luglio 2007

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[addio]

E’ morto Michelangelo Antonioni.

[adjö]

E’ morto Ingmar Bergman.

Un’impresa da Dio (Evan Almighty)
di Tom Shadyac, 2007

Non lo so che cosa avevo per la testa, quando ho pensato per più di qualche minuto che il sequel di Bruce Almighty (da noi Una settimana da Dio) sarebbe potuto essere un film migliore, o quantomeno decente, solo perché la cosa migliore del film precedente – ovvero Steve Carell, là nei brevi panni di villain – era stato promosso a protagonista. Quando arrivarono i primi teaser ebbi anche il coraggio di pensare "ehi che bello, qui c’è Steve Carell, magari questo non sarà una sequela di sequenze noiosissime inframmezzate da cosette divertenti che però avevamo già visto nei trailer", senza badare al fatto che dietro la macchina da presa c’era sempre quel delinquente di Tom Shadyac. Cosa avevo per la testa?

Se leggiucchiate review e preview in giro per la rete sapete già che Evan Almighty negli USA ha fatto schifo praticamente a tutti: per dirne uno, Richard Roeper l’ha definito "uno dei peggior sequel di sempre" (dando però la colpa all’assenza di Jim Carrey e paragonandolo addirittura ai pazzeschi sequel di Dumb and Dumber e The Mask) e il pubblico, pur riempiendo prevedibilmente le sale, pare abbia fatto molto meno sfaceli del previsto. Quello che forse non sapete invece è che non hanno preso un abbaglio: Evan Almighty è un pessimo film, tediosissimo e prevedibile, che riesce – peggio del suo predecessore – a buttare al vento un’idea carina (il protagonista che non diventa semplicemente "un nuovo Noé", ma che si trasforma letteralmente nell’iconografia classica di Noé), a sprecare il talento del suo attore protagonista, arrivando pure a far risultare antipatica la presenza di gente come Wanda Sykes e John Goodman. Colpa soprattutto di una sceneggiatura raffazzonata e per nulla divertente, tipo "avremo già un monte di soldi senza fare alcuno sforzo, perché sbatterci a scrivere uno script decente?".

Si salvano giusto un paio di sequenze, tra cui chiaramente quella dell’inondazione (spettacolare per essere in una commedia: infatti intorno ad essa tutto il resto suona fastidiosamente pretestuale) o quelle in cui Evan si accorge di non potersi radere o di poter indossare solo la veste biblica a lui assegnata, ma poco altro. Anzi, sinceramente, non riesco a ricordarmi una scena che mi abbia fatto, non dico sganasciare o ridere come avrei voluto, ma anche solo sollevare un sopracciglio, o sorridere. La sensazione che lascia dentro piuttosto è sconforto, e tristezza. E se la cosa più sconfortante e triste è – anche questa volta – vedere Carell buttarsi via così, tutto il resto non scherza.

Nei cinema dal 28 Settembre 2007

[revisionismo]

[Do you think I’ve got cunt written on my forehead?]

E come se non bastasse, c’è pure il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Lo so, oggi ho già scritto due post, non so cosa mi è preso. Clicca e non chiedere.

Disturbia
di D.J. Caruso, 2007

Ci sono post in cui vorrei tagliare corto perché non ne vale la pena, e altri in cui vorrei farlo per la ragione opposta: a volte un film ha il merito di essere quello che è, senza bisogno di trenta righe di spiegazioni, né possibili fraintendimenti. Il nuovo film di Caruso (regista perlopiù televisivo, ma non solo), grande successo negli USA a fronte di un budget decisamente ridotto, è così: partendo da presupposti oggettivamente scontati (quanti simil-remake di Rear window avete visto nella vostra vita?) riesce a costruirci intorno uno spettacolo più che decoroso.

Disturbia è quindi un film molto più appassionante di quanto si sperasse, anche perché, per quanto la soluzione dei singoli frammenti sia sempre la più prevedibile, l’operazione si muove su binari abbastanza differenti tra loro. A sorprendere quindi è il modo (scioltissimo) in cui ci si sposta da un frammento all’altro e in cui questi vengono mescolati. Insomma, la capacità di Caruso di tenere insieme un impianto da thriller (molto) tradizionale, toni da classico teen-movie, tocchi horror non indifferenti (i viaggi nella "tana del lupo"), aiutato dalla notevole freschezza della sceneggiatura (e del lievissimo tratteggio dei personaggi secondari) oltre che – chiaramente – da una gestione della tensione che a tratti inchioda alla poltrona.

