ottobre 2007

You are browsing the site archives by month.

Kill Buljo: The Movie, Tommy Wirkola 2007

Kill Buljo: The Movie
di Tommy Wirkola, 2007

Quanto è bello svegliarsi in un mondo in cui non solo si può urlare a gran voce “esiste una parodia norvegese di Kill Bill”, ma addirittura “ho visto una parodia norvegese di Kill Bill”? Cos’altro si può aggiungere? Solo il fatto che esista una parodia norvegese di Kill Bill, mi rende una persona più felice. Poi, è chiaro a tutti fin dalle premesse che il film è una colossale monata, girata con l’equivalente 150mila dollari solo per poter fare delle battute di pessimo gusto ai danni di lapponi e di antilapponi, e ancor più per poter girare una lunghissima sequenza di inseguimento tra moto da neve.

Ciò nonostante, l’occasione che mi si presenta, quella di parlare non solo di una parodia di Kill Bill, ma di una parodia norvegese di Kill Bill, è rara e ghiotta, e tenendo fede al dogma Norvegia! Nuova! Corea! spenderò qualche parola in più. Anche se è evidente che questa immensa boiata, che ha la valenza artistica di un film girato tra amici durante i weekend, potrebbe gettare un’ombra su ogni parola spesa in difesa e in promozione del cinema di Oslo.

Ma comunque, conservando la ferrea convinzione che questo film sia più divertente da raccontare che da vedere davvero, e per salvare il salvabile, ecco a voi questo post assurdo che si chiama

I 10 selling point di Kill Buljo

1. KILL BILL
Chiaramente, come già detto, il film si vende come La Parodia Di Kill Bill. Almeno, cerca di spacciarsi come tale per mezz’ora, poi (giuro) se ne dimentica completamente, prendendo una piega completamente scollegata che ha un che di avanguardistico. Seh. Nell’ottica di “parodia di Kill Bill”, la cosa migliore è tutta la sequenza in ospedale, che vado a raccontarvi nei suoi punti-cardine: mentre Jompa Tormann (il nostro eroe lappone, di cui riparleremo allo sfinimento) viene stuprato durante il coma, sogna tutta una serie di suggestioni che rimandano al sesso anale, tipo andare in bici senza sellino o andare da solo sull’altalena per due, fino a essere investito proprio lì dal getto di un idrante; Jompa si sveglia dal coma, si alza sul letto, e si ritrova in bocca un numero vergognoso di profilattici, ovviamente usati; gli scappa da pisciare, mette la padella per terra e ci piscia come in una turca, ma non basta, allora mette per terra il cassetto di una scrivania e ci piscia, ma non basta. Stacc su un numero imprecisato di contenitori a terra, tra cui (sic) una scatola di fiammiferi, tutti pieni di piscia. Punchline: “such a small fucking cock and such a large amount of urine”.

2. IL LOOK
Il protagonista Jompa è un lappone, e per questo non solo viene deriso e stigmatizzato dal co-protagonista che lo insegue ingiustamente, un poliziotto che odia a morte tutti i lapponi e tutte le donne chiamato Sid Wisløff e intepretato (malissimo) da Wirkola stesso, ma ha sempre questa orrenda fascia etnicolappone sui capelli che fa il paio con i suoi meravigliosi baffoni. Da segnalare però apparizioni secondarie, come il padre del poliziotto nel flashback, che indossa una maglia bianca a rete, per di più piena di buchi, e soprattutto il tamarro che stupra Jompa mentre è in coma: sfoggia una minuscola giacchetta di pelle nera sotto cui fa bella mostra di sé un orrendo petto glabro e lucido.

3. IL MOMENTO SESSUALMENTE SCORRETTO
I cattivoni si nascondono in un allevamento di vacche: ci vuol poco a scoprire che uno di loro usa gli animali per scopi non propriamente alimentari.

4. LA MISOGINIA
Il poliziotto intepretato da Wirkola è uno dei personaggi più cinematograficamente spiacevoli che io ricordi, ciò nonostante la sua esagerata misoginia non può essere tralasciato come selling point, al giorno d’oggi. La sintesi del personaggio è probabilmente la scena in cui incontra la sua aiutante, una “pathfinder” lappone, peraltro particolarmente figa. Lei arriva vestita con dei coloratissimi abiti tradizionali lapponi, e gli dice “Boris” che in lappone significa, tipo, “Ciao”. Risposta di lui: “Chiamami Boris un’altra volta e ti apro un altro buco nel culo”, alla quale aggiunge un invito a mettersi addosso dei vestiti civili. Alla richiesta del dovuto rispetto professionale da parte di lei, la risposta di lui è: “Sei una lappone, e una donna: dove entra in gioco il rispetto?”.

