settembre 2007

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Molto incinta (Knocked up)
di Judd Apatow, 2006

Lei sta iniziando una brillante carriera come presentatrice sul canale via cavo E! ed è bionda ed è bona, lui è un giovane ebreo canadese nullafacente che passa le sue giornate a strafarsi di canne con i suoi amici ebrei canadesi, e ha le tettine. Si incontrano in un locale, si sbronzano, scopano, lei rimane incinta. E via al film.

Quella che molta critica USA sta presentando da mesi come la miglior commedia americana in circolazione, circa, prosegue in realtà il discorso iniziato da Apatow stesso in 40 anni vergine, che è divenuto a sua volta e in breve tempo una specie di inspiegabile cult cristallizzato, citato a destra e a manca e amato dalle fonti più insospettabili: ovvero quello di una commediaccia che si rifà ai canoni della stoner comedy, cercando di mediare l’onnipresente volgarità con tentativi di approccio quasi-sociale, per poi infilarti sotto la cintura senza nessun pudore una morale assolutamente reazionaria.

Ora, se volete possiamo soprassedere sul fatto che il film è la cosa più insostenibilmente misogina che io ricordi (tutte le donne sono delle rompicazzo, gli uomini sono semplicemente degli eterni e perdonabilissimi bambinoni, quindi si è costretti a tifare sempre e solo per il cazzo, in attesa che le donne rimettano la coda tra le gambe – e non lo dico per ridere) e pure sull’antiabortismo medievale che lo contraddistingue (la possibilità che questi due/tre non diventino una famiglia viene messa in discussione solo per pochi secondi, all’inizio, e per di più da un personaggio ritratto in senso negativo, ovviamente donna – Joanna Kerns con un paletto infilato nel cuore e l’altro dove non batte il sole – mentre l’opzione "prendi tutto quello che la vita barra il signore ti dà" è proposta da Harold Ramis, ovviamente uomo e rappacificato con il mondo), si passi pure su tutto questo.

Io non lo farei, lo dico: perché è così, facendo finta di niente, che ci si fa infinocchiare dal regime e si diventa tutt’uno con esso. Chiudendo gli occhi di fronte a un cinema da due soldi che, pur contenendo – bisogna ammetterlo – una visione nettamente più vitale, realistica e impietosa del brutto mondo della postadolescenza, fondamentalmente ci vorrebbe mettere tutti in riga di fronte a un altare (e/o a un fonte battesimale, sui generis). E dato che quello che si prospetta per il futuro, con un minimo di 11 film prodotti da Apatow in uscita tra il 2008 e il 2009, è quasi un regime della commedia (come John Hughes negli anni ’80? Magari), una sorta di Juddapatowland dai confini confusi, mi rendo conto che scherzo e che esagero – e che Knocked up è un film più divertente e più innocuo di come lo dipingo – ma allo stesso tempo permettetemi di spaventarmi un po’.

Comunque sia, se volete, per il divertimento, per lo spasso, per sganasciarsi, si può sempre passare oltre a tutto. Ci hanno sbattuto in faccia locomotive di merda ben peggiori di questa. Il problema però è che Knocked up non è proprio così divertente, non abbastanza da farci dimenticare quanto sia sottilmente spregevole. Certo, è un passo avanti rispetto al film con Carell: la parte furbescamente "scorretta" spinge un poco di più il pedale, qualche battuta buona c’è sempre (parecchie, a dire il vero, anche se è difficile ricordarsene una il giorno dopo), Seth Rogen è bravo ma proprio bravo (sperando che il suo vocione da orso non venga doppiato con la voce di un sedicenne come ai tempi del Principe di Bel-Air), ma non basta.
 
Anche perché la tendenza è sempre quella di allungare il brodo fino alla saturazione: dal mio modesto punto di vista, un film del genere che dura due ore e un quarto, e nemmeno delle più scoppiettanti, anzi, è una sorta di suicidio artistico. In parole povere, dopo un’ora e mezza si vuole solo andare a casa a occupare meglio il proprio tempo. Ma cielo, due ore e un quarto?

Per ora a Judd Apatow è andata bene. Anzi, molto bene. Va da sé che, per il futuro, io son già qui che faccio il gufo.

