[perseguibile penalmente]
Ultime speranze del cinema italiano, questa settimana su Friday Prejudice.
[perseguibile penalmente]
Ultime speranze del cinema italiano, questa settimana su Friday Prejudice.
Futurama: Bender’s Big Score
di Dwayne Carey-Hill, 2007
Il mondo si divide in: persone che hanno già visto il primo film di Futurama, persone che sapevano della sua esistenza e si procureranno presto il dvd (o altro), e persone che non lo sapevano affatto, le quali immagino stiano correndo per casa tirando urli tipo aaaah film di Futurama aaaaah fiiiiilm. Tsk. C’è un’altra categoria, in realtà, quelli che Futurama non è niente di che, Futurama non mi mancava affatto, Futurama cos’è, Futurama vuoi mettere i Simpson. Non li prendo nemmeno in considerazione. Faccio finta di niente. Na na na na na.
Scherzi a parte, riassumo in dodici parole, ché il resto ve lo potete leggere su Wikipedia: la quinta stagione, attesa ormai da più di quattro anni, da quando la Fox decise di chiudere il programma per sopraggiunta idiozia, sarà formata da quattro veri lungometraggi, che usciranno direttamente in DVD e che poi verranno trasmessi in forma episodica su – tah dah – Comedy Central.
Ora, venendo alle cose serie, su Bender’s big score si dovrebbe fare un discorso – che non farò comunque – molto diverso da quello che si poteva fare per The Simpsons Movie. Perché Futurama era un oggetto ben più complesso (migliore? maybe?) del suo predecessore, e soprattutto adulto, un geniale frullato alieno che si cibava di letteratura fantascientifica e pop culture, Philip Dick e Star Trek e Douglas Adams, era colto e nerd, era stratificato e ricchissimo, come pochissimi altri. Ma sto ancora parlando di Futurama, e non di Bender’s Big Score. Com’è, mi si chiede. Almeno, immagino che mi si chieda. Funziona così, io scrivo e sento le voci nella testa.
C’è tutto un incipit lunghissimo in cui gli autori prendono apertamente per il culo quelli della Fox che li avevano fatti licenziare in cui quasi mi metto a piangere dal ridere. C’è Hermes Conrad acefalo per quasi tutto il film, quando non con la testa rivoltata. Ci sono tre orribili alieni nudi che vogliono conquistare il mondo usando lo SPAM. C’è una scena in cui sono tutti nudi. C’è la spiegazione della sconfitta presidenziale di Al Gore. C’è un numero musical (stupendo) con Robot Santa, KwanzaBot doppiato da Coolio, e Chanukah Zombie da Mark Hamill. Nibbler parla, e non solo: un idolo. Purtroppo non riesco a parlarne che così, a frammenti, a cui poi ripenso. E rido da solo come uno scemo.
Ma non stiamo mica parlando di Family Guy. Che pure adoro, ma non vuol dire. Qui la questione è ben diversa: Bender’s Big Score non è un film fatto dei suoi frammenti, per quanto geniali. Anzi: è un film denso e cerebrale, costruito da una parte per accumulo (di stimoli, riferimenti, autocitazioni) e dall’altra, con perfetta e perversa macchinosità, su un numero di paradossi temporali (perlopiù sorprendenti) da far impallidire Ritorno al Futuro 2. E se al di sotto si vede ben altro che la semplice parodia (la storia d’amore tra Fry e Leela, sempre più struggente), dal finale si può anche ben intuire che la quadrilogia sarà un lunghissimo e irresistibile flusso. Non vediamo l’ora: ma dovremo aspettare a lungo.
Comunque, se ancora state cercando un mero giudizio che vada al di là della mia personalissima opinione (e cioé che ci siamo, il prodotto è ganzissimo, roba di primissima qualità) vogliate sapere che Bender’s Big Score non è perfetto, non è una vetta, non è una chiusa magistrale, niente di tutto ciò: e chi se ne frega. Futurama aveva lasciato un piccolo vuoto, e ora l’ha ricolmato.
Bentornato, Professor Farnsworth.