5. L’ACCENNO DI SOTTOTRAMA CHE FA IMPAZZIRE IL FANDOM
Quando si incontrano in una taverna Jompa e la poliziotta, peraltro particolarmente figa, che lo contatta per difenderlo dalle accuse di Sid Wisløff e che diventerà la sua amante, il dialogo suona più o meno così:
(lei) “Io lo so, cosa hai fatto”.
(lui) “Mi aveva detto di avere 16 anni, lo giuro”.
(lei) “Cosa?”.
(lui) “Ah, niente, niente”.

6. IL METACINEMA
Dalla stessa sequenza parte un interminabile flashback amoroso, introdotto da Jompa: dopo aver detto la suggestiva frase “Aspetta, sono già stato ferito”, il nostro eroe si gira verso la macchina da presa con il dito puntato e dice “Vai col flashback!”. Lo so che è triste, è quel che passa il convento raga.

7. IL FLASHBACK AMOROSO
Momento di massimo stimolo erotico del film, il flashback amoroso di cui sopra non solo contiene una parodia di Titanic in cui la tipa in questione, peraltro particolarmente figa, ma questa volta con una faccia da puttanone che lévati, finisce sbudellata dal motore della barchetta, ma anche una scena – la più riprodotta se cercate il film su Google Images – in cui Jompa e la tipa in questione fanno petting immersi nel pesce crudo.

8. IL CLASSICO DEMENZIALE MERIGANO
La sequenza più riuscita nell’ottica del Classico Demenziale Merigano è probabilmente quella in cui Jompa spia i cattivi mentre questi stanno dentro a questa specie di rifugio montano. Primo: loro sono stati appena raggiunti da una bodyguard, peraltro particolarmente figa, un clone di Lara Croft che si chiama (ve lo giuro) Lara Kofta (e no, questa non la spiegano proprio), e si mettono (ve lo giuro) a giocare a Twister. Secondo: lui fa la nota gag del Classico Demenziale Merigano per cui fa rumori sempre più assurdi senza che i cattivi lo sentano, e poi rompe un rametto e lo sentono: ma il culmine comico arriva quando mette il piede su una tastierina Bontempi, da cui escono le note di Fight Club.
(mioddio, questa cosa è talmente bella che a raccontarla sembra che me la sia inventata io, tanto non vi metterete di certo a verificare)

9. LE PUNCHLINE DI JOMPA
Come ogni eroe action che si rispetti, anche Jompa uccide i cattivi in modo creativo e truculento, e poi prorompe in una bellissima battuta sprezzante à la Bruce Willis. Nell’ordine:
- il cattivo equivalente di Daryl Hannah, qui schifoso ciccione pedofilo, viene decapitato con l’ausilio di un misuratore della pressione. Punchline: “Stress, man, it’s a killer”.
- il cattivo x viene decapitato con la katana e la testa cade sulla neve. Punchline: “So much for keeping a cool head”.
- il cattivo y aveva per tutto il film una mascherina nera senza buchi, Jompa combattendo gliela toglie, lui è tutto contento perché finalmente ci vede, oggesù, e dice “I can see! I can see!”, al che Jompa lo alza e lo decapita con le pale del ventilatore da soffitto. Punchline: “Yes. But you didn’t see the fan.”

9b. LE PUNCHLINE SESSUALI DI JOMPA
Nella sequenza in cui Jompa e la poliziotta finalmente si baciano e fanno dei coiti, c’è tra di loro, tra un bacio e l’altro, il seguente dialogo. Sento dentro il dovere di trascriverlo interamente.
Lei: Jompa, i’m not wearing any underwear.
Lui: Tsk, talk about being forgetful.
Lei: Jompa, i feel there is something special and unexplainable between us.
Lui: Relax, it’s just my dick
Lei: Oh, Jompa! Jompa!
Lui: Shht. Less talk, more fucking.

10. LA SEQUENZA D’AZIONE
Come già accennato in precedenza, tutto il film è un pretesto per poterci ficcare in mezzo uno spettacolare inseguimento tra moto da neve. La sequenza in questione è effettivamente abbastanza ben fatta, soprattutto considerando la gente che vi è coinvolta.
Peccato che tutto intorno ci sia Kill Buljo.

