ottobre 2007

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The Old Garden, Im Sang-soo 2006

The old garden (Orae-doen jeongwon)
di Im Sang-soo, 2006

Oh Hyun-Woo è un ex militante socialista uscito di prigione dopo più di 15 anni che, venuto a conoscenza della scomparsa della sua compagna Han Yoon-Hee, ripercorre nella sua memoria le tappe del loro incontro, a partire dal massacro di Gwangju fino alla sua cattura. I dipinti della donna e le sue lettere, mai giunte in carcere e conservate dalla madre, serviranno a raccontargli tutto il resto.

Dopo il magnifico The president’s last bang, il cinema di Im Sang-soo continua, con un movimento quasi lineare, a interrogarsi sulla storia della Corea del Sud alternando il fatto storico a una visione dolorosamente personale delle vite dei suoi protagonisti. E se là c’era una rilettura grottesca e violenta dell’assassinio del presidente Park Chung-hee, a essere dipinti in questo film sono la primavera di Seoul, le sue conseguenze, il clima politico e sociale degli anni ’80 in Corea, la militanza oppositiva e l’oppressione militare, ma sullo sfondo di un vero e proprio melodramma.

Rispetto all’asciuttezza e alla strabiliante alterità del film precedente, The old garden è quindi senza dubbio un film di più ampio respiro, sia storico che narrativo (per come rifiuta l’unità di tempo e spazio per allargare la visuale in uno stratificato meccanismo di flashback), che viene certamente più a patti con i gusti del pubblico (nonostante sia comunque durissimo, coraggioso e persino sfrontato) e non v’è dubbio che si perda buona parte di quell’originalità che faceva di The president’s last bang un oggetto alieno persino in un panorama come quello coreano. D’altra parte, la scelta di inserirsi nei canoni del melodramma spesso fa sentire il suo peso, come nell’improbabile inquadratura-quadro finale.

Ma Im è un regista che come pochi altri sa accostarsi alla Storia guardandola dritta in faccia, capace di fare un film profondamente politico che affronta senza mezze misure le contraddizioni di una e dell’altra parte, proponendo una visione della Storia per nulla rassicurante né rasserenata che – a costo di capire qualcosa di quello che sta accadendo: ma basta informarsi un po’ prima della visione – sa davvero commuovere, ma anche un film visivamente straordinario che non rinuncia affatto alla forte e liberissima personalità stilistica.

Magistrale la prova di Yeom Jeong-ah, già apprezzata come “matrigna” in Two sisters, non tanto per la mutazione assai tipica provocata dalla malattia del suo personaggio, ma per come sia riuscita a raccontare attraverso l’intensità del suo sguardo la sottrazione dei sentimenti, la frustrazione, l’attesa.

[post in attesa]

"I hide you, put you up
and feed you, even let you fuck me.

Why would you leave? 
So long, you idiot.
"

[hype]

Nel caso qualcuno non l’avesse ancora visto, dico.

[spinguinamento generale]

Certe battute non invecchiano mai.

Il nuovo episodio di Friday Prejudice! E’! Una! Settimana! Fiacca!

[el pube è un pilota - il ritorno]

Dopo un’assenza durata mesi (e che si protrarrà per altrettanto, spero, nel futuro) torna la vostra amata rubrichetta sui nuovi episodi delle serie che preferite ma soprattutto sui piloti di quelle che preferirete. Andiamo a cominciare, c’è tanta roba.


Bionic woman, NBC
Brevemente: dopo un incidente, una barista con sorellina a carico viene parzialmente "ricostruita" con protesi bioniche.

Probabilmente a voi suonerà una scemata, proprio come suonò a me quando sentii la prima volta che avrebbero fatto il remake della serie con Lindsay Wagner. Invece il pilota di Bionic woman è proprio tosto, non eccellente né irresistibile ma con alcuni momenti davvero pazzeschi (il risveglio horror nell’ospedale, il primo "salto"). Dagli anni ’70 le cose sono molto cambiate, e la serie risente moltissimo dell’influenza di Alias, ma per quanto ci rendiamo conto che l’infatuazione durerà poco per ora siamo innamorati pazzi di Michelle Ryan, eroina paffuta che scopre di essere davvero cazzuta oltre che decisamente caruccia. Un colpaccio mettere Miguel Ferrer (ricordate Robocop?) a fare il villain.