You, the living (Du levande)
di Roy Andersson, 2007
Sette anni dopo Songs from the second floor, il regista svedese ritorna al suo cinema fatto di pochi e interminabili quadri a camera fissa, e di personaggi fantasma che girovagano tra le ultime vestigia della nostra civiltà.
Questa volta la scelta di Andersson è di rendere il suo discorso più implicito e allo stesso tempo empirico, riaccollandosi sulle spalle il pesante fardello del presente, e facendo fuoriuscire i personaggi da una realtà (altrettanto grigia e funerea) soltanto nella forma del sogno: così, gli unici sfoghi surrealisti sono quelli propriamente onirici. E meravigliosi: uno, il transfert di un senso di colpa sociale (legato forse addirittura ad una visione disincantata della lotta di classe); l’altro, la sublimazione di una delusione amorosa.
Se molta della forza sovversiva del film precedente si acquieta (mancano sequenze che abbiano metà della forza di quella del sacrificio umano in Songs), donando ahinoi al film quell’effetto soporifero da cui il film del 2000 era riuscito del tutto (e miracolosamente) a sfuggire, la scelta di cedere più spesso alla mobilità (che non è affatto horror vacui: anche qui i movimenti della macchina da presa contano sulle dita di una mano) dimostra la capacità di Andersson di penetrare (letteralmente) le sue visioni, mostrando peraltro – e quasi nessuno lo fa più – la portata, non solo teorica ma anche emozionale, di un carrello.
Il cinema di Andersson rimane comunque qualcosa di estremamente prezioso, non solo perché ancora bellissimo a vedersi, anzi ancora impressionante sotto il profilo visivo, ma anche perché è un oggetto assolutamente alieno rispetto al cinema europeo, che nelle sue forme "autoriali" ha solo da imparare dalla strenua coerenza (anti-commerciale di principio: bisogna accettarlo) di Roy Andersson.
Un plauso a Ladyfilm per aver avuto, a modo loro, il coraggio di distribuirne qualche copia nelle nostre sale.
[hype]
CJ7.
Mirrormask
di Dave McKean, 2005
Ultimamente mi sono appassionato, senza alcun completismo ma con estrema curiosità, all’opera dello scrittore britannico Neil Gaiman: naturale sfociare, soprattutto dopo l’indecisa reazione a Stardust, nel recupero delle cose da lui fatte per lo schermo. Mirrormask è il primo vero progetto cinematografico di Gaiman: lo scrisse insieme al regista Dave McKean, disegnatore geniale (celeberrime le sue copertine) e socio abituale di Gaiman (nelle graphic novel Signal to noise e Mr Punch e come illustratore di molti suoi libri), e insieme lo produssero grazie all’intervento di Lisa Henson, figlia di Jim.
Mirrormask è, da principio e senza dubbio, un progetto ammirevole, soprattutto se i disegni di McKean e le storie di Gaiman vi affascinano, ma non solo. Entrambi gli artisti fanno di tutto per tradurre in immagini le loro ossessioni e il loro mondo, le loro inquietudini e il loro bizzarro e irresistibile senso dell’humor. Ci riescono alla perfezione, con un invenzioni visive che spesso lasciano a bocca aperta, e in modo assolutamente sincero, dando moltissima libertà ai singoli animatori e – facendo di necessità virtù – traendo uno stile originale anche dalle loro ristrettezze di tempi e di budget, non facendosi schiacciare del tutto da queste ultime. E tirarne fuori una robaccia trash era davvero un rischio reale.
Però Mirrormask è anche un film, soprattutto sotto l’aspetto narrativo, che definire irrisolto è dire poco. Al di sotto delle favolose fantasmagorie di McKean (e del fotografo Antony Shearn), c’è putroppo un pasticcio confuso e confusionario che tende all’eccesso entusiasta: ci si sbatte dentro di tutto e di più (dal fascino biecamente tribale del mondo circense, a riflessioni junghiane sulla coscienza, a un’opaca variazione sul tema del doppelganger), ma in questo modo si rischia di intrecciare pericolosamente l’onirismo con il colpo di sonno, anche per colpa dei limiti portati dall’inesperienza dell’esordiente McKean in un progetto complesso come un lungometraggio.
