dicembre 2007

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[il classificone 2007]

1. Ratatouille di Brad Bird
2. INLAND EMPIRE di David Lynch

3. Io non sono qui di Todd Haynes
4. Hot Fuzz di Edgar Wright
5. Paprika – Sognando un sogno di Kon Satoshi
6. La promessa dell’assassino di David Cronenberg
7. L’arte del sogno di Michel Gondry
8. L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik
9. Grindhouse – A prova di morte di Quentin Tarantino
10. Paranoid Park di Gus Van Sant

11.
4 mesi, 3 settimane e 2 giorni
di Cristian Mungiu
12. Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck
13. Zodiac di David Fincher
14. Sunshine di Danny Boyle
15. Still life di Jia Zhang-Ke
16. Guida per riconoscere i tuoi santi di Dito Montiel
17. Breakfast on Pluto di Neil Jordan
18. Hairspray di Adam Shankman
19. I Simpson – Il film di David Silverman
20. Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood
21. Soffio di Kim Ki-duk

Crank di Mark Neveldine e Brian Taylor
Espiazione di Joe Wright
Il matrimonio di Tuya di Quanan Wang
Rocky Balboa di Sylvester Stallone
Una scomoda verità di Davis Guggenheim
Severance – Tagli al personale di Christopher Smith
Angel – La vita, il romanzo di François Ozon
Fearless di Ronny Yu
La ragazza del lago di Andrea Molaioli
Die Hard – Vivere o morire di Len Wiseman
28 Settimane Dopo di Juan Carlos Fresnadillo
Black book di Paul Verhoeven
Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez
Borat di Larry Charles
Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti
Superbad di Greg Mottola
Edmond di Stuart Gordon
History Boys di Nicholas Hytner
1408 di Mikael Hafström
The Protector di Prachya Pinkaew
Proprietà privata di Joachim LaFosse
Bobby di Emilio Estevez
Sicko di Michael Moore
Surf’s Up – I re delle onde di Ash Brannon e Chris Buck

Harry Potter e l’Ordine della Fenice di David Yates
Scrivimi una canzone di Marc Lawrence
Stardust di Matthew Vaughn
Casino Royale di Martin Campbell
La ricerca della felicità di Gabriele Muccino
Disturbia di DJ Caruso
Blades of Glory di Will Speck e John Gordon
U.S.A. contro John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld
Hostel: Part II di Eli Roth
Un ponte per Terabithia di Gabor Csupo
Them di David Moreau e Xavier Palud
300 di Zach Snyder
Confetti di Debbie Isitt
The good shepherd – L’ombra del potere di Robert De Niro
L’ultimo re di Scozia di Kevin Macdonald
Saw 3 di Darren Lynn Bousman
Dreamgirls di Bill Condon
La cena per farli conoscere di Pupi Avati
L’amore giovane di Ethan Hawke
Spider-Man 3 di Sam Raimi
Vacancy di Nimród Antal

Infamous una pessima reputazione di Douglas McGrath
2 Giorni a Parigi di Julie Delpy
La città proibita di Zhang Yimou
Alpha Dog di Nick Cassavetes
Blood diamond – Diamanti di sangue di Edward Zwick
La guerra dei fiori rossi di Zhang Yuan
Intrigo a Berlino di Steven Soderbergh
Il mio paese di Daniele Vicari
Becoming Jane – Il ritratto di una donna contro di Julian Jarrold
The Illusionist – L’illusionista di Neil Burger

Tideland – il mondo capovolto di Terry Gilliam
Transformers di Michael Bay
Molto incinta di Judd Apatow
Correndo con le forbici in mano di Ryan Murphy
Apocalypto di Mel Gibson
Tenacious D e il destino del rock di Liam Lynch
Hollywoodland di Allen Coulter
L’amore non va in vacanza di Nancy Meyers

The Darwin Awards di Finn Taylor
I racconti di Terramare di Goro Miyazaki
Io, l’altro di Mohsen Melliti
Una notte al museo di Shawn Levy
Stay alive di William Brent Bell
Un’impresa da Dio di Tom Shadyac
Epic Movie di Jason Friedberg e Aaron Seltzer