Nei cinema dal 19 Ottobre 2007

The good night, Jake Paltrow 2007

The good night
di Jake Paltrow, 2007

L’esordio di Jake Paltrow al lungometraggio (dopo parecchi episodi di NYPD Blue), anche come sceneggiatore e in compagnia della sorella Gwyneth come co-protagonista, racconta del chitarrista di un celebre gruppo pop britannico, divenuto compositore di jingle pubblicitari a New York a causa di una lunghissima crisi creativa, che trova rifugio dalle frustrazioni della sua vita privata e professionale nel sogno lucido, all’interno del quale si innamora di una donna bellissima con le fattezze di Penelope Cruz.

Il sogno lucido è uno di quegli argomenti che mi mette l’acquolina in bocca al solo pensiero: non solo perché è straordinariamente poco sfruttato nella storia del cinema, ma perché ai linguaggi del cinema stesso sembrerebbe adattarsi alla perfezione. E basta una semplice addizione per capire perché. Certo, c’è il rischio di cadere nei soliti tranelli che i sogni sullo schermo tendono agli incauti registi da sempre. E infatti, come già accadde in Waking life, anche Paltrow rimane invischiato nel mero fascino della sua dissertazione onirica, dimenticandosi troppo spesso per strada che c’è anche un film da mandare avanti.

The good night è comunque un film abbastanza interessante, ben costruito intorno a una frame-story in stile rockumentary (il film si apre con la testimonianza di Jarvis Cocker), realizzato con una certa cura (in barba agli esordienti che si piazzano subito la camera in spalla, Paltrow almeno si prende i suoi tempi e non dimentica il fattore estetico) e, anche se non è nulla ma proprio nulla di nuovo, ha un tocco discreto nell’opporre a una realtà opprimente – la fotografia nell’appartamento, estremamente buia, ne è un buon esempio  – il più saturato ed “erotico” mondo dei sogni.

Tuttavia è per quanto mi riguarda sommariamente deludente, almeno viste le aspettative e le potenzialità: ha tutta la buona fede del mondo, suscita parecchia simpatia, ma è pasticciato, confusionario, noiosetto. Però il cast mezzo americano (la Paltrow, Danny De Vito) e mezzo britannico (gli adorabili Martin Freeman e Simon Pegg, per i quali il film merita una visione in ogni caso) è assolutamente perfetto. Quando non tiene letteralmente in piedi il film.

[zac efron nudo]

Questa settimana escono due film in cui alcuni zombi vengono sbudellati dalle pale di un elicottero. Giuro.

E nessuno dei due è Hairspray.

Imparare più sopra Friday Prejudice, episodio 88 miglia all’ora!

28 settimane dopo (28 weeks later)
di Juan Carlos Fresnadillo, 2007

Rifacendosi chiaramente alla trilogia romeriana, che nel frattempo è diventata con nostra grande gioia una pentalogia, Danny Boyle decise, ad un certo punto, che 28 giorni dopo, horror molto più che interessante ed estremamente angosciante che contribuì con un certo coraggio iconoclasta a dare nuova linfa al genere, avrebbe dato l’avvio ad una vera e propria franchise, con – oltre a questo – il venturo 28 mesi dopo, e una serie a fumetti. Non potendo dirigere questo secondo capitolo perché impegnato nelle riprese del bellissimo Sunshine, Boyle affidò l’impresa allo spagnolo Fresnadillo dopo aver visto il suo Intacto.

Qualche anno fa, per una sorta testardaggine romerofila, avrei storto il naso di fronte alla maggior parte dei tentativi di rinverdire il fascino (anche commerciale) del film con gli zombi. Grazie a Boyle, a Snyder, a Wright, e altri, le cose sono decisamente cambiate, ed evidentemente mi sbagliavo. Non solo perché ora il genere è tornato in voga, ma perché persino un film che pochi mesi fa avremmo bocciato come una rimpolpata semi-apocrifa girata magari in quattro e quattr’otto per tirare su le ultime briciole del grande successo commerciale del film precedente, si rivela essere una bella sorpresa.