Ciò nonostante, la dedizione dei due è encomiabile, e non c’è alcun dubbio che le loro stesse ambizioni siano state rimodellate da un modello economico e tecnologico del tutto inadatto alle esigenze del caso. Vedremo, in futuro (chissà), se ci sarà per loro una seconda occasione.
Ignorato (ingiustamente, suvvia!) dalla distribuzione per sala, il film è uscito in Italia direttamente in DVD. Generalmente, ve lo tirano dietro. Per dire, io l’ho pagato sette euro da Saturn. Se siete anglofoni, su Play.com tra un po’ vi pagano per comprarlo.
[tonite]
The National @ Music Drome (Transilvania Live)
Official Site, Myspace, Wikipedia, Lastfm, Mistaken for strangers.
Supporter: Hayden – Official site, Myspace, Wikipedia.
Apartment Story video directed by Banner Gwin.
Angel
di François Ozon, 2007
Ozon è uno di quei registi di cui, all’interno di un immaginario dibattito tra gli amanti più sconsiderati e i critici più insolenti, non mi sono fatto ancora un’opinione precisa. Prima di tutto perché ho visto ancora poco. Il perché sfugge anche a me, misteri della mia stessa psiche. Non fa eccezione, nella mia brevissima esperienza ozoniana, questo gran bel "esordio anglofono" del quarantenne parigino dopo otto notissimi film in lingua francese.
Se con 8 femmes aveva dimostrato di riuscire a gestire alla perfezione questo tipo di omaggio nostalgico (lì c’erano le Donne di Cukor, e molto altro), qui Ozon riconferma di avere le stesse capacità anche senza l’aiuto di quell’ipnotico e straordinario cast. Angel è però un melodramma smaccatamente plasticato: fasullo, ma nell’unica accezione in cui possa essere un complimento. E lo è: non solo racconta un’ascesa e una caduta nel più classico dei modi, ma si filtra attraverso l’espediente del gioco cinefilo. Dai fondali ai tessuti, dagli abiti ai set, fino ad ogni singola mossa o battuta, Angel si pone come un punto d’arrivo del cinema riproduttivo proprio della – certuni la chiamano ancora – postmodernità.
Chi bazzica qui sa bene che ciò non è considerato un male, se fatto con classe: e di classe Angel ne ha da vendere. Ma se tutto ciò vi può trovare infastiditi, di principio, statene lontani: Angel, per questa sua tendenza esplicitamente cerebrale, e profondamente superficiale, è un film che accontenta la vista più che il gusto, la mente più che il cuore – e tutto questo rende un po’ ardua la parte più propriamente "melodrammatica": proprio perché una volta che il gioco è aperto e sotto gli occhi, fin da subito, è difficile poi riuscire a buttare il cuore alle ortiche.
Ma tutta la prima parte (l’ascesa, appunto) è qualcosa di travolgente e sorprendente, costruito su barocchismi tanto spudorati quanto affascinanti, in cui molta della forza è dovuta all’interpretazione "insopportabile" di Romola Garai, che più che un talento mimico formidabile, che comunque le si riconosce, mostra un’ammirevole abnegazione al "metodo Ozon": sopra le righe eppure ad esso sottomessa. Imprescindibile per questo la visione in lingua originale.
[tonite]
[ovvero yesterdaynite]
Okkervil River @ Estragon, Bologna
Official, Myspace imeem, Wikipedia, Lastfm, Down the oubliette.
Our life is not a movie or maybe video directed by Margaret Brown.
[se fossi in voi mi leverei subito quel pensiero dalla testa]
Volete sapere perché dovreste levarvi subito quel pensiero dalla testa?
Correte su Friday Prejudice, episodio novantacinque.
Arriveremo mai a 100? Che il ciel ci aiuti.