Californication, Showtime
Brevemente: uno scrittore alcolista e donnaiolo cerca di superare la sua crisi creativa e di riconquistare la sua famiglia.

Il ritorno di David Duchovny come protagonista di una serie è stato il fatto più chiacchierato dell’inizio di stagione, e la serie stessa è divenuta una delle più amate e discusse sui blog (chiamati peraltro in causa furbescamente dalla trama stessa). Ma al di là delle polemiche dei conservatori o delle resistenze di molti di fronte a una serie che a primo acchito sembra costruita sulla mera provocazione, la verità è che Californication ha una sceneggiatura che la maggior parte delle serie contemporanee si sognano, forse addirittura la migliore, oltre che un cast di primo e di secondo piano – sia come attori che come caratteri – assolutamente perfetto.


Chuck, NBC
Brevemente: un placido nerd si ritrova nel cervello tutti i segreti delle più grandi spie del mondo.

Partita senza troppi squilli di tromba, la serie spy-action-comedy creata dal Josh Schwartz di The O.C. è probabilmente la cosa di cui più si parlerà nei prossimi tempi, e forse (ma dico forse) la migliore novità della stagione. Non solo perché il pilota è uno dei più belli degli ultimi anni, e il secondo episodio tiene botta in modo eccellente, ma perché Chuck è uno di quei rari casi in cui si riesce a creare nel giro di mezz’ora un’affezione totale ai suoi personaggi, aiutata da un uso massiccio del web marketing. Chuck Bartowski comunque è l’amico che tutti vorremmo avere, Captain Awesome segue a ruota. Awesome!


Journeyman, NBC
Brevemente: un reporter scopre di poter viaggiare nel passato modificando il presente.

A dire il vero, dal pilota non si capisce bene di cosa si tratti, l’impressione è che ci vorrà un bel po’ prima di avere delle risposte, e non invoglia troppo a continuare . Anche perchè gli artifici narrativi con cui è raccontato il viaggio nel tempo sono di una bruttezza incredibile, e Kevin McKidd ha una delle facce più improbabili che si siano mai viste, sembra Daniel Craig più sgonfio ed è davvero fuori ruolo. Ma gli ultimi minuti del pilota, che aprono ampi varchi verso l’amato mondo della conspiracy theory, mi hanno convinto a dargli una seconda occasione: vedremo quanto durerà.


Moonlight, CBS
Brevemente: c’è un vampiro con la voce off.

Che non si dica che mi piace tutto e che guardo tutto, ecco a voi la serie da evitare a tutti i costi: sorta di rip-off di Angel, è uno scrauso tentativo di rinverdire il fascino dei vampiri dopo la fine di Buffy, ma senza metterci un’idea che sia una, una trovatina, un guizzetto, niente. Ed è pure girato da cani. E inizia con un’intervista, gosh. Orrido il cast, persino Sophia Myles che pure avevamo adorato nel miglior episodio di Doctor Who di sempre (questo), traditrice. Pietoso il tentativo di migliorare le cose con il personaggio cinico del vampiro paranoico. Guarda, lasciate proprio perdere che è meglio.


Reaper, The CW
Brevemente: un ventunenne di Seattle scopre che i suoi genitori hanno venduto la sua anima al diavolo, e diventa suo schiavo.

Ed ecco la sorpresa della stagione: meno discussa di altre serie, almeno qui dalle nostre parti, ma con un pilota davvero incredibile diretto niente meno che da Kevin Smith, che dà molto del suo tocco post-nerd metropolitano alle vicende dei tre clerks alle prese con le forze del male. Con personaggi irresistibili (Tyler Labine nel ruolo del migliore amico, Ray Wise che fa il diavolo, signori, Ray Wise!) e idee geniali (quella dell’artefatto per catturare i demoni che cambia ogni puntata è da manuale), Reaper si prospetta come la serie più divertente dell’anno. Almeno, io ho riso come un cretino per quaranta minuti, e spesso senza sapere perché.

 Altre notazioni sparse su roba che c’era già

- prima di tutto, devo fare ammenda per non aver speso almeno un’ora alla settimana per dire a tutto il mondo che le nuove stagioni di Doctor Who sono, con poche eccezioni, la cosa più bella e appassionante che ci sia in televisione, e punto. Per adesso ho visto la prima stagione (con Christopher Eccleston) e la seconda (con David Tennant) e progetto di vedere la terza (che pare essere un po’ in calo, temo) entro l’inizio dell’anno, quando inizierà la quarta. Time flies, mate. Non ne ho mai parlato qui, e me ne rammarico: beh, l’ho fatto ora.

