settembre 2007

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Joint security area (Gongdong gyeongbi guyeok JSA)
di Park Chan-wook, 2000
[Milano Film Festival 2007 - FocusCorea]

Chiaramente lo si era già visto se n’era già scritto abbastanza, ma l’occasione di vedere il primo "vero" film di Park su un grandissimo schermo era davvero ghiotta. Poi vabbé, la copia non era probabilmente in 35mm, era comunque sbiadita e hardsubbata, e in cabina ci hanno messo 20 minuti contati ad accorgersi che lo stavano proiettando doppiato in inglese. E vi assicuro che quelli fan più danni che noi. Ma questo non sminuisce la grandezza di un film che, si consideri minore o meno (personalmente non so mai cosa pensare a proposito), non perde un briciolo della sua strabiliante commozione alla seconda visione. Probabilmente nemmeno alla terza.

In sala, il pubblico era quello delle grandi occasioni. No, scherzo. Purtroppo eravamo pochini. Peccato. Un saluto a quelli che c’erano, volenterosi fino in fondo. Bravi voi.

[Gruppo F - Concorso Cortometraggi]
[Milano Film Festival 2007]

Nowhere, No One di Ian Waugh (GB 2007)
L’incontro tra un uomo immaturo, in viaggio per raggiungere il compleanno della figlia a Edimburgo, e una ragazza disadattata, trovata a dormire nella boscaglia ai bordi di una superstrada.  Waugh racconta una storia fatta di quasi-niente ma che riesce a cambiare i destini dei suoi personaggi. Azzecca il tono e le facce. Niente male. In più, ci sta simpatico perché non vuole saperne di rispondere alle domande alla fine della proiezione.

Apnée (Hold your breath) di Claude Chabot (FRA 2006)
Un freeze-frame in 3D con la mdp virtuale che volteggia al suo interno in un unico piano-sequenza. Il trucco è che non è affatto un fermo immagine, ma si evolve narrativamente. Poco più che un esperimento, buono forse ad esemplificare i miglioramenti (:..) di un espediente molto usato nel cinema contemporaneo (dalla bullet time revolution in poi). Più che altro si stenta a capirne il senso, qui dentro.

Ieri (Yesterday)
di Luca Scivoletto (ITA 2006)
Si ammira l’impegno e la determinazione, la bravura dei due attori Andrea Bosca e Valentina Lodovini (peraltro bellissima), e se vogliamo la perizia tecnica, pur nella semplicità del tutto. Ma siamo ancora alla storia vista dalle parole buttate al vento, al tipicamente italico piagnisteo da camera, alle metafore spicciole. Un peccato, proprio perché manca tanto così.

Rauschen & Brausen I di Daniel Burkhardt (DEU 2007)
Impossibile o comunque molto difficile da descrivere a chi non l’abbia visto (vedi foto sopra), è un solo carrello all’indietro di 5 minuti circa: l’immagine, dal retaggio industriale dell’apertura, grazie ad un allucinato effetto di scomposizione, finisce dritta dritta nel mondo della pura illusione ottica. Roba da rimanerci secchi: io mi sono innamorato. Un Vero Viaggione.

Tommy di Ole Giaever (Norway 2007)
Un incontro sulle montagne tra un giovane e il padre di un ex compagno di classe: il primo cerca di svicolarsi, il secondo fa di tutto per metterlo in difficoltà. Giaever è tanto talentuoso quanto bastardo: costruisce una tensione che ricorda le quieti di Haneke, e che ti aspetti esploda, per poi negare ogni minima tentazione di catarsi, che sia rivalsa sociale o pura violenza, lasciandoci a bocca asciutta. Bravo, porcaccio cane.

Ma culotte (My Knickers)
di Blandine Lenoir (France 2006)
Una bella signora di mezza età si porta a casa uno sconosciuto, scopre che è padre, viene sgamata dalla figlia adolescente, con la quale finisce a discutere dei pro e dei contro del sesso anale. Molto più gradevole e maturo di quanto possa sembrare a descriverlo, ha soprattutto il merito di uno dei migliori dialoghi che io abbia sentito negli ultimi tempi. Quello sul sesso anale, appunto.

