agosto 2007

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[alito]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Gratis!

Blades of glory
di Josh Gordon e Will Speck, 2007


"They’re laughing at us."
"Hey. They laughed at Louis Armstrong when he said he was gonna go to the moon. Now he’s up there, laughing at them."

Accade una strana cosa, in Blades of glory, a costo di considerarlo il "capitolo terzo" nella virtuale trilogia ferrelliana iniziata da Anchorman e Talladega Nights: e cioé che la regia, tolta ad Adam McKay e data in mano a due persone perlomeno capaci di gestirne vagamente i ritmi, rischia di rovinare tutto proprio perché lo professionalizza. Che brutta parola. Gli altri due film erano deliziosi – ok, prima di tutto per tutti i caratteristi e le figure di contorno, dico, nel primo c’era Steve Carell che urlava "Loud Noises!" e nel secondo il vecchio rimbambito che urlava "He had a beard!" – ma sto divagando – erano deliziosi anche perché era proprio il loro ritmo catatonico e sornione a rendere tutto (paradossalmente, deh, ancora non me lo spiego) così incisivo.

Poco male, comunque, perché Blades of glory è ancora un film davvero divertente: Will Ferrell, se lasciato a briglia sciolta in questo modo (altrimenti, apriti cielo) è sempre eccezionale, Jon "Napoleone Dynamite" Heder è una spalla apprezzabile – anche se a volte sembra un Owen Wilson senza fascino, considerazione scevra da qualunque riferimento alla cronaca recente, ché sono un po’ cazzi suoi – ma sto divagando – e Jenna Fischer – che poi è quella che nel The Office americano fa il ruolo che in quello britannico è della Nostra Sempre Adorata Lucy Davis, il che fa automaticamente di lei come di chiunque si sottoponga al ruolo di "Dawn di The Office" una sorta di versione un tantino asessuata della Donna Dei Nostri Sogni, e figuriamoci Lucy Davis, appunto, e in Studio 60 poi, non ti dico – ma sto divagando – Jenna Fischer, dicevo, è una roba.

L’impressione, o il rischio se vogliamo, è che queste siano le ultime cartucce che Ferrell, ormai inchiodato a una formula di successo – e non parlo di pubblico, parlo di rendere narrativamente vendibile questa roba qui di loro che ballano sul ghiaccio vestiti di lustrini e fanno il finale del balletto con la forbice, sì, ho detto proprio la forbice – ma sto divagando – le ultime cartucce che Ferrell ha da sparare prima di una relativamente precoce demenza senile. Il fatto che osino usare la bella faccia di William "Inchioderò Michael Scofield anche a rischio di rendere poco credibile il mio personaggio" Fichtner e poi me lo lascino fuoricampo a imputridire non è un buon segno. Oppure.

Tutto quanto scritto finora è a uso e consumo di quelli a cui interessi in qualche modo il tessuto sottostante i film con assoluto protagonista – tanto che il suo nome prima del titolo, e il Signor Heder che è teoricamente il vero protagonista del film no, come ai bei tempi del Joker di Nicholson, ah bei tempi quelli – ma sto divagando – insomma, i film con il Signor Will Ferrell. Per chiunque trovi invece ridicola la stessa idea di usare il termine "ferreliano" come ho fatto al the very inizio di questa pappardella, leggete il prossimo paragrafo e basta.

Ehi, guarda qui! Guarda qui! Senza mani! Basta dire questo: qualunque scena di questo film in cui Heder e Ferrell discutono, e dico una a caso, rende il film assolutamente imperdibile.

"The night is a very dark time for me".
"It’s dark for everyone, moron!"
"Not for Alaskans or dudes with night-vision goggles"

[nel frattempo, altrove]

E fate un saluto a zio Tim da parte mia, voi che potete.

Bastardi.

I Simpson – Il film (The Simpsons Movie)
di David Silverman, 2007

Quello che ricorderemo maggiormente del film dei Simpson, probabilmente, è l’attesa: anni di voci di corridoio, anni di tentativi e rinunce, anni di preparazione e lavorazione, parecchi mesi dal teaser trailer all’effettiva uscita. Ma tutta questa attesa deve portare per forza a un risultato che ne sia il mastodontico equivalente quantitativo? Davvero ci aspettavamo che un film simile, mero coronamento di 18 anni di presenza televisiva indefessa, potesse essere anche un Vero Capolavoro?