- dopo il lungometraggio pare che qualcosa sia cambiato, o forse solo dentro di me, perché nel giro di due episodi il gap tra Family Guy e The Simpsons sembra restingersi. Va bene, i quaranta minuti di season premiere dei primi, con la replica di Star Wars, non li batte nessuno e confermano l’assoluto genio di Seth MacFarlane e soci, ma – per esempio – il secondo episodio viene battuto in volata dai primi due del cartoon di Groening. Se proprio deve essere una guèra, puntiamo su Peter Griffin come vincitore dieci a uno, ma non si può dire che Homer non combatta che è un piacere.

- è ricominciato Heroes, e non stavamo più nella pelle. Devo dire però che i primi due episodi, seppure i personaggi nuovi non siano affatto male, non sono all’altezza delle enormi, gigantesche aspettative. Ovviamente, avendo visto come si è evoluta la prima stagione, con alcuni dei migliori pezzi di televisione di sempre (Company man da solo vale intere stagioni di *inserisci qui la serie che piace a te*), aspettiamo tempi migliori. E sappiamo di certo che arriveranno. Hiro, pensaci tu.

- dopo una prima stagione bellissima e una seconda ancora migliore, il terzo anno di Prison Break è praticamente uno spin-off di se stesso. La classe c’è ancora, eccome, e la serie è sempre più rude, violenta e "maschia" (ma a chi vogliamo darla a bere?). Chi ha visto il finale della seconda sa di cosa parlo. Ma è tutto finito lì: quello che rimane è una roba certamente divertente ma visibilmente posticcia. Almeno, per ora. Io comunque continuo a seguirlo, perché sono pazzo come un cavallo.

- dopo la discesa all’inferno della seconda, la terza stagione di Weeds cerca di rimettere un po’ le cose a posto, ma conoscendo Jenji Kohan e soci ne dubito. Sempre irresistibile, ovviamente. E sbrigatevi che è quasi finita.

- di Dexter devo ancora finire la prima stagione, e mi scuso per essere arrivato per ultimo, stavolta: la sto centellinando lentamente, perché è talmente bella che ho bisogno di qualche giorno di relax dopo ogni episodio. No, davvero. Sappiate solo che è iniziata la seconda, ecco.

- è iniziata anche la terza stagione di My name is Earl, ma dopo il traumatico finale della seconda ho una tremenda paura, sia per Earl che per il futuro della serie, già calata di molto nelle mie preferenze dal folle amore della prima stagione. Speriamo in bene.

Roba di cui sentirete parlare nel prossimo episodio, se ci sarà:

Cavemen, Aliens in America, Mad Men, Dirty Sexy Money, Tell me you love me.
(e se vuoi inserisci nei commenti quello che vorresti di cui io parlassi)

Alla prossima (pheeu)

Hairspray
di Adam Shankman, 2007

Si può pensare quello che si vuole, che con quelle canzoni e quei balletti e quella storia di integrazione e voglia di sfondare e voglia di libertà chiunque ne avrebbe tirato fuori un film decente, persino un regista come Adam Shankman, che non è certo il primo della classe in quanto a talento registico. Ma Hairspray duemilasette non è un film decente: è proprio bello. Ma bello, eh.

Prendendo le due opere di riferimento (il film del 1988 diretto da John Waters, qui the flasher that lives next door, e il musical da esso tratto) senza modificarle troppo, strizzando giusto ogni tanto l’occhio ai nostalgici (Jerry Stiller che fa Mr Pinky, la mitica Ricki Lake che appare come "talent scout" negli spalti), si mantiene il più possibile su un livello naif che il musical degli ultimi anni sembra aver relegato in soffitta, quasi che avessero paura della fantasmagorie, dei colori, paura di essere felici. Ma chi ha paura di un film dove si balla, si canta, ci si ama, e punto? You can’t stop the beat!

Il film si fa praticamente da solo, ma è assolutamente travolgente: una sequela ininterrotta di pezzi musical irresistibili, in cui è impossibile stare fermi sulle poltrone, e – se fosse la seconda imprescindibile visione – cantare e ballare con i personaggi. Ci sono John Travolta e Christopher Walken che ballano il tango, c’è Queen Latifah che sfila per l’integrazione, c’è Amanda Bynes con il lecca lecca, c’è Zac Efron con il ciuffetto. Nikki Blonsky è talmente brava che non ci si crede.