Alle Alle
di Pepe Planitzer, 2007
[Milano Film Festival 2007 - Concorso Lungometraggi]

L’amicizia tra Domühl, un capo-operaio alcolizzato; Ina, ex-galeotta di cui Domühl è innamorato; e Hagen, un malato di mente capitato per caso in quell’angolo di provincia tedesca, in cerca di un tutore che non arriverà mai.

Con un piglio che ricorda certo cinema sociale britannico, Planitzer racconta una storia in cui niente sembra andare per il verso giusto (e niente ci va, dopotutto) con la convinzione rassegnata, ma non del tutto pessimista, che la felicità non sia una questione di realizzazione a lungo termine, ma di singoli (e brevi) istanti di giustizia. Che non sia trovare un posto nel mondo, bensì il proprio posto.

Planitzer dimostra un ammirevole attaccamento ai personaggi, dipinti in un momento in cui l’amore e l’amicizia fa scaturire in loro un’umanità che sembrava ormai perduta – nell’alcol, nella follia, nella solitudine, nella disillusione. L’indulgenza totale nei loro confronti passa quindi in secondo piano rispetto alla loro insopprimibile sfortuna.

Astenersi aspiranti suicidi: potrebbe causare improvvise dipartite.

[Gruppo E - Concorso Cortometraggi]
[Milano Film Festival 2007]

The Lonely Bliss of the Cannonball Luke di Levi Abrino (USA 2007)
Con un’idea una e con un finale rallentato e davvero emozionante, senza esagerazioni ma con un perfetto senso dell’understatement, Abrino realizza un corto indie memorabile, che riesce a raccontare tutta una fetta di provincia americana in una partita di calcetto e nel tuffo di un uomo-cannone. Delicato e divertente.

Amin di David Dusa (FRA/DEU/NL 2007)
Dusa affronta la scoperta del razzismo da parte dell’occhio innocente di un bimbo. Quello che il bimbo fa nella prima metà del corto (gioca con la prospettiva, immaginando di schiacciare le persone per strada con le dita) è una cosa che tutti noi facciamo da bambini, e che mai avevo visto rappresentata sullo schermo: chapeau. Per il resto, la buona dose di angoscia civile difende il film dalla prevedibilità e dai suoi limiti formali.

La última noche en la tierra de Esther Piscore (Last Night on Earth of Esther Piscore) di Carlos A. Morelli (Uruguay/MEX 2006)
Una signora anziana, rimasta sola senza alcun parente, decide di spendere tutti i suoi risparmi con un accompagnatore. Quest’ultimo, wannabe ballerino, accetta il lavoro per potersi pagare un’audizione per Broaway. Due quotidiane solitudini che si incontrano: pacatissimo e sofferto, con qualche lampo di lucido umorismo. Deprimente, ma con il cuore. Stay off the gas.

Come on Inside di Diego Marcon (ITA 2006)
Una ragazza invita un compagnuccio nella casa della nonna e gli fa una pompa. A rischio di essere cinico, davvero, non c’è molto altro. Ma l’idea di base – utilizzare un supporto video che porti automaticamente con sé l’immaginario a cui appartiene, in questo caso il VHS e gli anni ’80 – è davvero intelligente.

Deutschland im Sommer
(Germany in Summer) di Philipp Doering (DEU 2006)
Un corto che sarebbe anche interessante, se ci si capisse qualcosa. Tutto appare (più o meno) chiaro alla fine, ma ci si è già stufati dei continui giochetti temporali.

Patty, kratki film v perverzih (Patty, Short Film in Perverses) di Matej Lavrencicand and Roman Razman, (Slovenia 2006)
Pochi minuti in cui i disegni di scena di uno spettacolo su una soubrette almodovariana prendono vita, animati in stop-motion, sopra la colonna sonora dello spettacolo stesso. Realizzato molto bene, ma poco influente sotto qualunque altro aspetto.

[Gruppo A - Concorso cortometraggi]
[Milano Film Festival 2007]

A Nick In Time di Be Garrett (USA 2006)
Nel corto migliore del gruppo, un barbiere sventa una situazione drammatica narrando un aneddoto della sua giovinezza. In modo intelligente e garbato, Garrett riesce a raccontare in pochissimi minuti due storie di "seconde occasioni", basando tutto sul non-detto e sugli sguardi tra i protagonisti, ripresi da vicino con affetto e talento, e rilasciando tutta la tensione nel finale, rivelatore ma non troppo. Bra-vo.

