti spiego il piccolo ma grande senso della vita". E’ veramente il piacere della perdita di tempo. "Esplosioni verdi, gente che entra ed esce volando, ah, non può essere vero". Jack Burton.
Generalmente tendo a evitare di tirarlo proprio fuori, l’ineffabile. Anche perché un progetto serio c’è, ed è talmente evidente… la cosa più paradigmatica sono quelle tre diverse fotografie in sequenza – e lì l’amico Fede (che ho letto solo ora) ha scritto delle cose molto intelligenti. Sicuramente più di quelle che scriveranno quei critici caciaroni e ridanciani seduti dietro di me, che hanno fatto un casino boia e che urlavano tipo "ehi ho colto questo riferimento!" che avrebbe colto anche un ragazzino di 16 anni. Comunque sì, merita una seconda, terza visione. Personalmente, più ci penso e più lo ammiro. Ma per una volta, non freddamente. No, gasato come un ragazzino di 16 anni, appunto. Si può?
Si, le cose di Fede sono molto intelligenti. Anch’io mi sono risvegliato entusiasta come non mi capitava da tempo (forse Inland empire, ma è un’altra sensazione, ne converrai). Sai cosa? Il giochino "Ehi, ho colto il riferimento. Ammazza quanto sono cinefilo, a volte mi stupisco di me" è stupido. E si fa bene a spernacchiarlo. Quando il dito indica il cielo, l’imbecille guarda il dito, più o meno. Ma il bello è che non è superfluo. Anch’esso serve ed è organico all’opera. Si scioglie in qualcosa di superiore. Se lo fa Soderbergh, il film ti dice "ehi, guarda che risento di Tarkovskij. E colui che mi ha fatto lo ha visto e ci ha pensato".In Death Proof invece, non ha bisogno di tutti questo. Tutta l’operazione di filiazione è talmente evidente, talmente davanti agli occhi – perché è un film proprio partorito da quei film, da quel periodo - che alla fine si preferisce concentrarsi sul brufolo che rimanda a. comunque. Io sono nato pronto.
Mi sovrasti come al solito, non c’è niente da fare. Posso solo aggiungere, è una questione di riflessi. L’altra cosa su cui sarebbe bello ragionare per tutta la vita è come sia possibile che Tarantino possa permettersi di mescolare il corpus di riferimento al corpus del suo stesso cinema – la ripresa da dentro il cofano, i close-up sui piedi delle tipe, il big kahuna burger, e via elencando e elencando – senza che questo stoni o risulti ridicolo o peggio gratuito.
Sai che direbbe Jack Burton? Jack Burton dice: no che non ti sovrasto, caro. Si potrebbe dire, è una questione di coerenza. Tra i suoi film. si potrebbe pensare a un suo maxi progetto cinefilo della memoria di un certo tipo di cinema. Ma siccome non è un cialtrone, o lo è enormemente, ma in un altro senso, non è un proposito ma una realizzazione mattone per mattone. Ma ci rifletteremo. E capiremo tutto.
Non voglio aggiungere niente, per ora – ho il sospetto che la cosa andrà per le lunghe – tranne che Zoe Bell è effettivamente la nostra migliore amica.
La città proibita (Curse of the golden flower) (Man cheng jin dai huang jin jia)
di Zhang Yimou, 2006
Terzo film di una sorta di "trilogia wuxia" prodotta da Zhang Yimou negli ultimi anni e stranamente – ma nemmeno poi tanto – distruibuita dappertutto con tromboni sonanti, è un film in cui la parte più propriamente legata all’avventura e all’arma bianca è estremamemente sacrificata rispetto a un prolungamento estremo del lato melodrammatico barra scespiriano delle vicende narrate.
Che non andrebbe nemmeno male: se Zhang sapesse gestire, non dico alla perfezione ma in qualunque modo, quest’ultimo. Non voglio lamentarmi a voce troppo alta perché il film non è un susseguirsi di violentissimi duelli al ralenti: dopotutto, non sono più un ragazzino. Però, magari, dico io. Invece La città proibita è un film in cui, per vedere una sequenza degna di interesse – quella dei ninja che attaccano la casa del farmacista, sequenza cazzutissima, ma mai quanto il farmacista – devi sorbirti un’ora di sbadigli, sbadiglioni, tende che salgono, tende che scendono, intrighi neri neri e fiorelloni gialli gialli, incesti mai consumati e fellatio mimate col ditino, imperatori che litigano, annunciatori che sbraitano, tende che salgono, tende che scendono, corridoi dorati, corridoi perlati, corridoi dai colori chupachups.
Qualche problemuccio sorge allora nella mia notoriamente limitata pazienza. Vero, la seconda parte del film ribalta tutto: niente più Chow Yun-fat bolsissimo che pontifica e che quando cammina fa il rumore di Santa Lucia, niente più Gong Li che si ferma e riflette e poi spacca qualcosa, oppure che si ferma e riflette e piange, oppure che si ferma e riflette e sta per piangere, non più maree di tette schiacciate in corpetti a distogliere la nostra attenzione dall’assoluto nostro disinteresse per tutto ciò che non ha un capezzolo: finalmente centinaia di morti ammazzati e massacri familiari a risvegliarci dal torpore delle due ore precedenti. Ma è troppo tardi.
Senza dubbio il più debole dei tre, a mio parere. Anche se è un film che può piacere da impazzire – sempre se si è disposti a confondere lo stile con il colore degli arazzi. Certo, se un film ti fa venir voglia di riprendere in mano Hero e ti convince che forse eravamo stati troppo ingentili con quel povero cristo, ecco, fate i vostri conti.