Io non sono qui (I’m not there)
di Todd Haynes, 2007
Nel turbinio dei paroloni e delle parolacce, rimane ben poco da dire su I’m not there, incredibile e affascinante frammentazione del biopic (che, forse è vero, non sarà più lo stesso) e, traslando, tentativo apparentemente frustrante – quasi per scelta, ma con improvvisi lampi di catarsi – di riflessione sulla frammentazione dell’identità, che però sa non fermarsi ad una rappresentazione vacua di un caos postmoderno, anche grazie ad un cast eccezionale che riesce a trasformare un’opera che ad un primo sguardo poteva sembrare un mero esperimento, vagamente onanistico, in un film impellente e necessario.
Dalle complicazioni messe in campo di Haynes, sia quelle più teoriche che quelle più cinefile, o simboliche, o gastriche, è difficile estrapolare qualcosa di davvero compiuto dopo una singola visione. Ma almeno altrettanto facile è sorpassare il film a destra e procedere a liberalizzarne l’esame semiotico. Insomma, si può leggere quasi qualunque cosa, in I’m not there, l’abbiamo capito e – nostro malgrado, bontà divina – arriviamo ad accettarlo: ma lungi dall’essere un ostacolo alla sua grandezza, è forse il suo principale punto di forza. Quello dei grandi film, insomma, anche se a Haynes manca qualcosa, una fiammata di genio forse, o il dono anche passeggero dell’umiltà, per entrare nell’olimpo dei grandi: ma, lo si ammette umilmente senza sforzi, da queste parti si ha anche una gran paura di sottovalutarlo.
L’unica cosa davvero certa, di fronte all’esplosione dei significanti e dei – corrispettivi o meno – significati prodotti, è che Haynes costruisce uno spettacolo che lascia a bocca aperta, non tanto per la novità e l’ingegno dell’idea che lo muove (quella si esaurisce una volta che te la raccontano), ma per la qualità e l’ecletticità di ogni singolo frammento che ne compone la messa in opera. Per Haynes ogni singola inquadratura ha un senso preciso, che sia una svolta di vita epocale o un commovente gesto quotidiano di rassegnazione, un tuffo nel ventre della balena o una colazione ellittica preparata nella solidudine: e non so quanti registi americani della sua generazione possano davvero mettere questa dote, rarissima e preziosa, nel loro curriculum.
Oltre a tutto ciò, c’è quello di cui tutti parlano, con la bava alla bocca e/o con gli occhi pieni di lacrime soddisfatte: ovvero, che all’interno di un film così ambizioso e complesso, così palesemente desideroso di mettere mano a un intero sistema e scriverci la parola "fine" o "nuovo capitolo", il risultato appaia così inspiegabilmente leggero, oserei dire vaporoso. Nonostante si affreschi un’intera vita – e ancor più la sua rappresentazione – senza metterla mai in campo, si tratteggi con grandi pennellate tutto ciò che c’è intorno, lo sfondo, il paratesto, si giochi con l’assenza in una sorta di rivoluzione puntinista del ritratto cinematografico, la sensazione che I’m not there lascia negli occhi e nella mente è quella, ovattata, del tuo corpo che si sveglia dopo aver sognato di respirare sott’acqua. Ne esci, ricominci a respirare con i tuoi polmoni, le orecchie si stappano. E la prima cosa che senti, è la musica.