Personalmente, credo che la risposta sia negativa: non tanto perché il film, qualunque cosa ne fosse uscita, sarebbe stato in ogni caso indulgente verso se stesso almeno quanto noi spettatori (se non di più), ma per una questione di formato – ovvietà tale che non vale la pena di sottolinearla oltre. Quello che ci si poteva aspettare, semmai, era un lungo, lunghissimo episodio della serie. E in sedici:noni. La speranza, piuttosto, era che fosse tra gli episodi migliori, quelli che anni fa ci avevano fatto amare incondizionatamente la famiglia (e tutta la città) di Springfield, e non tra i peggiori (o "meno riusciti", passatemela), quelli che negli ultimi anni ci hanno fatto allontanare versi altri lidi, ben più soleggiati.

Ma di fronte al fatto compiuto, a film terminato, l’effettiva succosissima soddisfazione delle nostre più sfrenate fantasie che il film effettivamente è (sia per la trama sci-fi post-apocalittico che per una percentuale approssimativamente totale di gag riuscite – e chi l’avrebbe detto?) passa in secondo piano, soprattutto dopo il plebiscito in patria che l’avevano resa più scontata. La verità è che il primo – e presumibilmente ultimo – lungometraggio dei Simpson riesce a spingersi oltre: e cioé, a riconciliarci quasi completamente con la serie creata da Matt Groening, come se fosse un vecchio amico che non rivedevamo da tempo. Viene voglia di recuperare gli episodi perduti. Quelli visti e rivisti cento volte. Cose così.

Di fronte a questa incredibile freschezza e a questo ritmo indiavolato, a questo leggero ma ineccepibile senso della satira e della citazione cinefila, viene il dubbio che le energie di Groening e soci negli ultimi tempi fossero davvero concentrate tutte qui, e messe da parte nella serie. Che manchi un qualche bilanciamento, tra i due formati: che ne sarà dell’attesa, appunto, per i nuovi episodi? Tanto più che il film, con i suoi striminziti ottantaminuti, a molti apparirà – come era prevedibile – lungo quel tanto di più da essere facilmente definito eccessivo. Questione di abitudine simpsoniana, forse. Ma poco importa, per quanto mi riguarda: se non avessi di meglio da fare, l’avrei riguardato a ripetizione per tutta la notte.

E Spider-pig è la canzone dell’anno.

Nei cinema dal 14 Settembre 2007

Scrivimi una canzone (Music and lyrics)
di Marc Lawrence, 2007

Non avrei pensato di aver potuto difendere un film – che infatti a suo tempo evitai, e trattai malissimo in altra sede – diretto dal regista e/o sceneggiatore di alcune tra le più insulse commedie degli ultimi 10 anni, e c’era ben poco che mi interessasse al di là del revival spinto degli anni ’80 e della Nostra Sempre Amata Drew Barrymore.

Music and lyrics avrà i suoi problemi, avrà una struttura risaputa in cui momenti i momenti di attrito sono così forzati che si tende, per una volta, a desiderare che vada tutto sempre e soltanto bene, avrà un ritmo poverissimo e in gran parte privo di mordente, ma è un film di impalpabile piacevolezza, che parte benissimo – con la trovata spassosa e furbissima (perché inevitabilmente viral) del videoclip à la Wham! – e che continua anche meglio, facendosi forza sugli ottimi dialoghi, messi soprattutto in bocca a un Hugh Grant spaventosamente in ruolo.

Niente di rivoluzionario, anzi: ma di sicuro una commedia che si è vista un po’ per forza e che si è terminata con un sorriso grande così sulla faccia. Non lo so nemmeno io, certe sere butta così.

Aasif Mandvi Santo Subito.

The protector (Tom Yum Goong)
di Prachya Pinkaew, 2005

Spiace dover aspettare a parlare del film per mettere chiarezza sul trattamento che al film stesso è stato riservato, ma è necessario: Tom Yum Goong ha subito grossi tagli "autorizzati" per la distribuzione internazionale (la versione "europea", curata da Pinkaew, è più breve e meno violenta), ma quello compiuto dalla Weinstein Company per l’uscita negli USA è un vero e proprio stupro che ha accorciato il film di mezz’ora, modificandolo profondamente nelle sue linee artistiche, narrative, e persino morali: potete leggerne accuratamente qui.