In chiusura, vorrei sottolineare una volta per tutte che nel vedere l’impresentabile stronzata che è Kill Buljo mi sono in realtà divertito come un deficiente, e che l’ho pure parzialmente riguardato per scrivere questo post, il che fa di me solo uno snob, paraculo e cerchiobottista. Buona visione.

[post in attesa]



They shot my girl. My whole family. Even the reindeer.
But they made one big mistake: they thought I was dead.

Secret Sunshine, Lee Chang-dong 2007

Secret sunshine (Milyang)

di Lee Chang-dong, 2007

Una giovane donna, rimasta vedova, si trasferisce da Seoul alla Milyang del titolo (secret sunshine è il significato etimologico), piccolo centro periferico di centomila abitanti dove suo marito era nato e cresciuto, per elaborarne la perdita e per ricominciare una vita differente. Verrà trafitta presto da un’altra tragedia, le cui reazioni la travolgeranno attraverso la crisi mistica, l’aggressività, l’autolesionismo, la rinuncia.

Al suo quarto film dopo Green fish, Peppermint Candy e Oasis, il celeberrimo romanziere e regista, nonché ex ministro della cultura sudcoreano, Lee Chang-dong torna a raccontare una storia che, nel contesto più collettivo possibile (qui il contrasto relazionale tra città e provincia), va in verità a scavare nell’intimità più profonda dell’animo umano. Secret sunshine è infatti un film sull’accettazione del dolore e sulla sua impossibilità, più antologico che antropologico nel tentativo di rappresentarne le manifestazioni, le reazioni, l’epifania e l’abbandono.

Un film ondivago e trasversale (ondivago nella rappresentazione e trasversale nella narrazione, e viceversa) girato per solenni accumuli (con una divisione in “settori” che tradisce l’amore di Lee per il racconto scritto) e poi per impietose sottrazioni (come il finale tronco), che sfrutta la straordinaria prova della protagonista Jeon Do-yeon per tracciare un percorso, umanista nel migliore dei sensi (ovvero di chi coglie non solo la profondità ma anche la contradditorietà di essere umano) e intellettualmente impagabile. E’ anche però un film che richiede allo spettatore una pazienza maggiore che in passato, per apprezzarlo in pieno.

Non perché sia noioso, nonostante la lunghissima durata: piuttosto perché non è così facile – per una certa benvoluta negazione, quando non un ribaltamento, dei crismi del melodramma – entrare, a piè pari, nella sfera emozionale della protagonista. La struttura ambigua e ricercata, che fa terminare il melò tradizionale dopo poco più di un’ora, per poi allungarne le conseguenze nella seconda metà, non aiuta a buttarci il cuore. A meno, ovviamente, di abbandonarsi del tutto nella vicenda, che di per sé è assolutamente straziante, anche se corretta e misurata grazie al contraltare recitativo del solito incredibile Song Kang-ho, e a inaspettati tocchi (mai ridicoli ma) ironici – magistrali quando vanno impietosamente a colpire la tentazione dell’uomo di pensarsi superiore al proprio dolore, per intervento divino – che cozzano volutamente con l’abisso di disperazione che coinvolge la sua protagonista.

Secret sunshine è forse, insomma, il film più difficile, complesso, stratificato, ma soprattutto il più disperatamente coerente, di Lee Chang-dong: il che non significa affatto che non si possa amare alla follia.

[addio]

E’ morto Zampetti. Fine di un’era?

[bella lì]

Juno ha vinto la Festa di Roma.

[messaggio ai sopravviventi dell'etere]

Non avete soldi per comprarvi i cofanetti Rarovideo? Non vi fidate di comprare i dvd sull’internet? Non avete Sky, né amici con Sky? Non avete mai avuto l’ADSL né un amico con l’ADSL? Ce l’avete ma non sapete usare il p2p? Siete mortalmente pigri? Avete altre scuse o giustificazioni?
Questa notte non ne avete: Rai3 trasmette l’imperdibile terzetto di film diretti da Kim Ki-duk e pubblicati nel suddetto cofanetto, ovvero gli stupefacenti L’isola e Indirizzo sconosciuto – già passati diverse volte negli spazi di Fuori Orario – e soprattutto Bad Guy, capolavoro "carnale" del regista coreano, e tra i vertici assoluti del cinema di Seoul. Non ci provate.