Soldat (Soldier) di David Peros Bonnot (Croatia 2006)
Breve corto in stop-motion, per noi ignoranti che non sapevamo esistesse un cinema croato – e figuriamoci un cinema d’animazione croato. Favola antimilitarista con protagonista una statua-soldatino, è ingegnosa ma pesante come un macigno. Poi, probabilmente mi sono distratto io nella "chiusa", ma non ho capito molto bene dove volesse andare a parare.

The Last Call di Awad Abu Al-Kheir (Palestinian Territories 2006)
Testimonianze di palestinesi sfollati inframmezzate a casaccio da immagini degli sfollamenti stessi. L’impressione è che non si cerchi nemmeno di dare senso alle sovrapposizioni e al montaggio, e peraltro si conclude il tutto con una tirata giustificazionista che lascia senza parole. Spiace dirlo, ma anche il filopalestinese più cocciuto – quale il sottoscritto – verrebbe infastidito da questa roba. C’è modo e modo.

Ingrid di Cinthia Varela (Argentina 2007)
Un fotografo insegue la ex di un suo amico, fino a scoprire che ha un altro. Come molti test di fine corso di scuole di cinema, è basato su un’idea prettamente teorica che tralascia tutto il resto (il contenuto, per esempio, o il nostro interesse). In questo caso, il corto è tutto in soggettiva. Wow, ragazzi. Che ideona.

Induction di Nicolas Provost (Belgium 2006)
Girato con un notevole talento visivo e uno spreco di evitabili cazzabubbole artistoidi, una specie di incubo à la Lynch tutto basato (in modo riuscito, soprattutto nella traccia audio) sul senso di incombenza di un’angoscia e di un terrore che apre il corto in medias res e che non torna più. In realtà non si capisce granché di quello che accade, ma lo slancio narrativo credo si possa riassumere nella frase la signora è salita in casa con il negro. Francamente mi sono spaventato a morte, ma questo non lo rende più riuscito: io quando ci sono delle persone che parlano al contrario divento un cacasotto.

I Am Bob di Donald Rice (GB 2007)
Bob Geldof si ritrova, da solo e senza soldi né documenti, in un motel sperduto nel nord dell’Inghilterra in cui si sta svolgendo una convention di sosia. Nessuno gli crede, così si iscrive alla gara per pagarsi un taxi. Se l’idea è divertente già di per sé, il corto non è da meno, soprattutto per l’irresistibile parodia che Geldof fa di se stesso. Uno spasso.

[Venezia? Ptui]

Da questa sera fino al 23 Settembre 2007 c’è il Milano Film Festival.
Mi troverete da quelle parti molto spesso, e da queste parti ne leggerete.

Palesatevi, gente. Vi si offre una birra. Forse.

Io non sono qui (I’m not there)
di Todd Haynes, 2007

Nel turbinio dei paroloni e delle parolacce, rimane ben poco da dire su I’m not there, incredibile e affascinante frammentazione del biopic (che, forse è vero, non sarà più lo stesso) e, traslando, tentativo apparentemente frustrante – quasi per scelta, ma con improvvisi lampi di catarsi – di riflessione sulla frammentazione dell’identità, che però sa non fermarsi ad una rappresentazione vacua di un caos postmoderno, anche grazie ad un cast eccezionale che riesce a trasformare un’opera che ad un primo sguardo poteva sembrare un mero esperimento, vagamente onanistico, in un film impellente e necessario.

Dalle complicazioni messe in campo di Haynes, sia quelle più teoriche che quelle più cinefile, o simboliche, o gastriche, è difficile estrapolare qualcosa di davvero compiuto dopo una singola visione. Ma almeno altrettanto facile è sorpassare il film a destra e procedere a liberalizzarne l’esame semiotico. Insomma, si può leggere quasi qualunque cosa, in I’m not there, l’abbiamo capito e – nostro malgrado, bontà divina – arriviamo ad accettarlo: ma lungi dall’essere un ostacolo alla sua grandezza, è forse il suo principale punto di forza. Quello dei grandi film, insomma, anche se a Haynes manca qualcosa, una fiammata di genio forse, o il dono anche passeggero dell’umiltà, per entrare nell’olimpo dei grandi: ma, lo si ammette umilmente senza sforzi, da queste parti si ha anche una gran paura di sottovalutarlo.