Art school confidential
di Terry Zwigoff, 2006
Motivi per cui Art school confidential in Italia è uscito direttamente in dvd? Primo, pochi sanno chi diavolo sia Daniel Clowes: è già tanto che in giro si conoscano Art Spiegelman e Robert Crumb, figuriamoci l’autore di Eightball. Secondo, pochi sanno chi diavolo sia Terry Zwigoff: Crumb non è mai uscito, del delizioso Ghost World tutti si ricordano solo Thora Birch e Scarlett Johannsson (i più sgamati Steve Buscemi), e pure lo spassoso Bad Santa (Babbo bastardo), sua regia meno "personale", lo spacciarono spudoratamente per un film dei fratelli Coen.
Invece Art school confidential è un’operetta da non sottovalutare con le armi – ben più subdole di una stroncatura – della carineria e del bello-da-vedere. Qualità che il film ha senz’altro (anche grazie al lavoro del direttore della fotografia Jamie Anderson, asciutto e senza sbavature d’inchiostro), ma sulle quali non si addormenta pigramente. Il duetto Zwigoff-Clowes è riuscito insomma, ancora una volta, a trovare una forma, "soffice" ma graficamente compiuta, per rappresentare in movimento il mondo bizzarro ed eclettico del fumetto alternativo americano, bilanciando alla perfezione cinismo e tenerezza, realismo e caratterizzazione.
Con una furbizia ben mascherata da ingenuità, si mettono poi nella bocca e negli occhi del giovane protagonista (interpretato, non senza qualche intoppo, dal figlio di Anthony Minghella) parole di spietata verità sul mondo dell’arte, così simile a tanti altri sistemi di caste chiuse e gerarchiche. E senza stare a girarci troppo attorno. Un po’ rigido, ecco, e con storie di contorno poco coinvolgenti (con tutto il bene che vogliamo a Ethan "Randy" Suplee, la sua parte non tiene). Forse meno sincero di Ghost World, che rimane una delle perle del cinema indie americano di questo decennio, ma altrettanto stimolante.
This is England
di Shane Meadows, 2006
Avete presente quando si dice che le stroncature sono molto più divertenti e stimolanti degli elogi? Ecco, il discorso vale anche per This is England, straordinaria opera nona di Shane Meadows, trentacinquenne regista inglese, originario dello Staffordshire, ancora piuttosto sconosciuto – purtroppo – dalle nostre parti. Sulla quale non ho nulla da dire. Il film è bellissimo, è intelligente, profondo, commovente, sincero. Ho pianto. Che altro devo aggiungere? Guardatelo e basta.
Per ovviare al problema, potremmo utilizzare quattro artifici.
Artificio numero uno: l’invettiva contro quei cattivoni dei distributori.
E non vedremo nemmeno questo film di Shane Meadows, nelle sale italiane. Diamine. Pare che i distributori, con le guance ancora piene degli avanzi del cibo scartato dai sottocloni dei film in costume tratti dai romanzi di Jane Austen, si siano dimenticati che c’è anche un altro cinema inglese, in giro. Va bene, ora distribuiscono i film di Edgar Wright, ma ci basta? Ci può bastare? No! Non ci basta mai! Qualcuno glielo può dire, a quei cattivoni, che ci sono – per dire – i film di Winterbottom con Steve Coogan? E soprattutto, che ci sono i film di Shane Meadows? Che non avranno Liz Bennet e Mister Darcy e anatre starnazzanti nell’aia, ma che riescono, senza guardare in faccia nessuno, con la delicatezza di una carezza e la forza di un pugno, e scegliendo di non banalizzare il male, a tutti i costi, cogliere – come fa This is England – il senso profondo dello sguardo di un ragazzino sul mondo? Peraltro, di un bambino così pucci?
Artificio numero due: il secco riconoscimento di una secca lettura storica.
La cosa che più sorprende di This is England è come sia riuscito a far sì che dal ritratto, estremamente intimo e racchiuso tra poche mura e cortili, di alcuni ragazzi di Nottingham, fuoriesca un vero affresco storico, quello di un decennio e dell’intero sistema che ne reggeva le sorti (Margaret Thatcher, la guerra nelle Falkland, l’ascesa del nazionalismo bianco), facendo rispecchiare con perfezione millimetrica – nascosta sotto l’illusione del lo/fi e del low/cost – il collettivo nell’individuale. E viceversa.