Perché se Fresnadillo non ha dalla sua le novità del primo film – le immagini affascinanti e paurose di una Londra deserta e abbandonata, gli zombi che corrono velocissimi con gli otturatori spalancati – e termina con il solito finale aperto che ormai è un po’ storia vecchia, fa comunque il suo lavoro in modo eccellente: aiutato dalla splendida colonna sonora di John Murphy, che ancora una volta trova nelle ispirazioni post-rock la musica ideale per i panorami apocalittici, pur conoscendo dei momenti di calo, o meglio, una vera e propria altalena, quando va a segno ci va eccome. Come, verso la fine, in una lunga e quasi insostenibile sequenza illuminata solo dal mirino di un fucile (insieme a noi vede un solo personaggio, mentre vediamo gli altri personaggi muoversi alla cieca), un’uso "al negativo" della soggettiva dotato di un sadismo non indifferente.

Comunque la si veda, perché è chiaro che il film potrà non piacere (ma chi cerca un horror si accomodi, questo è un signor horror) è difficile negare la bellezza della prima metà (che si mescola a un microdramma familiare, riuscito anche grazie all’interpretazione di Robert Carlyle) e soprattutto la spaventosa efficacia dei primi 10 minuti, di cui lui ha già parlato ampiamente: una fuga disperata e cinica che fa stare sulla poltrona dritti, increduli, con gli occhi sbarrati, e che lascia davvero il segno.

[post in attesa]

[Milano Film Festival 2007]
[un riepilogo]

Concorso Cortometraggi
Gruppo A, Gruppo E, Gruppo F, Gruppo H, Gruppo I

Concorso Lungometraggi
638 ways to kill Castro, Alle Alle, California Dreamin’, Mister Lonely, Quiet City, Reprise, Waiting at the gate

FocusCorea
Joint Security Area, Memento Mori

Godless America
Corti (prima parte), Corti (seconda parte)

Il mondo di Ciprì e Maresco

Corti (prima parte)

Tutti i post sul Milano Film Festival 2007

Fine, finalmente.

638 ways to kill Castro
di Dollan Cannell, 2007
[Milano Film Festival 2007 - Concorso Lungometraggi]

L’ultimo lungometraggio del MFF è un documentario che ci fa entrare per la sua breve durata nel magico mondo dell’anticastrismo duro e puro, intervistando di volta in volta i personaggi che hanno tentato, negli ultimi cinquant’anni o poco meno, di mettere fine alla vita del lider maximo – spesso e volentieri ritratti con un distacco assoluto che ne sottolinea paradossalmente i toni grotteschi, e nel caso di autentici terroristi internazionali da sempre a piede libero (grazie all’intervento di nomi noti) fa un certo effetto.

Il problema del film di Cannell è che la cosa più interessante è il materiale presentato, nudo e crudo, mentre il modo in cui viene presentato viene lasciato in secondo piano e non aggiunge nulla. Non che sia un difetto di per sé, ma il problema viene quando un film di poco più di un’ora, e con un argomento così forte, riesce ad annoiarti a morte. E’ inspiegabile invece che si dimentichi da dove Castro è venuto: il periodo di Batista non viene infatti mai nemmeno nominato o citato.

Infine, l’idea portante di sopperire alla povertà di idee e di materiali – peccato, perché quelli che ci sono a volte sono tostissimi – usando immagini dell’iconografia noir sembra già vecchia dopo dieci minuti. Peccato.

[tonite]

Stars @ Rainbow, Milano
Official site, Myspace, Last.fm, Wikipedia, Torquil Campbell, Amy Millan

Take me to the riot video directed by Benjamin Weinstein

California dreamin’ (Endless)
di Cristian Nemescu, 2006

Nel 1999, un piccolo gruppo di soldati americani arriva in un piccolo paesino della Romania: la popolazione sbigottita pensa bene di organizzare una finta festa di paese in loro onore. Diventeranno strumento personale per gli scopi di un sindaco bonario ma vigliacco, di un funzionario vendicativo (i cui bellissimi flashback in bianco e nero aprono i cinque capitoli/giorni che compongono il film), un’adolescente bellissima e annoiata, e molti altri personaggi.