Lo so che Hairspray e i commenti che suscita in noi postadolescenti romantici sembrano stupidi e ridicoli, visti da fuori, e lo dico a te, oh tu, che ancora non hai visto Hairspray. Accomodati. Siediti in poltrona, e provatici, a stare fermo. Se vuoi vengo con te. Tanto lo so che poi ci ritroveremo fuori dalla sala a saltare come due deficienti, ammazzando il twist con i talloni alzati, ’cause we’re the nicest kids in town.

E te lo dice uno nella cui collezione di VHS Grasso è bello era un pezzo fondamentale, uno di quei film che mettevi su quando non sapevi cosa guardare, perché era sempre bello, era sempre come se fosse la prima volta. E per questo, avevo un po’ paura. Invece ho il sospetto – visto che già lo sto facendo con la colonna sonora, Good Morning Baaaaaaltimore – che questo incredibile remake farà più o meno la stessa fine. Gli vogliamo già bene. I can hear the bells, proprio.

Fritt vilt (Cold prey)
di Roar Uthaug, 2006

Completamente accecato dalla visione di Reprise, e dalla voglia – in buona fede – di svecchiare le solite pose cinefile attraverso la scoperta di cinematografie diverse dal solito, ho deciso di recuperare proprio uno dei più importanti successi commerciali delle ultime stagioni in Norvegia. Con mia sorpresa, è un horror, genere non molto coltivato dalle parti di Oslo. E con mia sorpresa ancora maggiore, non è affatto male.

Mi spiego. Ci sono cinque ragazzi (due coppie, una sedimentata e seria, l’altra fresca e sensuale, più un quinto personaggio più simpatico e sfigato) che vanno a fare snowboard in un posto bellissimo quanto pericoloso: ovviamente va tutto per il verso sbagliato, uno di loro si rompe una gamba, e quando si fa sera si ritrovano in un grandissimo hotel abbandonato. Apparentemente abbandonato. Da lì in poi, si innesca il meccanismo dello slasher, per cui i giovani protagonisti – non credo di poterlo chiamare spoiler – faranno uno ad uno la fine delle mosche.

A questo punto dovrei spiegare perché questo film, che descritto così sembra una cazzata, non lo è. Ci sono diverse ragioni, almeno quattro, che come al solito elenco banalmente. Primo, perché questo è uno slasher vero e puro, senza tanti fronzoli, senza tutti questi sbudellamenti ma ugualmente bello truce. Magari è adolescenziale e "tipico" quanto si vuole, ma io un horror così completamente sradicato dalla tradizione "critica" che ci portiamo sul groppone dai tempi di Scream non lo vedevo da tempo. Il cattivo è vicino al grado zero del mostro distruttore e indistruttibile – anche se poi il bellissimo finale ce ne rivela la genesi.

Secondo perché è scritto con quel minimo briciolo di intelligenza che fa sì che si possa empatizzare con l’umanità dei personaggi. Questione di aritmetica: alzerò meno il sopracciglio così, ma a me fa più paura. Terzo, non così distante, perché i cinque protagonisti sono bravi, oltre che ovviamente belli da fare schifo. C’è anche la splendida Viktoria Winge di Reprise, ma qui è bionda e vergine, ed è prevedibilmente la prima a tirare le cuoia – ribaltando (inconsapevolmente?) la tradizione per cui nell’horror se trombi muori. La sto facendo breve, si intende.

Il quarto motivo, che è quello che più salta agli occhi, è che Fritt Vilt è bellissimo a vedersi, e ha una cura estetica – aiutata dagli interni bui e labirintici dell’hotel e dagli esterni di pura neve – che l’horror spesso dimentica per strada. Per dire, è girato in 16mm e non l’avrei mai detto.

Nei limiti stabiliti di un film simile, insomma, tutto funziona a meraviglia. E chi l’avrebbe mai detto.

Link: la sintetica, ben più sobria ma felice, recensione di Dennis Harvey su Variety, che quoto da cima a fondo. Che sennò sembro rincretinito io.

Nota: Al di là dei discorsi scemi che mi ritrovo a fare spesso, anche e soprattutto in forma privata, suppongo che sia un po’ presto per alzarsi a urlare davvero "Norvegia! Nuova! Corea!". Però.