[un'immagine del nuovo film di Coppola]

Vediamo solo macchine proiettili, su Friday Prejudice. Cliccargh.

Songs from the second floor (Sånger från andra våningen)
di Roy Andersson, 2000

In una plumbea città in cui un inspiegabile traffico e un interminabile corteo di flagellanti sembra aver bloccato ogni via di fuga, alcuni personaggi, con il passo e il colorito dei cadaveri, si aggirano vittime della catastrofe che essi stessi hanno causato, mentre il mondo affoga nella follia e affida le sue ultime speranze alla pura irrazionalità, e mentre il poeta, che con le parole di César Vallejo è "colui che sta seduto" (come la macchina da presa di Andersson), l’unico ad avere il filtro con cui osservare impassibile questo disperato e grigio armageddon, soffoca la sua impotenza silenziosa nel letto di un ospedale psichiatrico, e guarda l’apocalisse tra le lacrime.

Tra citazioni inaspettate (quella esplicita del pythoniano Senso della vita) e suggestioni simboliste che si rifanno alla satira surrealista di Luis Bunuel, con la sua terrificante coerenza stilistica (il film è un alternarsi di "quadri", a camera fissa – con l’eccezione di un carrello all’indietro sulla banchina di una stazione – e con una profondità di campo prospettico portata spesso al parossismo) e la resa scenografica e fotografica che lascia senza parole, il film dello svedese Andersson è sì un oggetto "strano e curioso": ma non si ferma affatto a compiacersi della propria bizzarria, anzi riesce a trasformare la sua complessa visionarietà in un acceso pamphlet sulla contemporaneità di fronte a cui è difficile rimanere indifferenti.

Comunque la si veda, che si apprezzi o meno il suo spirito caustico, saggiamente sornione nonostante tutto, a suo modo poetico, divertito ma profondamente crudele nei confronti di un’umanità (nordeuropea, ma non specificamente) condannata all’apocalisse dalla loro stessa disumanizzata società capitalistica, Songs from the second floor è un film che va assolutamente recuperato, non fosse altro che per la maestosità visiva, che è quasi ingrato riprodurre sugli schermi casalinghi. Ma c’è molto altro.

Ne parlò poco tempo fa il magnifico Contenebbia in questo post.

Ratatouille, Brad Bird 2007

Ratatouille
di Brad Bird, 2007

Diciamocela tutta: ho davvero bisogno di scrivere questo post?

Ho visto Ratatouille giovedì sera, sono passate quasi 48 ore e non ne ho ancora scritto, se non trascrivendo urla di giubilo in commenti miei e altrui. Mettiamola così: ci sono volte in cui le aspettative sono alte e vengono rispettate. Alcune volte, più rare, in cui le aspettative sono enormi e vengono rispettate. Ma pochissime sono le volte in cui le aspettative sono enormi e vengono travalicate. Travalicate. Ecco, quelli sono i casi in cui non mi resta nulla da dire.

Solo andate a vedere Ratatouille ora. Innamoratevi del cinema, un’altra volta. Sarà l’ultima e la prima volta che entrerete in una sala. Annichilite le vostre convinzioni tra una corsa e l’altra, tra un sapore e l’altro, tra i sapori divenuti suoni, colori, visioni. Date un morso alla ratatouille dello chef Brad Bird, un piatto che è insieme l’alfa e l’omega del cinema, la semplicità della ricetta e la gioia dell’innovazione e della scoperta, e – ovviamente – l’inesplicabile sapore del genio. Tornate bambini. Non significa tornare stupidi o ingenui. Significa andare al cinema e gioirne.

Quando ho visto Ratatouille volevo fare un post su una scena sola. Quella scena. Pensavo fosse pure una bella idea, fino a 10 minuti fa. Poi mi sono reso conto che la scena, la stessa scena, l’avevano citata tutti come la vetta del film, e chiunque lo farà in futuro, negli anni a venire, e allora non aveva più molto senso. Ma comunque.

Nella scena c’è un critico culinario grigio e triste, magistrale epitome del villain disneyano contemporaneo, che trova la sua redenzione attraverso il morso di un piatto – ancora una volta, la suggestione proustiana che si impossessa del cinema statunitense, ma stavolta, in che modo! – rivivendo in un infinito istante la propria infanzia. Una bicicletta rotta lasciata fuori dalla porta, una lacrima, una carezza, una ratatouille. Il flashback di Anton Ego è una scena che segna uno scarto. Storico? Non saprei. Ma nemmeno la Pixar ha mai fatto niente di simile.