The Covenant di Renny Harlin
Ghost Rider di Mark Steven Johnson
L’albero della vita di Darren Aronofsky

- come ogni altro anno, questo è solo un modo divertente per riassumere in un ordine qualitativo del tutto arbitrario l’annata cinematografica solare che si conclude, anzi meglio la versione implacabilmente imcompleta che ne è stata esperita dall’autore di questo blog. Cerchiamo di non prendere troppo sul serio una roba così, vero?
- come ogni altro anno, il "classificone" si basa per semplicità sui voti dati sulla connection (a cui richiamano chiaramente i "paragrafi" in cui la lista è divisa) ma soprattutto su giudizi esplicitamente espressi su questo blog nel corso dell’anno. Quindi, a parte i soliti piccoli spostamenti, non dovrebbe esserci nessuna sorpresa. Rimettete in tasca quei sassacci.
- grazie a Dafne per l’insostituibile intervento grafico.

Buon anno a tutti, e ancora grazie.

L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (The assassinaton of Jesse James by the coward Robert Ford)
di Andrew Dominik, 2007

Per una volta, non sappiamo se sia il caso di condannare davvero fino in fondo l’ingerenza di uno studio su un’opera cinematografica: se le intenzioni strabordanti di Dominik, tanto più ambiziose perché all’opera seconda da quel gran bel Chopper che lanciò Eric Bana, rimaste in questi interminabili, bellissimi 160 minuti, sono state stemperate dalla WB che ha imposto un’accorciatina e un po’ di "pragmaticità" nei ritmi, l’equilibrio che se n’è ottenuto – forse perché non ne compromette l’aria e l’indole – è davvero qualcosa di miracoloso.

Insomma, quello che è rimasto è un film incredibile e affascinante che, acquisita la lezione degli western "contemporanei" dagli Spietati in poi, la porta su un livello ulteriore, con uno stile folgorante che rimescola i suoi modelli nel segno di uno stile nuovo, che farà scuola (sempre se qualcuno oserà tanto) e che prima o poi potrà essere considerato – già viene detto, da qualche parte – un passo capitale nel percorso dell’intero genere,. Recuperando peraltro elementi basilari spesso perduti, come il gusto del panorama, dell’immagine della sterminata pianura americana, qui ricoperta da una coltre di neve, ghiaccio, quando non di grano e brina.

Ma al di là dei panorami e delle immagini, splendidamente fotografati da Roger Deakins, quello che travolge del film di Dominik è il ritratto, contorniato da un bel cast corale ma secondario di comprimari dagli occhi mortiferi e sommessi, dei suoi due personaggi principali: un gioco di verità, tradimenti e identità, un duetto amoroso grande come l’intero continente, in cui si distinguono peraltro le prove di due attori – un mefistofelico e gigantesco Brad Pitt e soprattutto il sorprendente Casey Affleck dal volto emaciato e solcato da lacrime di eterna inconsiderazione – che nessuno aveva forse mai utilizzato con tale intelligenza e profondità.

Vista l’esperienza in sala, che richiede pazienza e abnegazione (e che ripaga fino in fondo), è senza dubbio un film poco adatto a grandi masse di spettatori: ma il sospetto, forse, è che il problema non sia nel film, che nonostante la lunghezza, e anche grazie all’ipnotica colonna sonora di Nick Cave (che appare come menestrello da saloon) e Warren Ellis, è davvero uno dei film più appassionanti, nel suo genere, degli ultimi anni.

L’ultima mezz’ora, e in particolare gli ultimi dieci minuti, è roba da inscrivere nel marmo, da raccontare ai nipoti.

[post in attesa]

L’ultimo dell’anno. Bang.

[la carica del 101]

Nel caso non l’aveste notato, è online da ieri
il 101° episodio di Friday Prejudice.

Quello scritto tutto quanto da voi (vedi immagine).

Buona lettura.

Per chi se lo chiedesse, il "classificone" da queste parti è sempre l’ultima cosa pubblicata dell’anno, quindi bisognerà aspettare ancora un po’, e dato che mi manca ancora quel film da poco uscito e per cui vi state tutti strappando le vesti, forse fino al 31. Baci.

[prejudice 2008: ultimi rintocchi]

Pensavate fosse già troppo tardi per consegnare i vostri prejudizi?
Nah.