Niente per cui gridare Miracolo! Miracolo!, e a volte si ha l’impressione di essere davanti alle principali reti nazionali in un qualunque pomeriggio di primavera (posto ideale per Disturbia, ehm diciamo, tra una decina d’anni?), ma un divertimento così, con premesse simili e senza troppe ambizioni, è assolutamente impagabile. Qualcuno griderà invece Al lupo! Al lupo! per il product placement più sfrontato che si sia mai visto (X-Box, iTunes, iPod, YouTube – tutti con la loro bella interazione, citazione, persino con claim) ma siamo pur sempre per due ore nella camera di un adolescente americano. Suvvia.

Shia LaBeouf, ci piace confermarlo e sottolinearlo ogni singola volta che esce un suo film, robottoni compresi, è davvero uno dei migliori attori in circolazione al momento. E Sarah Roemer è fichissima. E alla fine non ho tagliato corto nemmeno stavolta.

Al cinema dal 17 Agosto 2007

Vacancy
di Nimród Antal, 2007

Chi legge Friday Prejudice sa che non avevo alcuna aspettativa nei confronti di Vacancy, anzi: dopotutto, come si può averne nei confronti di un film di cui sai già praticamente tutto (cosa affronterà e come, prima di tutto) ben prima che inizino i (bei) titoli di testa? In ogni caso, qualche recensione positiva mi aveva incuriosito, e in certe serate di Luglio è più facile avere a propria disposizione settanta minuti che centoventi: così, mi ci sono fiondato.

La sorpresa è che ci sono una quantità di motivi per cui mi ero sbagliato a (pre)giudicare il secondo film del regista ungaro-americano, oltre che per ovvia malafede: il film è sì una sciocchezzuola che non toglie nulla e non aggiunge nulla a una montagna di ritriti cliché del thriller d’assedio e/o del thriller ambientato in hotel isolati nella provincia americana. Tutto sommato però Antal possiede un ottimo senso del ritmo (che compensa la pochezza della sua ironia), azzeccatissima e sottilmente perversa è l’idea di un traffico di snuff-movies dove la vera merce è la paura e non la morte, e la scelta di compressare il tutto in un tempo così ristretto non permette al fastidio di fare capolino, se non per le scazzatissime performance di Luke Wilson e Kate Beckinsale.

Ci si diverte. Con moderazione, ma è innegabile. Certo, ti fa venir voglia di riprendere in mano Feast e appenderlo al muro come una reliquia, ma – tarallucci e vino a parte, e qui vorrei fare due chiacchiere con lo sceneggiatore, "ma che ti è preso, dannazione?" – non c’è niente che me lo faccia condannare. Probabilmente è solo la fascinazione dovuta a Frank Whaley con baffi, occhiali e capelli a spazzola, irriconoscibile e spettacolare. Probabilmente sì.

[auf wiedersehen]

E’ morto Ulrich Mühe.

Cashback
di Sean Ellis, 2006

Il film d’esordio del trentasettenne regista di Brighton è tratto dal suo secondo cortometraggio, omonimo, che era niente meno che nella cinquina del Best Live Action Short Film agli Oscar dell’anno scorso. Che sia tratto da un cortometraggio, o meglio che sia la versione allungata a dismisura del suddetto, si capisce già da un aspetto – a volte ovvio, in casi simili: ovvero, se un film funziona (e piace) in 18 minuti, sulla lunga distanza può essere incapace di reggersi in piedi a dovere. Il tentativo è ammirevole, ma i risultati sono quello che sono, e pochi hanno gradito.

Tutto lasciava sperare per il meglio: il trailer era più che invitante, e l’idea di base molto forte: il protagonista è un giovane, aspirante pittore con delle idee bizzarre sulla relatività del tempo, che lasciato dalla ragazza e divenuto insonne "baratta con denaro" le otto ore in più che si è ritrovato sul groppone facendosi assumere nel turno di notte di un Sainsbury. La privazione del sonno arriva a fargli credere – o capire? – che il tempo si può letteralmente fermare e rallentare a piacimento, per cogliere la bellezza del mondo. Magari tirando su la maglia alle simil-modelle che infestano il supermercato e fermandosi a dipingerle: e chi non ci vorrebbe lavorare, con una clientela simile?