Girato poco prima della scomparsa di Nemescu per un incidente d’auto – a soli 27 anni, e a vedere il suo film è difficile non rammaricarsene – e vincitore della sezione Un certain regard all’ultimo festival di Cannes, California dreamin’ è un film corale molto divertente e soprattutto intelligente nel raccontare una liberazione tardiva e ormai impossibile con toni che, richiamando vaghi echi di Kusturica (ma senza ottoni), vanno dallo sberleffo divertito dell’una e dell’altra parte al fascinoso e inquietante finale tra guerre civili e fuochi d’artificio.

Un film su impossibili desideri di fuga e di rivalsa che usa la sua durata normalmente impresentabile (più di due ore e mezza) nel modo migliore, prendendosi tutto il tempo possibile per raccontare un crescendo che non può lasciare indifferente e perdendosi qualche volta per strada, ma solo per giocare – un po’ sadicamente, ma che male c’è – con i suoi personaggi. E riuscendo a passare da uno sguardo cinico e impietoso a un affetto partecipato che copre però solo i personaggi più giovani, destinatari delle ultime speranze di un popolo rimasto fino ad ora schiavo soprattutto di se stesso.

Armand Assante fa un po’ la macchietta del soldato americano sull’orlo di una crisi di nervi (ma si difende benino), Ion Sapdaru fa una riuscita variante del personaggio di A est di Bucarest, Maria Dinulescu è semplicemente l’amore nostro.

Reprise
di Joachim Trier, 2006
[Milano Film Festival - Concorso Lungometraggi]

Ieri pomeriggio ho detto – e pure scritto, da qualche parte – che difficilmente uno dei titoli presentati al Milano Film Festival sarebbe stato più bello di questo film norvegese: per una volta pare che io non abbia preso una totale cantonata, visto che Reprise si è aggiudicato il premio come miglior "lungo" del Milano Film Festival. Ma a prescindere dall’arbitrarietà delle giurie, il lungometraggio del 33enne Trier, già Discovery Award a Toronto, aveva davvero pochi rivali.

Il merito più evidente, in un film così basato sulla perfezione della sua complessa – ma senza fastidiosi eccessi intellettualoidi – struttura temporale, va quindi alla sceneggiatura, coraggiosissima e quasi sperimentale nel raccontare l’inizio e la fine tramite lunghi e complessi periodi ipotetici, così da "sdoppiare" letteralmente i destini dei suoi personaggi, abbinando la scelta al tentativo di uno dei due protagonisti a ricalcare la sua vita passata, forse per trovare lo snodo che l’aveva portato alla pazzia, e lasciando aperta ogni interpretazione sull’incredibile finale.

Ma si aggiungono anche una fotografia di impressionante bellezza, lucida ma mai patinata, e un gruppo di giovani attori, tanto fascinosi quanto bravi e intensi (Anders Danielsen Lie e Viktoria Winge in testa), a comporre un film bellissimo, a tratti travolgente per quanto sia sommesso e dolente, sul talento, sulla competizione, sull’amore, sull’amicizia, sulla follia, e su un sacco di altre cose. Imperdibile.

La mia impressione è che i norvegesi, anche se sono tutti troppo belli e fighi per non infastidire la nostra mediterranea mediocrità, e anche se fanno troppo spesso le virgolette con le dita, io qui lo dico, hanno tutte le carte per diventare i prossimi coreani. Rumeni permettendo. Poi non dite che non vi avevo avvertito.

Nota: mancano ancora solo due post sul MFF (più precisamente sui due lungometraggi rimanenti: un altro britannico e uno rumeno, premiato con una menzione) e poi la smetto di rompervi le palle e ritorno alla vita vera. Promesso.