Poi mi sono ricordato che c’è tutto il resto del film, dalla fuga sotto lo pioggia ad un bacio appassionato dato per sbaglio, e ho pensato che non volevo più parlarne, di questo film incredibile, sconvolgente, perfetto, per non incappare in possibili polemiche – che non ci saranno! – riguardo al passato della Pixar, al futuro della Pixar (quel Wall-E che ci fa piangere solo con un trailer di pochi secondi, e lì c’è in ballo un altro scarto, di ambizione questa volta, che i nostri cuori difficilmente reggeranno), e alla benedetta parola con la C.

Volevo solo rivederlo un’altra volta, e un’altra ancora. Sublime.

[post in attesa]

[goodbye]

E’ morta Deborah Kerr.

[rat-a-to-ee]

Le nouveau épisode de Le préjugé du vendredi.

Friday Prejudice, insomma. Qui.

Once
di John Carney, 2006

Una delle cose più belle di Once è che ha un’aneddotica sterminata, e nella maggior parte dei casi molto curiosa: Carney, ex bassista dei The Frames divenuto regista, propone all’amico Glen Hansard (cantante del gruppo e fresco di esordio solista) di fare un film costruito sulle sue canzoni. Tira su una cifretta irrisoria con i fondi statali irlandesi e rimpinguando con i propri risparmi, coinvolgendo nel progetto chiunque, familiari e amici compresi, mette la collega di disco (la meravigliosa giovane musicista ceca Markéta Irglová) a fare il ruolo femminile, e – visto che Hansard dopo il suo celebre ruolo in The Committments non ne aveva più voluto saperne, del cine – scritturano l’amico Cillian Murphy per quello maschile: ma quest’ultimo si ritira per insufficienza di estensione vocale. Cosa vuoi, non son mica buoni tutti, a cantare come Glen Hansard, che infatti, seppur titubante, accetta di interpretare il film.

E infine, dopo un’altra manciata di curiosità (tra cui l’inatteso successo di critica e di pubblico), la stessa storia d’amore che nel film viene negata da un malinconico sguardo fuori dalla finestra e da un biglietto per un’altra città (ma ribadita da un pianoforte nuovo, che avrà il suono della sua voce, dentro) è divenuta, nella realtà, una cosa vera. Superando di gran lunga la nostra filosofia, accontentando invece i nostri sguardi.

Ma per l’aneddotica c’è la ricca pagina di Wikipedia. Parliamo del film.

Una delle cose più belle di Once è che è fatto di nulla, e che quindi può permettersi tutto. Può fare di necessità virtù intraprendendo dolly e carrelli, può insistere perlopiù sulla camera a mano che più si addice alle insistenze malinconiche e alle desistenze romantiche dei nostri (una giovane colf con figlia a carico e un orecchio micidiale, e un busker abbandonato che ripara aspirapolveri), può come in un vero musical far parlare le canzoni – le incredibili canzoni di Glen Hansard, che nella strana dimensione simil-live data loro dal film acquistano ancora più vigore, forza, commozione – ma senza stare lì a incastrarne le semantiche bensì facendo parlare le voci, i toni, i suoni. E poi, perché no, le parole. Può permettersi di vagare distrattamente per un’ora e un quarto tra le strade di Dublino, e nei cuori dei due protagonisti, tra frasi dette di troppo e frasi dimenticate, tra simbiosi necessarie e armonie improvvisate, tra vicini teledipendenti e aspirapolveri al guinzaglio, senza annoiarti un attimo.

Once è uno di quei film di cui non comprendi il fascino. Ti avvolge, e basta.

Ma per il film ci sono decine di voci entusiaste. Parliamo di Glen Hansard.

Io, quasi un anno fa, ho visto Glen Hansard e ho pianto. Non me lo ricordo più, se uscivano proprio lacrime, non me lo ricordo più, che pezzo fosse, ma ero sotto di lui, sotto la sua chitarra, mentre la sua voce – un pezzo solista, senza amplificazione, solo lui, la sua voce, la sua chitarra, tutte le nostre orecchie – riempiva il locale spalancando bocche, spezzando cuori. Spalancando cuori. E piangevo, ah sì, ne sono certo, magari solo dentro. Ero a Milano da poco, e conoscevo la musica dei The Frames da pochi giorni: ma quel concerto, quella sera non la dimenticherò facilmente. E lì, cosa vuoi, Hansard passa un po’ in secondo piano, perché va bene che è un artista eccezionale, che è un simpatico marpione e un puccissimo pezzo di pane, ma il resto, tutto il resto, l’abbiamo fatto noi.