L’unica cosa davvero certa, di fronte all’esplosione dei significanti e dei – corrispettivi o meno – significati prodotti, è che Haynes costruisce uno spettacolo che lascia a bocca aperta, non tanto per la novità e l’ingegno dell’idea che lo muove (quella si esaurisce una volta che te la raccontano), ma per la qualità e l’ecletticità di ogni singolo frammento che ne compone la messa in opera. Per Haynes ogni singola inquadratura ha un senso preciso, che sia una svolta di vita epocale o un commovente gesto quotidiano di rassegnazione, un tuffo nel ventre della balena o una colazione ellittica preparata nella solidudine: e non so quanti registi americani della sua generazione possano davvero mettere questa dote, rarissima e preziosa, nel loro curriculum.

Oltre a tutto ciò, c’è quello di cui tutti parlano, con la bava alla bocca e/o con gli occhi pieni di lacrime soddisfatte: ovvero, che all’interno di un film così ambizioso e complesso, così palesemente desideroso di mettere mano a un intero sistema e scriverci la parola "fine" o "nuovo capitolo", il risultato appaia così inspiegabilmente leggero, oserei dire vaporoso. Nonostante si affreschi un’intera vita – e ancor più la sua rappresentazione – senza metterla mai in campo, si tratteggi con grandi pennellate tutto ciò che c’è intorno, lo sfondo, il paratesto, si giochi con l’assenza in una sorta di rivoluzione puntinista del ritratto cinematografico, la sensazione che I’m not there lascia negli occhi e nella mente è quella, ovattata, del tuo corpo che si sveglia dopo aver sognato di respirare sott’acqua. Ne esci, ricominci a respirare con i tuoi polmoni, le orecchie si stappano. E la prima cosa che senti, è la musica.

[does whatever a spider-pig does]

Grasse e porche risate, con Friday Prejudice: episodio 86.

Aqua Teen Hunger Force Colon Movie Film for Theaters
di Matt Maiellaro e Dave Willis, 2007

Probabilmente avrete sentito parlare, all’inizio di quest’anno, del "caso" di guerrilla marketing scambiato per un attacco terroristico (noto come Boston Mooninite Scare) e terminato con l’episodio epocale in cui due artisti multimediali coinvolti, all’uscita del tribunale, invece che rispondere alle domande imbecilli dei giornalisti parlavano delle capigliature degli anni ’70 (geni) prima di essere ovviamente assolti qualche tempo dopo. Ecco, quella campagna pubblicitaria era a favore di questo film.

Lungometraggio tratto da una fortunata serie animata trasmessa su Adult Swim (la fascia notturna di Cartoon Network dove trasmettono l’immenso Robot Chicken), ATHFCMFFT è esattamente quello che si può immaginare di un film i cui protagonisti, che vivono nel South Jersey, sono un frappé pigro, ignorante e egocentrico, una confezione di patatine colta e con il pizzetto che spara laser e usa le patatine come arti, e una palletta di carne tenera, ingenua, stupida, pacifica e puccissima. Senza contare i comprimari, tra cui un robot erotomane che sostiene di essere un personaggio di Dickens, o i due – appunto - Mooninites Ignignokt e Err, alieni bidimensionali, pixellosi e monocolorati in stile CGA.

Come fanno già capire la descrizione dei personaggi e dei fatti, che girano intorno al ritrovamento (e al faticosissimo montaggio) di una sorta di super-attrezzo ginnico mutante creato da uno scienziato pazzo e che cambierà le sorti del mondo, il film è una tale impresentabile sciocchezza che è impossibile non rimanerne rapiti. E non c’è nemmeno da tirare in ballo questioni di rilettura narrativa, pastiche finto-naif, parodia e rivisitazione dei generi, come in altri casi simili: questo film è pura dissoluzione anarchica, o una cosa che ci si avvicina molto. La linea che separa il genio dalla presa per il culo, in questo caso, è davvero sottilissima – ma via, ci si diverte come pazzi.