In effetti la prima parte del film è davvero interessante: il beffardo incipit al ralenti con Casta Diva di sottofondo, per dire, è stupefacente. Ma purtroppo con l’avanzare dei minuti – ahinoi terribilmente lenti, alla faccia della relatività appunto – le idee di Ellis si diradano sempre più, fino a lasciare il film preda delle velleità artistoidi e/o tardo-pubblicitarie del suo autore, di siparietti comici che fanno ben poco ridere, e di almeno due sequenze (quella del calcetto e quella della festa) insensatamente lunghe e inutili. La faccia da pesce lesso di Sean Biggerstaff (già visto nei primi due Harry Potter) non aiuta di certo.

Un vero peccato, ma ha le carte per conquistare la sua fetta di pubblico adorante. Staremo a vedere.

Se anche è probabile che esca prima o poi dalle nostre parti (è stato presentato alla Festa di Roma), per ora di più non so. Se vi va, nel frattempo potete trovare il corto originale qui.

[paura, eh?]

Come quelli che non leggono questo blog solo dai feed avranno sicuramente notato, c’è un nuovo template in città. Per difendermi dalle giustificabili critiche che quest’ultimo sta ricevendo, posso dire solo che è un work in progress, ma necessario per ottenere una serie di miglioramenti, tra cui:

  • comprimere l’archivio;
  • rimpicciolire e riordinare i famosi "bottoni";
  • implementare alcuni widget (socialfuffa) relativi ai prolungamenti del blog stesso, oltre a uno (meebo) che permette di contattarmi in tempo reale;
  • isolare dai tag (perlopiù "nazionali") le cosiddette "rubrichette";
  • selezionare un blogroll più ristretto e snob, lasciando comunque un link ulteriore a molti dei blog che consulto quotidianamente;
  • lasciare solo la mia mail principale (gmail) e i feed corretti (feedburner);
  • cambiare un po’ aria, che fa sempre bene.

Mi rendo conto che l’impatto non è dei più felici, soprattutto per chi fosse abituato a un blog quasi immutato da anni. Ma lo ripeto, è un work in progress, e durante questa settimana potrà cambiare, anche sostanzialmente. Per questo, è importante per me capire cosa va e cosa non va di questo, per poterlo migliorare.

Tenendo conto che i contenuti saranno sempre gli stessi perché io sono sempre lo stesso, vi invito quindi a contattarmi, come già alcuni hanno fatto, indicandomi le vostre osservazioni ed eventualmente i vostri insulti: niente passerà inosservato.

Vi ringrazio del vostro prezioso supporto.

[UPDATE]

Alla fine ho optato per un template molto più semplice, ho scelto di allargare il corpo dei post e di tenere solo una colonna. Ho seguito molti dei vostri consigli, ovviamente non tutti (perché era impossibile) ma vi ringrazio comunque dell’aiuto.

Spero che vi piaccia.

[+ uomini nudi]

Bastardo? TUA MADRE.

Ritardatario, ma c’è: il 78° episodio di Friday Prejudice.

Harry Potter e l’Ordine della Fenice (Harry Potter and the Order of the Phoenix)
di David Yates, 2007

Ogni volta che scrivo qualcosa sui film di Harry Potter mi sento in dovere di precisare subito che non sono un lettore dei libri da cui sono tratti, e che il mio approccio ai film è quindi esclusivamente cinematografico: i fan della Rowling sono spesso inviperiti sull’argomento "adattamento" – soprattutto quando si tratta di un capitolo così (dicono) complesso – ed è bene mettere i puntini sulle i prima di ritrovarmi una molotov nel finestrino. L’altra cosa che mi sento di dire è che, finora, il percorso dei film potteriani mi ha lasciato molto soddisfatto: un inizio divertente (Columbus), un brutto capitombolo (ancora Columbus), una ripresa spettacolare (Cuarón) e un quarto episodio (Newell) davvero bellissimo, forse il migliore dei quattro.