Al momento, non mi è dato sapere quale sia la versione distribuita in Italia ma, da alcune voci giuntemi dalle sale, è fortissimo il sospetto che sia proprio l’orrida versione americana. Bisogna tenere quindi conto che vedere The Protector può essere un’esperienza molto diversa a seconda della versione che ci si trova tra le mani. Indispensabile, da parte mia, recuperare quella originale (lunga 108 minuti e parlata sia in inglese che in thailandese), e di quella parlerò.

Detto questo, il film. Chiunque abbia visto Ong-bak (il film precedente di Pinkaew) sa cosa aspettarsi, approssimativamente: ovvero, un film scritto sul corpo sovrannaturalmente atletico di Tony Jaa, intorno a cui il resto appare come un mero pretesto, e nemmeno dei migliori. Ma – oltre al fatto che basti Jaa a tenere in piedi il film, e lo fa, il che non è affatto poco – la regia di Pinkaew, oltre a essere tecnicamente su un altro livello, è innegabilmente molto più consapevole che nel film precedente, sfrutta ogni movimento di Jaa a suo vantaggio, continuando a rifiutare i "trucchi" del montaggio e mettendoci pure dentro (forse inconsapevolmente, ma l’impressionante e ormai notissimo piano-sequenza sulle scale fa pensare esattamente il contrario) una riflessione autogenerante sullo stesso modo di rappresentazione della lotta.

Non si arriva comunque a cose come una trama vera (c’è più una concentrazione sui moventi che non una decorosa consequenzialità), un ritratto completo dei personaggi coinvolti (anche se il villain transessuale è davvero un colpaccio, e forse meritava più spazio), un controllo totale dell’operazione che prescinda dai balletti di Jaa (ne è dimostrazione l’imbarazzante sequenza onirica animata in un preistoricissimo 3D), e The protector è pur sempre un film in cui un tizio spezza le braccia a tutti i 100 tizi che lo assalgono uno alla volta perché gli impediscono di piangere il suo elefante morto.

Ma di roba così, in giro, ce n’è sempre meno: The protector è un film dove fai sanamente il tifo per il protagonista, e ti sbracci e urli verso lo schermo sperando che li atterri uno per uno, fino alla risoluzione finale. Ed è quasi tutto merito di Tony Jaa, che combatta contro il gigantesco Nathan Jones oppure contro una trentina di teppistelli armati di bici e pattini. Uno come Tony Jaa (che non per niente "sbatte" letteralmente contro Jackie Chan all’aeroporto di Sidney) dobbiamo tenercelo stretto. Quando non mettere delle icone pagane del suo corpo danzante nella nostra cameretta, e adorarlo come un dio.

[it's the Fuzz!]

Learn more, on Friday Prejudice‘s 83rd episode.

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Che tanto è in italiano.

Die Hard – Vivere o morire (Live free or die hard)
di Len Wiseman, 2007

K – Ora la mia missione nella vita è diventata saltare da un jet senza pilota su uno scivolone di cemento.
V – Ma anche "saltare da un camion a un jet" non e’ male. Ma anche "decidere di abbattere un camion con un jet". Ma anche "decidere di risolvere ogni problema lanciandogli addosso una macchina". Tipo: devo uccidere una dentro un ascensore? Gli lancio contro il pickup. Voglio un film dove si lanciano macchine come biglie.

(da una chat con Valido, 30 Luglio 2007)


Dopo tre settimane, non me lo ricordo poi così nel dettaglio, Die Hard 4.0 (azzeccato titolo per il mercato britannico), ma quello che non posso dimenticarmi è che mi sono divertito come un matto: la mia paura era che la saga, dopo la saldissima tenuta degli ormai leggendari (in un modo o nell’altro) primi tre capitoli – grazie alla mano di John McTiernan nel primo e nel terzo e di Renny Harlin in Die Hard 2, l’unico film imprescindibile che l’ex marito di Geena abbia mai diretto – cedesse completamente vedendosi affidata al regista di uno dei titoli più imbarazzanti degli ultimi anni.