Waiting at the gate
di Rocky Palladino, 2007

Il ventiduenne Rocky Palladino ha scritto questo film a 19 anni e ha cominciato a girarlo pochi mesi dopo: e sarebbe ipocrita negare che ciò sia evidente in ogni singola inquadratura del suo film d’esordio. Waiting at the gate è, più o meno, il film che a 19 anni abbiamo scritto tutti noi – sulla carta, su una tastiera, oppure semplicemente nella nostra testa – per raccontare al mondo quanto ci sentivamo fuori posto tra la gente che ci stava intorno, e quanto il cinema era l’unica cosa che ci avrebbe salvato la vita. Poi ognuno ha preso la sua strada, mentre Rocky Palladino il suo film sulla fine dell’adolescenza lo scriveva e – seppure con pochissimi soldi e, immagino, con una tenacia paradossale – lo dirigeva. Quindi qui si passa sopra a ogni singola ingenuità di cui il film è pieno, alle dissolvenze fuori posto et similia: demolire Waiting at the gate sulla base di canoni tradizionali, oltre che essere probabilmente stupido visto che il film è piacevolissimo, divertente e soprattutto estremamente sincero e duro nel raccontare quanto sia difficile la vita a quell’età – quanti ce lo sanno dire, ancora? – inoltre conterrebbe, anche, una dose malcelata di invidia. E non si fa.

Mister Lonely
di Harmony Korine, 2007
[Milano Film Festival 2007 - Concorso Lungometraggi]

Due impersonator, Michael Jackson e Marilyn Monroe, si trovano a lavorare in un ospizio di Parigi: quest’ultima porterà il giovane in una villa nelle highlands scozzesi abitata solo da gente come loro, che ha rinunciato per sempre alla propria identità e che si rifugia lì per una ventura riscossa artistica: Charlie Chaplin, Abramo Lincoln, la Regina d’Inghilterra, eccetera. Dall’altra parte del mondo, alcune suore missionarie scoprono di poter volare. Suore Volanti!

La trama del film può sembrare bislacca, e in mano a qualcun altro sarebbe svaccata probabilmente nel più facile dei registri grotteschi: il risultato è invece un film sì curioso e bizzarro, ma che si sa tenere in piedi su un difficilissimo equilibrio tra le trovate stralunate e surreali – tra cui tutto il "controcampo" delle Suore Volanti, con un divertito Werner Herzog – e uno sguardo doloroso, quando non tragico, sui suoi personaggi, fino a una folle catarsi canora con uova pitturate che ti sbatte in faccia la lacrima senza pietà.

Se forse le metafore – la rinuncia dell’identità come riflesso della paura della morte – vengono un po’ spiattellate senza il beneficio del dubbio, e se d’altra parte è difficile capire come i due segmenti si possano accoppiare senza forzare la mano (ma forse è un mio limite), certo è che non scoppiano affatto, è impossibile negare, anche per l’impeccabile cura visiva (la fotografia è del winterbottomiano Marcel Zyskind) che rende alcune sequenze – tra cui quella della prima Suora Volante, lo so che mi ripeto, ma è così – da culto immediato*.

*"Culto immediato" ©Private, all rights reserved.

[corti dagli Stati Uniti di oggi: seconda parte]
[Milano Film Festival 2007 - Godless America]

Have You Ever Heard About Vukovar? di Paolo Borraccetti
Un soldato americano, sconvolto dall’Iraq ma in procinto di tornarci, empatizza con un autista di Vukovar, anch’egli in fuga dalla guerra. Ben scritto e realizzato, un po’ vecchiotto ma molto professionale. Particolarmente azzeccato il rapporto tra il titolo e la sceneggiatura.

Death, Destruction & The Weather Coming Up Next di Emery C. Martin
Un altro cortometraggio fatto con sequenze di immagini questa volta per riflettere sui media e sulla loro rappresentazione della guerra. Il linguaggio scelto è particolarmente pregnante, in questo caso, ma ciò, e nemmeno il fatto che io non riesca mai nemmeno a concepire che si riesca a realizzare una roba così complessa, non ci impedisce di trovarlo estremamente noioso.

Cough Drop di Kristina Lear
Una bambina molto sveglia ma non particolarmente entusiasta dei propri genitori accetta un passagio da uno sconosciuto. Prodotto di un corso tutto al femminile dell’America Film Institute (un’idea come un’altra per ovviare alla scarsità di registi donna negli States?), il film è davvero molto interessante: non tanto per la tematica affrontata, che è comunque sempre delicata e rischiosissima, ma per il modo in cui gestisce la tensione, mai banale e con un understatement invidiabile. Finale aperto e imprevedibile: ne sentiremo parlare?