Artificio numero tre: l’aneddoto personale che non c’entra un cazzo.
Io qualche anno fa ho incontrato, di sfuggita, il signor Shane Meadows. Mi ricordo che da principio era parecchio paurosetto a vedersi, ma in realtà una personcina davvero a modo.
Artificio numero quattro: manifesta vacuità per interposta spocchia.
E alla fine il nostro Shaun, della sua bandiera, della sua croce ammazzadraghi, non sa più che farsene. Si lancia sulla spiaggia, quella stessa spiaggia da cui il padre, omericamente, non tornerà mai più, e lancia la bandiera nell’acqua. La guarda affogare, come una speranza che si cancella nell’acqua, o come una speranza, forse, da ricostruire altrove. Nel proprio animo, confuso e tradito. Nel proprio cuore, contuso e trafitto. Nello sguardo, privato dell’innocenza e pieno di morte e dolore, lo stesso sguardo che rivolge a noi prima del buio, lo stesso sguardo che chiudeva la storia di Antoine Doinel e apriva la sua vita, quella vera. Ehi, hai visto? Ho riconosciuto la citazione. Cosa ho vinto? Buio in sala, titoli di coda.
Becoming Jane
di Julian Jarrold, 2007
Che la mania del cinema anglosassone per Jane Austen sia una cosa inevitabile, nonché ricorsiva e implacabile come lo scoccare del nuovo giorno, è cosa ormai accettata. E in molti casi, ma sì, benvoluta. Dopotutto, la signorina Austen scrisse pur sempre dei signori libri, testi che è difficile sputtanare per mera pigrizia. Altra cosa è impuntarsi a tal punto che, se non c’è più un libro dell’autrice libero, ci si guardi in giro e ne venga fuori un biopic della Austen stessa. Che non sarebbe nemmeno male, di per sé.
Se non fosse, ahinoi, che il film è maldestro e malriuscito. Più che altro, la cosa che più infastidisce è che da una vicenda sommariamente interessante (come Jane Austen divenne, o meglio rimase, una zitellona da brodo) esca un film disascalico fino alla nausea: ragazzi, se la vostra sceneggiatura è basata su due idee di numero che, fossero anche le più illuminate e profonde del mondo, sono pure di immediata comprensibilità (chiamatela pure sconfinata banalità), di certo non voglio che i personaggi me le spieghino nei dialoghi. Ci arrivo da solo. Tutto intorno, il solito cerchio boriosetto di inchini, faccette torve, sguardi languidi, vecchie antiquate, galline che svolazzano quando la madre corre nell’aia agitata perché è arrivato un ospite inatteso, Maggie Smith, quattro vigorosi cazzotti per scuotere il nostro animo di fanciulle, e via dicendo.
Ma non bastano quattro maiali messi lì a casaccio a rappresentare, o a farlo come si dovrebbe, l’impossibilità di una rivalsa sociale ed economica in un meschino misero maschile mondo, nascosta però sempre sotto i vestiti puliti, non basta mettere quella pertica di Anne Hathaway - che è bellina, per carità, ma non so cos’è, ha la faccia tutta spettinata, e non si adatta bene a questo inspiegabile inglesismo che le hanno cucito addosso, mi ripeterò, ma non c’era un’attrice inglese? – sperando che la somiglianza vaga con quell’altra ripeta il miracolo di renderla intensa e commovente. Si salva la scena del ballo, dove la Hathaway e il malcapitato James McAvoy (fijo mio, selezione, per cortesia) ballano e recitano – finalmente – con gli occhi e con il corpo. Senza dover aprire quelle cazzo di bocche per poi parlare come (brutti) libri stampati.
[ma vacci tu, vacci]
Halloween incasina le uscite cinematografiche, ma non…
… Friday Prejudice. Un blog sempreverde. Il nuovo episodio qui.