Ma evidentemente il problema di Underworld era altrove, oppure Wiseman ha dei santi in paradiso, perché qui sembra un’altra persona, per il modo in cui riesce a padroneggiare alla perfezione il ritmo e – soprattutto – il tono della saga di Die Hard, mentre dall’altra parte lo sceneggiatore Mark Bomback fa un buon lavoro di aggiornamento sul personaggio di John McClane, aggiungendovi una giusta dose di malinconia e disillusione, ma senza che il Nostro perda un briciolo del suo fascino. Tanto, a quanto pare, non è che si debba sforzare più di tanto. Justin Long, risaputa spalla cazzoncella, è simpatico e fa il suo bel mestiere.

Tutto è ovviamente elevato alla n, in una escalation distruttiva che ha davvero pochi eguali (e che a volte non può non suscitare affettuose risatine di scherno, ma fa parte dei divertimento), ci si sgancia subito e con troppa facilità dalla linea narrativa dei capitoli precedenti (come se fosse uno spin-off – un vero sequel forse sarebbe stato più interessante?), e certamente è necessaria una notevole sospensione dell’incredulità.

Ma il problema vero – quelle sono inezie – è semmai in uno dei punti-chiave di un film simile, che anche altrove ha creato non pochi problemi (penso a M:I 2, per esempio), ovvero il villain: il "cattivo di turno", intepretato dal non-più-ggiovane Timothy Olyphant, è qui una figurina davvero inconsistente, quasi bidimensionale, soprattutto di fronte alla gigantesca spocchia eroica del detective McClane. Ma di fronte a un tale incontrollato divertimento, con mezzi di trasporto sempre più grossi e rumorosi che fanno cose sempre più grosse e rumorose, e davanti a Bruce Willis che massacra di calci e pugni Maggie Q (e non solo, ah!, non solo), si perdona questo e altro.

Se siete tra quelli che abusano del brutto e desueto termine "americanata", astenetevi e basta. Fate finta di niente. Lo spirito giusto, invece, è proprio quello volere "un film dove si lanciano macchine come biglie". Perché qui siamo a tanto così. Se saprete adattarvici, avrete davvero di che divertirvi.

E poi, dai, c’è uno dei rarissimi casi di "l’unico hacker al mondo che possa riuscirci è X" che abbia un briciolo di credibilità. E lo interpreta Kevin Smith. Mica la cippa.


Nei cinema dal 26 Ottobre 2007

Surf’s up – I re delle onde
di Ash Brannon e Chris Buck, 2007

Nell’avvicinarmi cautamente al nuovo film d’animazione della Sony Pictures Animation, tutto avrei pensato tranne di potermi riappacificare con essa così in fretta dopo il loro disastroso esordio (Open Season, da noi Boog e Elliot), tanto più dopo aver espresso più volte la mia noia nei confronti dei film d’animazione basati sulla pucciosità degli animaletti protagonisti (che è un po’ come dire, sul mondo delle fiabe). E invece.

Il film di Brannon (che è un ex-Pixar, era co-regista del magnifico Toy Story 2) e Buck trova nel mockumentary – le cui regole vengono rispettate per almeno due terzi del film, quando non si cede al racconto tradizionale: ma è già molto – una formula assolutamente funzionale al suo lievissimo raccontino morale, che riesce a rendere più fresca e divertente una struttura che altrimenti saprebbe di tappo e per di più scansa il rischio di sbattere la faccia contro lo spinguinamento generale di questi ultimi mesi/anni – di cui il godurioso Happy Feet rimane comunque il leader incontrastato.

Non inventa niente, Surf’s up, ma si fa vedere più che volentieri, è ben animato, ha un ritmo invidiabile, e – per quanto concerne il doppiaggio originale – Jon "Napoleone Dynamite" Heder nel ruolo del pacifico galletto e il pinguino panzuto Jeff Bridges (che si "re-interpreta" con un’autoironia che potrebbe mandare molti coeniani al manicomio) sono quasi irresistibili. Niente male come passo in avanti per una Casa sulla cui porta avevo già stampato una letterona scarlatta.

Guai a chi dice che ho detto tutto ciò per via del doppiatore del pinguino protagonista, Shia LaBeouf. A questo punto, ne va della mia credibilità.

Nei cinema dal 5 Ottobre 2007

Con questo post finiscono le blog-ferie estive, e si riaprono definitivamente i battenti di questa polverosa baracca. Ecco.

[buone ragioni]

L’ultimo episodio estivo di Friday Prejudice. Tenete duro.