Questo non toglie che da queste parti sia soliti dargli qualche merito. Forse perché ha spalancato pure il mio, di cuore. O almeno, gli ha dato una spintarella.

[post in attesa]


Take this sinking boat and point it home, we’ve still got time
Raise your hopeful voice, you had a choice, you’ve made it now

Stardust
di Matthew Vaughn, 2007

Mi rendo conto di quanto sia una pratica antipatica, ma ci sono delle volte in cui è davvero difficile parlare di un film prescindendo dall’opera letteraria da cui è tratto. E non è una questione che riguarda il valore intrinseco dell’opera, bensì il rapporto soggettivo tra le due opere e il fruitore e/o amatore. In questo caso specifico, per esempio, Stardust è un romanzo breve di Neil Gaiman che ho letto in tempi molto recenti e che ho particolarmente amato. Da una parte è quindi possibile, soprattutto perché il film stesso è prodotto (ma più che altro patrocinato) da Gaiman stesso, intravedere quanto del libro sia rimasto nel film, e dall’altra parte farne del tutto a meno. Esercizio probabilmente spregevole, si diceva: ma utile per vedere, come si noterà più avanti, che i risultati sono più imprevedibili di quanto di creda.

L’introduzione a questo breve testo serve in realtà, più che a identificare un metodo, a trarre la metà delle conclusioni già implicite: chi vi scrive è ben lungi dall’affermare che il testo letterario sia sempre migliore del testo visivo (perché ne va dell’immagine vulgata del cinefilo, e perché è una banalità intrisa di menzogna che a volte sfocia nella superstizione medievale), e se in questo caso si può dire con facilità che tra Stardust e Stardust ci stiano interi pianeti è per una quantità di considerazioni e non per credenza aprioristica. I fatti principali sono due, piuttosto evidenti agli occhi: il primo è che un testo che doveva il suo fascino maturo soprattutto al recupero di una tradizione dimenticata, rifacendosi alla letteratura fantastica pre-tolkeniana, è divenuto con la sua trasposizione un mero film per ragazzi – magari maturi, ma non per forza sveglissimi – che ha dalla sua la naivite della bedtime story (e ben venga) ma più come ammiccamento superficiale (postmoderno, ahinoi) che come gusto narrativo. Cinema per ragazzi, poi, si diceva: di un certo livello, con un buon cast, ma è pur sempre un’altra faccenda rispetto all’avventurosa, romantica e malinconica cupezza del libro. Secondo fatto, l’evidente fretta con cui gli autori del film hanno desiderato liberarsi del fardello del libro stesso, con parti spesso irrappresentabili o poco funzionale a una resa visiva, per potersi dedicare ad altro – scelta che fa il paio con quella di ridurre drasticamente il tempo della fabula (da molti mesi a sette giorni) e persino lo spazio e le distanze all’interno di esso.

E qui avviene il passaggio a quello di cui ci saremmo dovuti dedicare da principio, saltando a pié pari l’intero paragrafo precedente. Ovvero: ora che si è detto che il film tradisce in parte, e sfavorevolmente, lo spirito del libro, e – accompagnato da un coro di chissenefrega – che non è alla sua altezza, cosa rimane di questo film, come oggetto a sé stante? Mi ricollego a quanto appena detto: se da un lato le parti tradotte con una certa fedeltà risultano frettolose e sbrigative, persino fastidiosamente, e immagino che l’effetto sia notabile anche da chi non ha fruito del libro (e si sta parlando di quasi tutta la prima metà, e del brutto finale in cui gli autori hanno tagliato la testa al toro con una specie di riassuntino), dall’altro lato è proprio il numero di libertà prese da Vaughn e soci a rendere piacevolissima tutta la seconda parte. E chi l’avrebbe detto: è proprio accantonando il testo gaimaniano che si sono raggiunti i risultati migliori, alla faccia di ogni possibile affezione o fanatismo. E così, a parte eccezioni come i fratelli fantasma, resi in modo eccezionale e perfettamente in sintonia con l’umorismo nerissimo di Gaiman, sono le cose più apparentemente posticce (come il De Niro en travesti, la comparsata di Ricky Gervais, i lunghissimi e coinvolgenti duelli finali – con eccezionali trovate visive) ad essere le più divertenti e coinvolgenti dell’intero baraccone.