Business Johnson di Casper Frank e Talia Raine
Semplicemente, una barzelletta raccontata da un gruppo di irrestitibili attori comici di colore in un patio. La barzelletta è pure vecchia, ma la bravura del cast è talmente coinvolgente che ci si sganascia a prescindere. Non so che darei per rivedermelo dieci volte.

The Oates’ Valor di Tim Thaddeus Cahill
Il corto di esordio di un ventottenne con un nome bellissimo è una delle cose più indie che io riesca a immaginare. Non solo perché in 14 minuti riesce ad infilare pezzi di Animal Collective, Devendra Banhart, Calexico e Beirut, ma anche perché il suo personaggio, giovanissimo trombettista spettinato, deadpan e vagamente emo, in conflitto con un padre che lo vuole mandare in guerra, è una sorta di epitome di un intero immaginario. Gradevolmente surreale, piacevolissimo, e – a riconoscerci dentro un briciolo di sé – quasi commovente. Forse il corto a me più gradito tra quelli presentati in questa piccola rassegna.

[foursome?]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Yes, mate.

[Gruppo I - Concorso Cortometraggi]
[Milano Film Festival 2007]

Help is Coming di Ben Mor (USA 2006)
Tre ragazzini attraversano le macerie della New Orleans post-Katrina indossando delle maschere con le facce di Bush, Cheney e il sindaco Ray Nagin. Più che un’occasione di rimanere sbigottiti di fronte alla devastazione annichilente dell’uragano, un modo diverso di riflettere sul ritardo degli aiuti, che a due anni di distanza molti sembrano aver dimenticato. Le forze in campo nella produzione sono tante, e si vede: il risultato – nonostante il pericolo di fare della retorica da quattro soldi – è infatti davvero stupefacente.

Rewind di Atul Taishete (India 2007)
Un corto girato in reverse con tre indiani che giocano alla roulette russa non è proprio il massimo della vita: la solita roba da studenti di cinema, insomma. Ma Taishete ha un buon occhio, è furbissimo, e riesce a equilibrare il monologo voice over dando un senso vero alla trovata. E tutto sommato gli viene fuori una cosetta piacevole.

Beijo de sal (Salt kiss) di Fellipe Gamarano Barbosa (BRA 2006)
Un giovane in procinto di sposarsi passa il capodanno nella casa sul mare di un vecchio amico donnaiolo: esploderanno tensioni drammatiche e irrisolte. Barbosa si preoccupa soprattutto che traspaiano, queste tensioni, dalle parole e dai toni della spaventosa (in senso positivo) interpretazione di Rogério Trindade: e fa benissimo, perché il suo corto, caustico e tronco, va perfettamente a segno.

Another Lost Soul di Lyle Pisio (CAN 2006)
Una sequenza di centinaia e centinaia di immagini in cui il regista fotografa se stesso riflesso in una sfera. Detta così non si capisce, ma a vederla viene il mal di testa: papabile vincitore per il Premio Viaggione 2007. Che poi, è un esperimento escheriano e metafisico o Lyle Pisio è un pazzo furioso con un sacco di tempo libero? In entrambi i casi, da vedere a tutti i costi.

Valuri (Waves) di Adrian Sitaru (Romania 2007)
Ambientandolo su una spiaggia affollatissima e rumorosa, Sitaru dirige un film che sembra avere i toni e i ritmi della commedia, anche se poi sceglie di virarla decisamente verso la black comedy più tragica, dando un’impietosa frustata al cinismo dilagante. Si è capito che è bello?

Liebeskrank (Lovesick) di Spela Cadez (DEU/Slovenia 2007)
In un’assurda clinica, un giovane con il cuore letteralmente spezzato incontra una ragazza a cui qualcuno ha fatto evidentemente girare la testa. Ennesimo corto in stop-motion, ma questa volta è davvero impossibile non rimanere imbambolati dalla pucciosità del tutto. Brava, Spela.

Forse il miglior gruppo visto finora, e sicuramente il più stimolante. E’ stato un piacere averlo visto in compagnia di Mr Souffle.