Affidare la regia di questo (e del successivo) a una firma meno conosciuta e dal potenziale "personalizzante" molto inferiore quale è David Yates è una scelta che non condividevo già in partenza, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: l’epopea del giovane mago si riappiattisce e si "normalizza" un po’, Yates (e Michael Goldenberg) mostrano troppa fretta, e per tenersi sotto le due ore e mezza si bruciano in pochi secondi alcune sequenze madri su cui avrebbero potuto invece concentrarsi (cose che non cito per evitare spoiler) e tralasciano gli spunti più dark proposti da Cuarón girando una versione molto meno ricca e originale del gustosissimo teen-fantasy che fu Il calice di fuoco.

Nonostante questo, però, la saga di Harry Potter continua ad essere un oggetto onestissimo, abbastanza bizzarro dal punto di vista produttivo e ricettivo (stiamo pur sempre parlando di una saga di sette film sette senza alcun calo di interesse dall’una o dall’altra parte), ma che, se nel contesto del cinema per ragazzi (anche se il culto sarebbe troppo esteso e massificato per poterlo restringere in quel campo) ha davvero pochissimi pari, in quello del cinema di intrattenimento è sempre una bella ventata d’aria fresca. E c’è un signor combattimento finale (Obi Wan vs Darth Vader?). E c’è Imelda Staunton, che sarà pure un tantinello macchietta ma nel ruolo della prof rompicoglioni funziona alla perfezione.

Anche se l’età (e i muscolacci) di Daniel Radcliffe e Rupert Grint cominciano ad essere sospetti, e anche se la crew del film tratta L’ordine della Fenice come una mera opera di passaggio (ricavandone, guarda caso, uno degli esempi recenti più lampanti di film di transizione), il divertimento – fanciullesco e giocoso ma mai cretino né infantile, anzi, con un occhio sempre più attento ad una generazione che tende a sfuggire di mano ai più – il divertimento, dicevo, non manca affatto.

Starter for ten
di Tom Vaughan, 2006

Scritto da David Nicholls a partire da un suo stesso romanzo omonimo (edito in Italia da Sonzogno con il titolo Le domande di Brian), diretto da un regista televisivo al suo esordio con un vero lungometraggio "per le sale", e prodotto niente meno che da HBO e BBC, Starter for ten è una commedia ambientata nella Bristol University della 1985, in cui la matricola Brian si divide tra la passione per University Challenge (popolare quiz televisivo in cui le università si sfidano su domande di cultura generale) e gli inevitabili problemi amorosi.

Starter for ten è, come ogni "period comedy" che si rispetti, infarcita della cultura che cerca di riprodurre: basterebbe guardare la colonna sonora, che riesce a piazzare dappertutto mezza discografia dei Cure (ma tutti pezzi sputtanatissimi, per dire, sui titoli di testa c’è Boys don’t cry). Ma il film di Vaughan e Nicholls riesce, con uno sforzo evidente, a fare un passo oltre, e nella giusta direzione: ovvero, riprodurre fedelmente quel tipo di commedia che in quel decennio spopolava e che – così – forse non si fa più.

C’è tutto, dalla contrapposizione socio-culturale di base (città vs provincia: Brian è un "proletario" capitato nel cuore di una famigerata intellighenzia bristoliana, e per questo deve vedersela con conflitti interiori, familiari, amicali, eccetera) a quella sentimentale, con la bionda spregiudicata e più tradizionalmente "bòna" e la mora più sensibile, sfortunata e politicamente impegnata. In più, metteteci la trama, il suo sviluppo, il modo in cui i nodi si attorcigliano e inevitabilmente si sciolgono, la somiglianza di James McAvoy con Andrew McCarthy e di Rebecca Hall con Molly Ringwald, e avrete, più o meno, una commedia degli anni ’80, à la John Hughes per capirci, anche se britannicamente declinata.

Al di là di considerazioni strutturali (ben più interessanti di un giudizio di merito, in questo caso), Starter for ten è un film leggero leggero, e piacevolissimo. Deliziosamente ingenuo: ma è proprio per questo che gli si è voluto bene. Non credo che lo vedremo da queste parti: dategli un’occasione. Sapete voi come.