[pompe]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Più o meno.

 

[it's Jaa!]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Jaa!

Da oggi fino a dopo Ferragosto, il blog si muta nella sua ormai tradizionale veste estiva: negli anni scorsi poteva significare che non mi facevo più sentire per un mese, quest’anno semplicemente che gli aggiornamenti saranno più radi – già in attesa i post su Die Hard 4.0 e Surf’s Up. In ogni caso, i pregiudizi di settimana prossima arriveranno con qualche giorno di ritardo. Ma arriveranno. Buone vacanze a voi.

Black Snake Moan
di Craig Brewer, 2006

Curiosamente, uno dei film di questa stagione che scatenò maggiormente i nostri ormoni ai tempi dei primi trailer, è stato poi parzialmente dimenticato – e se non da noi, sicuramente dalla distribuzione italiana. Un vero peccato, perché Black Snake Moan è un film davvero interessante, e uno dei più particolari e originali dell’ultimo periodo. Oltretutto, è anche un film abbastanza diverso da quello che ci si aspettava.

Parte della storia è ormai ben nota: nel Tennessee, Christina Ricci, bionda, magra, dissociata e ninfomane (a causa di traumi infantili, scopriremo), rimasta sola dopo l’arruolamento del fidanzato ansiolitico Justin Timberlake, finisce in pessime (e pesanti) mani e se la vede brutta; a salvarle la pellaccia è Samuel L. Jackson, contadino in canotta ed ex-bluesman disilluso, nonché fresco di adulterio e divorzio, che però, visto lo stato in cui due giorni di hangover l’hanno ridotta, decide di legare la giovane con una catena di 15 kg al suo termosifone. Il resto non ve lo racconto.

Chi si aspettava, anche solo per la bizzarria del plot, un’ulteriore variazione post-pulp (scioccamente: ma di questi tempi ci aspettiamo di tutto) non teneva conto dello spirito battagliero del bianchissimo Craig Brewer, già regista del nerissimo Hustle & Flow. Il suo è invece un film che si prende i suoi tempi, chiamiamoli pure sciallati, e che decide di raccontare la sua storia con coerenza e dedizione ammirevoli: coerenza per la capacità di trarne un Racconto Morale profondamente radicato nelle tradizioni del Sud senza guardare in faccia possibili accuse (come le mie) di semplicismo o eccessivo conservatorismo, dedizione – tra le altre cose – nell’utilizzare i linguaggi del blues (che non sono solo musicali) come unico vero trait d’union di una storia che forse altrimenti si sarebbe sparpagliata per il film in modo confuso. Basti guardare come funziona una scena – altrove assai improbabile, come scena-madre – come quella in cui Jackson suona il pezzo che dà il titolo al film nel mezzo di un temporale.

Il tutto con un trio d’attori – perché questo è un film in cui gli attori sono importantissimi, perché rotea e ronza intorno ai corpi sudati e alle voci rauche dei suoi personaggi, e scordatevi di avere la mia benedizione se ne sceglierete un’eventuale edizione doppiata – veramente formidabile: Justin Timberlake ha un po’ la parte dell’altro, ma se la cava più che bene, e siamo lieti di averci visto bene ai tempi del brutto Alpha dog; Samuel L. Jackson è semplicemente Nel Suo Ruolo; menzione speciale per la nuova sfiammante Christina Ricci, con qualche centinaia di chili in meno, lo sguardo allucinato e un pestone sulla faccia, che gira per metà film in mutande e con una maglietta-fazzoletto con due pistole incrociate sulle bandiere della Guerra di Secessione. Stupenda, in ogni possibile accezione.

Una sorta di triangolo sui generis in cui ogni personaggio ha qualcosa da insegnare e da imparare, dove le tre piccole solitudini di provincia che si scontrano danno un soffio di speranza ad un mondo totalmente alla deriva – quello del Profondo Sud, che lascia però intravedere l’effetto metonimico sul resto del paese; spingendo forse il tasto senza troppe paure sul lato predicativo, ma lasciando fuoricampo ogni possibile definitiva risoluzione, tanto meno se eterodiretta: come suggerisce il finale, la tua guarigione (da quale che sia la tua malattia) non si ottiene con pane e acquasanta, ma è una questione di tempo, di pazienza, e – possibilmente – di amore.