Probabilmente a questo punto ci si può chiedere anche perché spendere tutte queste parole: Stardust è un film meno soddisfacente di quanto avremmo sperato, narrativamente un po’ involuto, produttivamente un po’ cheap: ma vale assolutamente una visione, anche solo per quei (non pochi) tratti da cui fuoriesce, o si intuisce, la voglia di immergersi nel più autentico gusto del racconto, di scansare con una spallata le riletture critiche, le parodie, gli omaggi, giù giù fino ai canoni prestabiliti del fantasy e di nuovo su su fino al pesante macigno jacksoniano, il tutto in nome del potere della magia e dell’amore. E anche se è ci si è riusciti così così, pazienza: qui si è disposti benevolmente a perdonare.

Den brysomme mannen (The bothersome man)
di Jens Lien, 2006

Den brysomme mannen, presentato alla Semaine di Cannes 2006 e vincitore di diversi premi in patria (tra cui il prestigioso Filmkritikerprisen di quest’anno, a pari merito con Reprise) ha una trama sfuggente, difficile da raccontare, e che porta molto fuori strada. Comunque: dopo un incipit in cui sembra buttarsi sotto un treno della metropolitana mentre due sconosciuti si baciano voluttuosamente sulla banchina, un uomo chiamato Andreas si ritrova accolto in una città senza odori né sapoti, dove gli viene assegnato un appartamento e un lavoro e dove, presto, troverà anche una compagna e un’amante. Fino a quando non si farà sentire la voglia di libertà da questo grigio contrappasso.

Va detto da principio, nel caso scegliate di avventurarvi nel mondo bizzarro e tardo-surrealista di Den brysomme mannen: è inutile cercare una spiegazione razionale o lineare a quello che accade ad Andreas. Nonostante si tratti con tutta certezza di una sorta di esperienza post-mortem, Lien e lo sceneggiatore di fiducia Per Schreiner (che ha tratto il film da un suo stesso testo radiofonico) fanno capire molto in fretta che il loro interesse è puramente metaforico, all’interno in un’ esplicita riflessione sulla disumanizzazione della società scandinava (o della società in generale). Il contesto narrativo si trasforma così in fretta in un pretesto, e i personaggi stessi, anche se divenuti ormai immortali, in pedine di un meccanismo circolare e crudele ben più grande di loro.

Pretesto assai suggestivo, comunque: se è difficile trovare un film a tesi così immerso nella sua Tesi da mettere da parte per tutta la sua durata (finale tronco/aperto compreso) le esigenze dello spettatore (e non è detto che sia un male, poi dipende dallo spettatore) d’altra parte la resa visiva del film è davvero affascinante e lucidissima, e allontana qualunque "tendenza" riconosciuta o riconoscibile per trasmettere l’inquietudine dell’assenza di emozioni attraverso i toni di grigio, le architetture spoglie, la satira glaciale ma impietosa del mondo del lavoro e delle abitudini borghesi.

E se è davvero ampio il ventaglio dei riferimenti (certo cinema di Lynch, serie come Il prigioniero, il teatro dell’assurdo, il gore spinto dei cartoon contemporanei) il quarantenne norvegese Jens Lien, nel suo primo lungometraggio ad avere una notevole risonanza internazionale, dimostra una grandissima personalità, uno smaliziato senso dell’humor, un eclettismo spesso beffardo, e soprattutto un impressionante talento nella gestione dei tempi e degli spazi. Tanto di cappello.

Abbiamo tramesso la rubrica Norvegia! Nuova! Corea!

1408
di Mikael Håfström, 2007

Lo scrittore Mike Enslin, divenuto cinico e disilluso per via di un lutto familiare, tira a campare passando le sue notti negli alberghi più spettrali per poi redarre delle schede sulla paurosità dell’esperienza (con tanto di "pallette") all’interno di appropriate guide turistiche, con la convinzione agnostica che non ci sia in ogni caso nulla di cui avere paura. Fino a quando una misteriosa cartolina non lo invita a visitare la stanza 1408 di un hotel a New York.