Quiet city
di Aaron Katz, 2007
[Milano Film Festival 2007 - Concorso Lungometraggi]

Il secondo lungometraggio "da solista" del ventiseienne regista di Portland è la storia dell’incontro e dell’amicizia improvvisa tra una ragazza di Atlanta perdutasi a New York e un giovane solitario e sociopatico.

Rifacendosi a molto cinema indipendente americano, ma privandolo completamente delle arie cool così come priva New York dei rumori e del caos che ne contraddistingono l’iconografia trasformandola in una "città quieta", Katz confeziona un film piccolo piccolo, tecnicamente semplicissimo, fatto più che altro di impressioni e sensazioni, costruito intorno a molti dialoghi semi-improvvisati (ma efficaci) e su un’immediata linearità temporale.

Eppure, un film che ti fa sentire meglio. Inspiegabilmente bello.

Memento mori (Yeogo goedam II)
di Kim Tae-yong e Min Kyu-dong, 1999
[Milano Film Festival 2007 - FocusCorea]

Uno dei film coreani più noti e "citati" di quell’onda travolgente di cinema di genere che stravolse il panorama asiatico alla fine degli anni novanta è la seconda parte di una sorta di saga iniziata con Whispering Corridors e terminata (per ora) con il bruttissimo Voice. Non avevo ancora avuto l’occasione di vedere Memento mori.

Nonostante le mie perplessità iniziali il film si è rivelato all’altezza degli anni passati nel frattempo. Certo, il cinema coreano di quegli anni ha prodotto cose di ben altro livello (e l’inserimento di Memento mori pone un altro mattone sull’argomento "questa rassegna puzza di vecchio") ma il film riesce per più di un momento, anche grazie all’incasinatissima struttura a incastri e flashback, a distanziarsi dalle tendenze modaiole per proporre una "alternativa" (in tutti i sensi) alla solita solfa di ragazzine vendicative venute dall’aldilà, dando più importanza alla una storia d’amore che non allo spavento – la parte propriamente horror è lasciata all’ultimo quarto d’ora, ed è perdipiù inefficace.

Ed è comunque pur sempre un film pieno di ragazzine coreane in divisa e sessualmente ambigue. Fate voi.

[Cortometraggi e frammenti 1989-2004 - Parte I]
[Milano Film Festival 2007 - Il mondo di Ciprì e Maresco]

La programmazione del MFF, pur vastissima e ottimamente organizzata, per via della concentrazione pomeridiano-serale e con una mattinata ben più svagata, fa sì che qualche pezzo del programma possa andare perduto nella confusione e nella sovrapposizione. Una delle cose che non andrebbe accantonata – cosa che io sto puntualmente facendo – è la retrospettiva completa di Ciprì e Maresco.

Questa prima selezione di corti e frammenti ha visto sullo schermo, nell’ordine:

Illuminati (1990) è uno dei film d’esordio della coppia, già grottesco e allucinato come i ben più celebri lavori successivi.
Loro di Palermo è un famoso corto in cui dei ragazzini palermitani raccontano un episodio di cronaca vissuto sulla loro pelle, cortometraggio straziante che fa scaturire un’immagine della disillusione (meglio la mafia della polizia?) che lascia davvero sconcertati e commossi, con lampi improvvisi e spontanei di lucidità e poesia. Potete vederlo qui e poi qui.
Keller (1992) è un lunghissimo carrello laterale che riprende come figurine immobili (o forse come statue votive desacralizzate) molti personaggi del freak show dei due registi.
Il gattoparve (1996) è un onesto omaggio a Nicola Scafidi, fotografo di scena de Il gattopardo, con una bella intervista (sempre surreale, ma più sottilmente del solito) inframmezzata dalle sue bellissime fotografie, da alcuni dei "mostri" di C&M e soprattutto da una lunga sequenza in cui i due registi "rifanno" la scena del ballo del film di Visconti riprendendo gli scheletri dell’ossario di Palermo.

[Gruppo H - Concorso Cortometraggi]
[Milano Film Festival 2007]

Estamos por todos lados (We Are Everywhere) di Sofia Perez Suinaga (Mexico 2006)
Due ragazzi ribaltano uno scippo a loro vantaggio grazie alla loro faccia da culo. Un ritmo ottimo, montaggio iperattivo tipicamente messicano ggiovane, divertimento assicurato. La ragazza ci sa fare eccome.