Still life (Sanxia haoren)
di Jia Zhang Ke, 2006

Riassunto delle puntate precedenti: alla Mostra di Venezia 2006 il film viene presentato a sorpresa, ma in Concorso. La maggior parte degli avventori del festival non vanno nemmeno a vederlo. Il film vince il Leone d’Oro. Segue la tradizionale proiezione supplementare, in questo caso strapiena. Io ci entro, sono in fondo alla sala, vedo un’oretta di film, ma undici giorni di festival mi hanno ridotto a uno straccio, non sono in grado di apprezzarlo né di capire granché, e così esco dalla sala.

La cosa che più lascia stupefatti di Still life è il modo in cui Jia è riuscito con coerenza a fondere i linguaggi narrativi e quelli del documentario. Anzi, meglio: che Jia si sia reso conto che l’unico modo per documentare quello che sta accadendo nel suo paese a causa della Diga delle Tre Gole fosse di tradurlo in narrazione, di trasformare il seppellimento della Civiltà, la lotta finale, terminale, tra il Progresso e la Storia in una ricerca frustrante, affannosa, e apparentemente disperata.

Con un lentezza programmatica che però difficilmente si trasforma in noia, una gestione dei dialoghi di impressionante asciuttezza (solo alla protagonista è concessa una voce rotta, e solo per un istante, il resto è brechtiano fino all’esasperazione), affascinato da visioni che spezzano il realismo creando improvvisi straniamenti alieni, Jia riscrive sui corpi dei personaggi – e sulle case segnate da improrogabili condanne di gesso  – l’incombenza dello Yangtze, quello stesso ritmo catatonico e ineluttabile con cui il nuovo fiume ricoprirà le città e la loro storia.

In questo mondo che viene demolito, appiattito, per divenire rovina atlantidea, si muovono due personaggi che sanno che quella, forse, è l’ultima speranza per mettere quelle due o tre cose a posto. Prima che l’acqua, vita e morte, invada tutto e tutto si divori. Davvero un bellissimo film: dispiace averlo recuperato, e riscoperto, così in ritardo.

[e la chiamano estate]

Samoani, su Friday Prejudice.

Hostel 2
di Eli Roth, 2007

Sapete, avrei voluto scrivere due o tre righe su questo sequel del film del 2005, magari confermando i miei pregiudizi (molto negativi), e liquidando il tutto con un "chi se ne frega". Il problema con Hostel 2 non è che il film mi abbia positivamente scioccato, ma che – al contrario del primo – qui ci sarebbero davvero un sacco di cose da dire. Se Hostel 2 non è infatti ancora un "buon film" – perché basato su un approccio che sa essere "sanguigno" solo per vie traverse – di sicuro è più interessante e stimolante del precedente.

Mi sento di condividere molto di quanto scritto dall’amichetto Gozu, anche se forse in modo persino meno entusiasta, ma il punto è quello: Eli Roth spinge su entrambi i pedali, sia nel versante "cazzone" del suo cinema (mi si perdoni il termine, ma lo trovo appropriatissimo), sia nel versante più serioso e dalle tendenze socio-metaforiche, cosa ben evidente già dai tempi di Cabin fever. Così, quando il film vuole essere scemo è scemissimo (vedasi tutta la parte conclusiva, con tanto di dettagliata evirazione – sì, GLI TAGLIA IL CAZZO, E LO DA’ IN PASTO AI CANI – e partitella finale con la testa della troia slovacca come pallone, o il gustoso cameo, ovviamente cannibalesco, di Ruggero Deodato), poi tutto d’un tratto diventa cupo e serissimo, e cerca di dire cose quantomeno credibili sul potere eccetera eccetera. Inutile sottolineare quale delle due cose venga meglio all’amico sylariforme di Quentincoso, e quale gli venga davvero maluccio.

Tutto l’apparato gore invece non fa né caldo ne freddo, se avete visto almeno due o tre horror in vita vostra,. Magari, ecco, la doccia di sangue dà qualche brivido – ma non per il sangue in sé, suvvia, bensì perché vi era coinvolta la nostra amata Heather Matarazzo. Però, tutto sommato, Roth riesce a fare un passetto avanti rispetto al suo passato recente, la tiene bella corta, non stufa troppo, e azzecca – non so nemmeno io come – almeno due sequenze da manuale: una è quella dell’asta, l’altra è quella della "educazione morale" dei ragazzini slovacchi.