La campagna di cui parlavamo all’inizio ha funzionato piuttosto bene, e il film in patria ha recuperato i costi di ben sette volte. Dalle nostre parti invece, è quasi impensabile che esca: e per una volta non do nemmeno tutti i torti a quelli che, esaminatane l’assoluta demenza e lo spirito goliardico slegato da qualsivoglia legame con l’interesse e le esigenze di un pubblico "normale", deciderà di non comprarlo. Non nascondo che, nonostante tutto, lo trovo un peccato.

Indiscutibilmente geniali invece il poster (disegnato niente meno che da Boris Vallejo e signora) e l’incipit, ben prima dei titoli di testa, che demolisce un celebre spot da sala degli anni ’50 con l’aiuto dei Mastodon. Imperdibile.

 

Soffio (Breath) (Soom)
di Kim Ki-duk, 2007

Ai bei tempi, l’amico Gozu e io eravamo soliti sostenere la divertita sciocchezza che la filmografia di Kim Ki-duk fosse divisa in tre "fasce" ben distinte: i film bellissimi, quelli meravigliosi, e gli autentici capolavori. Stava poi al singolo distribuire i titoli nelle fasce: per esempio, The coast guard nella prima, Address Unknown nella seconda, Bad guy nella terza. Era un giochetto innocente, ovvio. Poi vennero L’arco e Time, e – come sappiamo – tutta la questione perse significato.

"Cos’è rimasto di quel cinema che ci faceva innamorare?", questo è il tipo di brutta domanda retorica con cui pensavo, o meglio temevo, di dover aprire questo post. Perché se Time, per esempio, era una svista perdonabile già a livello di progetto, Breath era concepito secondo traiettorie troppo promettenti per poter fallire il colpo. Invece l’ultimo film di Kim Ki-duk mi ha dato un impulso che, davvero, non mi aspettavo più. Forse è più un soffio leggero che un colpo di vento, ma mi ha saputo mostrare e dimostrare che il Nostro non ha ancora esaurito le sue carte.

E’ vero, Breath, per chi abbia masticato la filmografia di Kim, è un film facilissimo e quasi innocuo, in cui non c’è traccia dello strazio dei sensi che caratterizzava film come L’isola o Samaria. Per tutti gli altri, il discorso non è molto diverso: i simbolismi sono ancora spiattellati davanti agli occhi senza l’arbitrio della metafora, e non c’è molto da scoprire dietro questi corpi che si guardano, si feriscono, si danno e si tolgono la vita con la leggiadria di un bacio.

Ma è comunque la cosa che più si avvicina al cinema che aveva reso grande la fama di Kim dalle nostre parti, un film in cui Kim ritrova la migliore rappresenzazione della solitudine, dell’autolesionismo, e come negli anni migliori ritrova la sua inimitabile capacità di marcare il tempo con il silenzio, e di far parlare i corpi e gli sguardi. Trovando inoltre nei colori e nella musica di quelle stagioni paradossali uno dei momenti più felici e "completi" del suo cinema recente.

Se fossero ancora "quei tempi", che è difficile non ricordare con nostalgia – il tempo dei blog è differente: sembra davvero passata una vita intera – avrei davvero pochi dubbi sulla "fascia" in cui infilare Breath. Bellissimo.

Black sheep
di Jonathan King, 2006

"You’re a tree."
"I’m not a tree. I’m a fucking sheep!"

Ultimamente, qualcuno si è accorto che l’horror mischiato alla commedia è ancora capace di vendere, e si è ricominciato da ogni parte – anche se con una forte influenza britannica – a produrre film che mescolino l’horror di ispirazione "bassa" (perlopiù nell’impianto figurativo) alla commedia demenziale (a cui vengono lasciati di norma i dialoghi), senza che un genere schiacci l’altro – nel comico involontario da una parte o nella bieca parodia dall’altra. Da parte mia la considero una fortuna, perché non vedo cosa ci possa essere di meglio per passare una serata che una pecora inferocita che divora la bocca – o peggio, che strappa a morsi il membro virile di un ricco agricoltore.