Ottimo successo al botteghino nell’ultima estate USA, tratto da un racconto di Stephen King di qualche anno fa, il secondo film americano del regista svedese Håfström ("esportato" dopo il relativo successo internazionale del film Evil) dopo il criticamente disastroso Derailed, è questa volta un film deciso e robusto, ben più entusiasmante nel suo svolgimento che nelle sue prevedibili premesse. A farla da padrone è la sceneggiatura a sei mani (tra cui Scott Alexander e Larry Karaszewski, che hanno scritto Ed Wood e Man on the moon), uno script intelligente e originale che sa sfruttare con sapienza le risapute (ma non scritte) leggi del ribaltamento di prospettiva e del coup de théâtre, senza sforzarsi troppo a rileggerle ma dando comunque qualche sonoro calcio nei denti alle aspettative dello spettatore.

In definitiva, un film molto divertente, one-man show recitato con carattere (John Cusack ha pur sempre spalle forti, ed è sempre un bel vedere), ricco di inventiva e di trovate (la doppia sequenza dell’ufficio postale, per dirne una), divertitamente animista e sinceramente paurosetto. Non potevamo chiedere molto di più, suppongo.

Nota: il finale previsto dalla sceneggiatura è stato rigirato per le sale in una versione più "morbida" dopo gli esiti negativi di alcuni test audience, ed è stato successivamente reintegrato nel DVD come contenuto speciale. Però io ho visto quello originale, che è molto riuscito: un ammassetto confusionario di chiuse, ma assai coerente e bello tosto. Solo per dire che al momento non è dato sapere che finale vedremo dalle nostre parti.

Al cinema dal 23 Novembre 2007

[solo stardust]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Right now.

2 giorni a Parigi (2 days in Paris)
di Julie Delpy, 2007

Ammetto, e non è la prima volta che lo faccio, di non avere nessuna voglia di scrivere questo post. Un po’ perché ho come l’impressione che negli ultimi tempi ci sia – dalle parti dei blog cinematografici come altrove, ma il primo insieme mi preme ben maggiormente – la tentazione a far diventare di ogni discordia una polemica, di ogni differenza un battibecco. E da queste parti il quieto (con)vivere, a costo di ignorare a denti stretti i toni meno pacati, è sempre stata – si può dire – quasi una regola non scritta. Nella maggior parte dei casi, rispettata e funzionale. Chiamatelo pure buonismo – che brutta parola – se volete, affari vostri. Però i tempi cambiano, e a uno, dopo un po’, passa la voglia.

L’altro motivo, più pertinente a questo post nato monco, è che 2 days in Paris non è propriamente l’oggetto cinematografico più stimolante degli ultimi tempi, nonostante l’esplicito apprezzamento dimostrato da altre parti. Intendiamoci, la Delpy fa il suo lavoro come si deve, presenta una storiellina antiromantica sulla scoperta tardiva dei propri limiti e sull’impossibilità dell’idillio amoroso, usa finalmente Adam Golberg come protagonista (il ragazzo è ripetitivo ma talentuoso, e l’ebreo americano paranoico gli viene benissimo) e ha l’autoironia di dipingere se stessa come la più grossa matta sociopatica stracciacazzi di sempre – con l’impressione ben poco vaga che ci sia del vero. L’impegno a non dire troppe stupidate c’è e si vede tutto.

Ma 2 days in Paris è un film che non solo non sono riuscito ad amare: l’ho davvero sopportato a malapena. E decisamente maldigerito, alla fine. Non tanto perché farebbe diventare scemo chiunque abbia dei problemi di gestione della pazienza riguardo alla comicità basata sul reiterato imbarazzo spettatoriale (l’ho detto più volte, mi ci metto nel mezzo), ma perché avere da giocare delle carte così buone, anche se false, e perdere tutte le partite in modo così impunito, è un piccolo delitto nei confronti della commedia. Ora, suvvia, non esageriamo, ci siamo anche divertiti, a tratti: ma perché ora, dopo due giorni, non voglio che parlarne malissimo?

Il post è finito. Mi rendo conto che andarmene così è da vigliacchi, e che dovrei spiegare meglio i perché no rispetto ai perché sì, in casi come questo. Ma, come ho detto in apertura, non ne ho nessuna voglia.

Adam Golberg senza barba è uguale a Sylar pure lui.

[tonite]
[o meglio yesterdaynite pure stavolta]

Menomena feat. Craig Thompson @ La Casa 139, Milano

Menomena: Official site, Myspace, Wikipedia, Allmusic, Lastfm
Craig Thompson: Official site, Blog, Wikipedia.

Rotten hell video directed by War & Julius.