Dimenticandosi tutti le solite stronzate sull’Est Europa e soprattutto la tremenda macrosequenza ambientata in Italia (che però può colpire con la sua impressionante imbecillità soltanto noi italiani, almeno credo) e abbassando le pretese al massimo, me la sono abbastanza goduta. Perdonabile.

[voglio solo limonare, limonare limonare]

sì, ho visto Harry Potter e l’Ordine della Fenice
no, non ne scriverò subito, ho altri 2 post in attesa
(ma non ho saputo resistere
)

Queer Duck: The Movie
di Xeth Feinberg, 2006
[COERCIZIONE! - S01E01]

L’altra sera ero in compagnia di alcuni amici e mi sono ritrovato a spiegare a grandissime linee cosa fosse Queer Duck, rendendomi conto che raccontare le singole scene è quasi più divertente che guardarlo. Basta pensare ai personaggi che lo popolano: oltre all’eponimo papero c’è il suo compagno, l’emotivo cameriere Openly Gator, e gli amici Bi Polar Bear e Oscar Wildcat. Per farvi capire: quest’ultimo gestisce un negozio di memorabilia di Shirley Temple, tra cui Shirley Temple stessa, rinchiusa in una teca di plastica , che vuole disperatamente uscire ma viene zittita. Lo so, adesso volete vederlo anche voi.

Ma è inutile che mi nasconda dietro falsi snobismi: il film dura 70 minuti e io ho riso come un cretino per 70 minuti. Poi, la comicità sarà pure pseudo-televisiva (dopotutto il film è tratto da un cartoon in Flash trasmesso sulla liberissima Showtime), sarà pure frammentario, spezzettato e punchline-based quanto volete, ci saranno pure tutti i luoghi comuni sui gay elencati come fosse la lista della spesa, però funziona. Il ritmo è indiavolato, le citazioni e i camei (veri o falsi) davvero non si contano, e ci sono un sacco di assurdi numeri musical. Tra cui uno di un terzetto femminile bepop, ispirato alla masturbazione.

Fermi, fermi, devo dirvene un’altra. Poi smetto, promesso. C’è la statuina di Gesù che nel finale si paracaduta svaccata su una sdraio con gli occhiali da sole e IL GRAAL in mano, e a mezz’aria dice "Ehy, I’m Jesus" con la voce di David Duchovny. Lo so, è talmente bello che non sembra vero.



Questo post è relativo a COERCIZIONE!, la bellissima rubrichetta che ormai più di un mese fa ha conquistato i cuori di voi fanciulli e fanciulle. Mi scuso per il ritardo, ma è stato un periodo particolarmente crudele. Comunque, dovevate farmi vedere un film orrendo e avete scelto questo? Beh, grazie.

Spider-man 3
di Sam Raimi, 2007

Una volta realizzato che non sarei riuscito a vedere il terzo film della saga in una sala di prima visione, e che praticamente chiunque (o quasi) gli si era solennemente scagliato contro (almeno in senso relativo), in quei giorni mi ero messo a leggere quanto più possibile a riguardo, almeno per convincermi che non stavo perdendo nulla di che. Ma non avevo capito come fosse potuto accadere, e in che forma, ciò che veniva descritto nei post che parlavano del film. Non erano cose belle, per capirci.

Ritrovatomi finalmente di fronte al film stesso, ho potuto constatare con i miei occhi cos’era accaduto, o almeno una sua interpretazione: se Spider-man 3 non è forse davvero il più brutto sequel possibile del magnifico Spider-man 2 (e cercherò in seguito di dire brevemente perché, forse per capirlo io stesso), quello che viene dimostrato di certo è il desiderio di Raimi di scartare di lato il racconto superomistico come ci viene presentato dal cinema negli ultimi anni, in modo non dissimile – anche se il confronto non regge – dal metodo applicato da Newell al "suo" capitolo della saga di Harry Potter.