Ma qui ci troviamo nella sconfinata verdissima Nuova Zelanda e, come hanno scritto e scriveranno tutti, non è difficile vedere in questa storia di DNA umani e ovini mescolati che causano per errore un vero e proprio esercito di pecore mannare (weresheeps?) echi del primo Peter Jackson. E lo so, che a raccontarlo questo film sembra solo una scemata: tutto sommato lo è, non c’è niente di male. Ma è anche un’operetta terribilmente consapevole di quello che fa, persino nello scivoloso contesto della "tradizione" (neozelandese e non: Jackson, Gordon, Yuzna, i nomi che girano son sempre quelli). Insomma, non si dà tante arie e va dritto dritto al sodo, come "ai bei tempi".

Forse però è riduttivo, o sminuente, trattare meramente Black Sheep come un tardo epigono. Anche se lo è. Perché l’esordiente King, nonostante un cast improbabile e uno script non sempre brillantissimo (ma Danielle Mason è bella e pure brava), e a parte qualche minuto in cui ti ritrovi a guardare il film ridendo a crepapelle dicendo "o questo tizio è un genio, o è pazzo, oppure ha perso completamente il controllo della situazione" e trovandoti certo su quest’ultima ipotesi, ce la mette tutta per farti divertire nel poco tempo concessogli (un’ottantina di minuti) e – perdiana! – ci riesce. Difficile volergli male.

Link1: ne ha parlato anche Gozu.
Link2: gli spagnoli ne sanno una più del diavolo.

[leone d'oro]

[I am there]

Rabdomanti, su Friday prejudice. Episodio 85.

[these go to eleven]
[inattesa rubrica quadrimestrale di ascolti compulsivi et ignoranti]

[2007, May-August]

[Carpacho! - La fuga dei cervelli] Inutile che io mi nasconda dietro un dito: ad oggi, il mio disco italiano dell’anno. Divertentissimo, travolgente, senza un attimo di tregua, in perfetto equilibrio tra l’avvenire e la nostalgia. Era dai tempi di Metallo non metallo che aspettavo un disco così.
[Okkervil river - The stage names] In soli 9 pezzi la band di Will Sheff fa impallidire quasi tutte le altre uscite di quest’anno. Un disco quasi perfetto – racchiuso tra la meravigliosa Our Live is Not a Movie or Maybe e una semi-cover finale da mangiarsi il cuore – che non si riesce a smettere di ascoltare.
[Spoon - Ga ga ga ga ga] Il sesto album della band di Austin è talmente ineccepibile sotto il profilo produttivo da rendere inutile ogni critica. E come se non bastasse, è pure bellissimo. Personalmente, il disco della mia prolungata primavera: una sequela di pezzi del genere ve la sognate.
[The national - Boxer] Un altro pianeta rispetto ad Alligator, come alla maggior parte dei dischi che sentiamo di solito, Boxer è un disco che ti entra nelle vene come un virus, lento e implacabile. Fake empire è uno degli incipit più incredibili che io ricordi. Ma anche il resto non è da meno.

[Art brut - It's a bit complicated] Dopo l’incredibile debutto, la band inglese "arrotonda" il sound, ma non perde molto della sua carica. Lo dimostrano tracce come People in love, forse il loro pezzo migliore.
[Ex-otago - Tanti saluti] Il disco del quartetto genovese è liberissimo, spassoso, anarcoide, squilibrato. Con la dovuta pazienza, irresistibile. E non sarà una meteora.
[Le man avec les lunettes - ?] La prima cosa che ho pensato è stata "come è possibile che dei miei concittadini facciano un disco così bello e complesso, beatlesiano eppure così maturo?". For a lover da incorniciare.
[Stars - In our bedroom after the war] Dopo Set yourself on fire era lecito aspettarsi una delusione, e invece il disco è davvero bellissimo, vario ed eclettico. Forse ancora il miglior pop che ci sia in giro.
[St. Vincent - Marry me] Scoperta come spalla di Andrew Bird a Londra, da sola sul palco è uno di quegli spettacoli di cui non ci si può non innamorare perdutamente. Il disco è differente, ma è anch’esso una rivelazione.
[The new pornographers - Challengers] Accolto altrove freddamente, non fa che riconfermare la lucidità della band canadese. Basta sentire la formidabile My Rights Versus Yours per capirlo: ed è solo la prima traccia.