Les jours (The Days) di Maxime Giroux (CAN 2006)
Un padre di famiglia si vendica con la natura per la morte della figlia. L’idea di isolare dei brevi "capitoli" girati quasi esclusivamente con camera fissa titolandoli con i giorni che distanziano la scomparsa dagli avvenimenti successivi è davvero sorprendente, e permette di distaccare ulteriormente lo sguardo, come se non bastassero già le distese di neve del Quebec. Tutto bello, pure da vedere: peccato che duri 25 minuti e ne regga 10.

Ujbaz Izbeneki Has Lost His Soul di Neil Jack (GB 2006)
Un breve corto in stop-motion in cui un giovane con una pettinatura emo arriva alle porte dell’Inferno, perché ha perso la sua anima. E non solo. Il corto scacciapensieri più divertente visto finora al Festival.

Nijuman no borei (200.000 Phantoms)
di Jean-Gabriel Périot (France 2007)
Decine, centinaia, migliaia di immagini del medesimo edificio, al centro della città di Hiroshima, prima e dopo la bomba, sovrapposte una sull’altra su una struggente canzone dei Current 93 in una sorta di straziante viaggio nel tempo immobile. Difficilmente vedremo un corto così bello da queste parti: recuperatelo ad ogni costo. Indimenticabile.

Raak (Contact)
di Hanro Smitsman (Holland 2006)
Raccontarlo è difficile, comunque si tratta bene o male del solito incrocio corale di destini, che stavolta coinvolgono un ragazzino insicuro, sua madre, e uno sconosciuto con la camicia a fiori. Ma Smitsman ha una mano abile e fermissima, ha degli attori formidabili, ed è bravissimo a giocare con i paradossi narrativi, trasformando la tragedia in teatro dell’assurdo. Massì, applausi.

Drake
di Christopher Rainer (Austria 2006)
Una inquadratura fissa di cinque minuti su un tramonto, dall’idillio familiare iniziale a una specie di violenza parossistica. Non può non suscitare sorpresa e, una volta entrati nel meccanismo, le grasse risate. Ed era meno facile di quanto non sembri.

[corti dagli Stati Uniti di oggi: prima parte]
[Milano Film Festival 2007 - Godless America]

Emergency Needs di Kevin Jerome Everson
According To… di Kevin Jerome Everson

Il cinema di Everson, ostico e sofferto ma stimolante e basato su un serio lavoro di ricerca, cerca di raccontare la diaspora afroamericana attraverso l’uso dei materiali d’archivio. Nel primo, si contrappone in split-screen un filmato di Carl Stokes, sindaco nero durante delle rivolte razziali a Cleveland negli anni ’60, a una giovane ragazza che ne riproduce le parole. Nel secondo, ben più stimolante, una voce fuoricampo legge delle agenzie d’epoca riguardanti alcuni fatti di cronaca con protagoniste vittime di colore, mentre sullo schermo scorrono immagini delle news: ne scaturiscono da sé contraddizioni e manipolazioni razziste.

The Free Speech Zone di kasumi
Quindici snervanti minuti in cui vengono contrapposte, a ritmo di musica (soprattutto tecno e hiphop), estratti di film di serie B, filmati d’epoca, immagini di Bush che dice cose spregevoli, qualche saluto nazista, e un pizzico di Eisenstein che non guasta mai. Interessante se volete, ma – si capisce già a raccontarlo – intriso della peggior retorica. Niente che non possa fare uno studente DAMS qualunque con molto, molto, molto tempo libero.

Scaredycat di Andy Blubaugh
L’autore, auto-ritratto come impiegatuccio nerdy e visibilmente ossessivo-compulsivo, analizza le conseguenze di una rapina che l’ha traumatizzato, rendendolo inconsciamente razzista. Rimette in scena l’episodio come un cartoon, registra le telefonate fatte ai suoi carnefici in prigione, prende la loro parte. Blubaugh ha una bella faccia da cinema, e – anche se il suo corto è prevedibilmente indulgente e ruffianotto – sa dire delle cose non banali sulle paranoie della città contemporanea.