Insomma, se Spider-man 2 era stato forse il punto più alto di un determinato modo di fare cinema-fumetto negli Anni Novanta e soprattutto negli Anni Zero, con questo film Raimi dà un’evidente sterzata, e cerca di fare qualcosa di vistosamente opposto. Piaccia o meno: e infatti la scontentezza è di molti, ed è anche del tutto comprensibile. Perché il grosso problema del film che hanno descritto in moltissimi – non faccio che ripeterlo per unirmi alla mischia – sussiste eccome: ed è la sua totale incapacità a gestire la quantità di materiale presentato, in un turbinare eccessivo di personaggi, situazioni, cattivi, evoluzioni, ripensamenti, eccetera. Ce n’era per almeno altri due film, e la sensazione di tutta la prima metà, talmente palpabile da sfiorare l’evidenza, è quella di un film – usando una suggestione più che una descrizione – completamente privo delle sequenze di raccordo. Le scene ci sono tutte, ma il modo in cui sono separate tra loro lo fa assomigliare perlopiù a un lunghissimo (e noioso) trailer di un’intera saga.

Finché Parker non cambia pettinatura e se ne va in giro per la strada a fare il deficiente, mettendosi il ciuffo davanti agli occhi e sparando alle ragazze con le dita: è proprio in quella sequenza che ti rendi conto che Raimi non sta sbagliando affatto. No, Raimi lo fa apposta: il tono strafottente di tutta l’operazione è troppo sotto gli occhi di tutti per non essere programmatico. A questo punto, bisognerebbe scegliere da che parte stare. Oppure non scegliere affatto, come faccio io nel mio risaputo cerchiobottismo. L’importante è lasciare a casa le proprie aspettative su quello che Spider-man 3 avrebbe potuto o sarebbe potuto essere. Quella straziante epopea dark di cui rimane quasi solo il volto mostruoso di Venom e il malinconicissimo abbraccio finale.

L’altro argomento discusso è la fortissima tentazione dei fratelli Raimi (Sam con Ivan che co-sceneggia) a spostare il baricentro del film dai dilemmi tragici dello sdoppiamento, della scelta, del sacrificio, dell’arbitrio, del perdono, eccetera, a problemi ben più terra-terra, che ne fanno una sorta di via di mezzo tra uno sceneggiato "in costume" per teen-ager e un horror adulto dai contorni semi-auto-parodistici: il dramma vero è che dei dilemmi sentimentali di Peter Parker ci interessa davvero poco, la sublime Kirsten Dunst è ridotta all’insopportabile macchietta di una postadolescente (così come Bryce Dallas Howard, poverina), tutto il tempo risparmiato nel modo descritto sopra viene sprecato nelle ritrite sequenze sentimentali (però la comparsata di un Bruce Campbell che sembra John Cleese la salviamo anche qui, applaudendo) (nota a margine: niente contro le sequenze sentimentali di per sé, ma contro quelle ritrite sì, appunto), e passare dall’incredibile e cupa solennità del capitolo precedente a Parker che se ne va in giro per la città a fare il fonzie in versione emo ci fa un po’ male.

Ciò nonostante, a difesa del film ci sono diverse cose: la prima è che Raimi invece che appiattirsi su crismi action hollywoodiani (come fa in realtà con tutto il combo combattimento finale, e ben venga a quel punto) dimostra un coraggio incredibile, o se volete una notevole spavalderia. Perché propinare questa roba, quasi indigeribile per una buona metà (la prima), e probabilmente solo per dimostrare di avere ancora una personalità di fronte alla critiche (di pochi, in realtà) ci vogliono dei voluminosi testicoli, ed è difficile non provare simpatia per uno che ha trasformato un film quasi impossibile da sbagliare in un oggetto così assolutamente squilibrato e bizzarro.

Infine, problema mio, non riesco ancora a provare disgusto per l’impianto estetico-spettacolare che Raimi è riuscito a infondere alle (si diceva qualche anno fa) irrappresentabili avventure dell’uomo-ragno: quello sì assolutamente coerente con i due film precedenti, e ancora decisamente appassionante. Nonostante zia May e tutto il resto, tutto sommato ci si diverte ancora. Ma siamo sul filo, sul limite: e non possiamo negare che, alla fine di tutto, qui si era piuttosto imbestialiti, almeno per le potenzialità bruciate. Con affetto, si intende, ma sempre imbestialiti.

[grosso cane]

(post in attesa)