[Architecture in Helskinki - Places like this] Ho l’impressione che abbiano sempre meno da dirmi. Non mettermi a ballare è un’altra cosa. Tiene botta.
[Canadians - A sky with no stars] L’esordio della lanciatissima band veronese è freschissimo, weezeriano, incalzante, avvincente. Avercene.
[Great lake swimmers - Ongiara] Forse il disco folk dell’anno, con pezzi incredibili come Backstage with the modern dancers e non solo.
[José González - In our nature] Il brillante ritorno del cantautore svedese è forse meno affascinante di Veneer. Ma lì c’era Heartbeats, troppo facile.
[Rufus Wainwright - Release the stars] Il quinto disco del noto cantautore canadese potrebbe farmi recuperare i quattro precedenti. Roba di classe.
[Sondre Lerche - Phantom Punch] L’ultimo disco del chitarrista norvegese è pieno di belle canzoni. Che sia così figo passa quasi in secondo piano.
[The clientele - God save the clientele] Da me adottati come rimpiazzo dei B&S, si sono poi rivelati uno dei dischi più appiccicosi dell’anno. Adorabile.
[Thurston Moore - Trees Outside The Academy] Il leader dei Sonic Youth, mica pizza e nutella. L’ho ascoltato ancora poco, e credo che crescerà.

[Interpol - Our love to admire] Dimenticabile, ma con un paio di pezzoni.
[Iron & Wine-The Shepherd's Dog] Non male: arduo non definirla delusione.
[Tunng - Good arrows] Problema mio. Ma mi rendo conto che è molto bello.
[Perturbazione - Pianissimo fortissimo] Leggi due righe sopra.
[Voxtrot - s/t] Real life version è una delle mie canzoni dell’anno. Ma punto.

Leggi l’episodio precedente.

Per tutto il resto, c’è il mio profilo su Last.fm. Buon ascolto.

nb, uguale a quell’altro
la rubrichetta non ha nessuna pretesa di completezza – perché mancano una valanga di dischi, quelli che ho sentito poco o che non ho sentito affatto – né tantomeno di competenza – perché sono solo un ascoltatore compulsivo et ignorante. inoltre, non sono presenti dischi "insufficienti": preferisco consigliarvi dei dischi da avere, piuttosto che dischi da evitare. che poi, si capisce, sono gli altri.

Sicko
di Michael Moore, 2007

Sicko è uno di quei film su cui mi piacerebbe soffermarmi, scrivere, discutere, dibattere, persino più del solito e forse più del dovuto, tanti sono gli stimoli che propone: non solo per l’argomento di cui tratta (il sistema sanitario statunitense: e se è vero che il film è esclusivamente "dedicato" al pubblico di colà, fin dai vocativi iniziali, altrettanto innegabili sono la sua comprensibilità e il suo interesse a livello globale – dote del film da non sottovalutare), ma anche per come la forma, "scimmiottando" come al solito il documentario, mostri più apertamente e programmaticamente la sua intenzione (anti-documentaristica per eccellenza, palpabilmente diretta verso l’impatto più immediato, non certo l’esposizione scientifica dei Fatti), e per come questa volta ci azzecchi in pieno.

Ultimamente però – almeno da quando ho visto Sicko, una settimana fa - ho dei seri problemi di natura dialettica e compositiva che mi impediscono di argomentare come si deve perché Sicko mi sia decisamente piaciuto (forse semplicemente per l’essermi sentito molto meno ricattato del solito), perché mi abbia divertito (l’umorismo di Moore, molto più maturo e consono ai miei gusti personali), perché mi abbia emozionato (al di là di faccende del tutto personali), perché gli si perdoni pure qualche nefandezza come quella ridicolaggine della donazione anonima (ma, nell’ottica del moorumentary, per una volta fila quasi tutto liscio), insomma, perché Sicko sì e Farenheit 9/11 no.

Mettere insieme quattro paragrafi quattro su Sicko senza scrivere le solite quattro stronzate sul cinema di Moore, magari spiegando perché mi lascino esterrefatto, soprattutto in questo preciso caso, certi feroci atteggiamenti anti-Moore, in queste condizioni non è affatto facile. Ohdaesu ci è riuscito. Linkando il suo post, che è chiaro e conciso e di cui condivido ogni parola, me la svicolo più brevemente.

Ora posso tornare alla mia personale crisi dislessica. Se il problema sussiste?

[intermission]


[transcript]