Su, avete tempo fino a domattina, prima di pranzo.
Sfogatevi, su.

Espiazione (Atonement)
di Joe Wright, 2007

Qualche volta, la tentazione purista-filoletteraria tocca anche me, e in tempi recenti ho recuperato il celebre libro di Ian McEwan da cui è tratto il film. Non solo perché me lo sono trovato in mano a causa di un regalo e perché è una di quelle mancanze con cui di solito sfiguri alle feste dell’alta società ("ma come, non hai mai letto Espiazione?"), ma anche – lo ammetto – per la curiosità dovuta all’uscita del film, che ha aperto l’ultima Mostra di Venezia, e il cui trailer aveva penetrato le nostre anime di incallite sedicenni.

Ovviamente, pur accennando la mia soddisfazione per un paio di scelte di adattamento che ho trovato vincenti su un testo che le rendeva davvero ardue (parlo soprattutto dell’epilogo, in cui Wright sopperisce in modo eccellente alla difficoltà di una chiusura-spiegone basata su elementi "caldi" con l’aiuto di artifici "freddi" quali la televisione e lo sguardo in macchina), lascio ogni considerazione sul rapporto libro-film a chi ha deciso di scriverci addirittura una tesi di laurea, e preferirei parlare – brevemente, se possibile, tra un colpo di tosse e l’altro – del film. Che dopo il trionfo di nomination ai Golden Globe si è forse levato di torno quell’alone da film scricchiolante che ha sempre avuto, forse proprio per la notorietà del testo di partenza – rischio con cui Joe Wright a quanto pare si diverte non poco.

E in effetti, parte dell’entusiasmo della critica non è così ingiustificato: Espiazione è sì un drammone scritto a secchiate di tempera sulla tela più che con passaggi di china – per dipingere un drammone grande ci vuole un pennello grande? – e qualche cosa che davvero non si perdona c’è, eccome: qualche leccatina di troppo nella (comunque bella) fotografia, qualche lungaggine nella parte bellica (ma lì anche il libro richiedeva salti di paragrafo a tradimento, almeno il film gli ha dato un po’ di requie), quell’immagine finale con quella capannetta sulle bianche scogliere di questa ceppa.

Per tutto il resto, Espiazione è un film che fa perfettamente il suo dovere: attento a non sviare troppo dal libro di McEwan per non deludere i fan, furbo e accorto nel metterci del suo quando è necessario o quando ci sta bene, intelligente nella struttura (con l’idea eccezionale di "ritmare" il film con il rumore dei tasti di una macchina da scrivere) e piacevole – lì dove c’era più rischio – nello sviluppo narrativo, non sminuisce quello che già era il libro, un potente apologo sul potere della parola scritta – declinato ovviamente, anche in senso cinematografico (ma nulla che McEwan non avesse già pensato) all’inganno mistificatorio dell’immagine stessa. Quindi fa il suo dovere, ma anche qualcosa di più: e come già successe in Pride & prejudice, il "di più" è Joe Wright.

Perché Joe Wright, nel panorama del cinema inglese, è una vera benedizione: non tanto perché tecnicamente è uno dei migliori che ci sia in circolazione, ma perché è un regista di soli 35 anni e con un solo film alle spalle che, dopo essersi preso la briga di dirigere un film tratto da Ian McEwan, ci piazza nel bel mezzo un infinito, pazzesco e inarrestabile piano sequenza di minuti e minuti nel mezzo del "brutto" campo di battaglia di Dunkirk, facendosi letteralmente "bello" in barba a tutto a tutti. Non è adorabile?

La ragazza del lago
di Andrea Molaioli, 2007

Sono pochi i film italiani che quest’anno hanno attirato davvero la mia attenzione, e fa piacere poter dire anche a posteriori che La ragazza del lago è davvero una bella eccezione.

L’esordio di Molaioli, per anni assistente alla regia di Nanni Moretti, tratto da un romanzo della "regina norvegese del crimine" Karin Fossum, si è rivelato un gran bel film, un quieto noir di provincia, malinconico e dolente, e senza troppe facili speranze.

Molaioli dimostra già di avere un suo stile, glaciale e sommesso, e la sua bravura si vede non solo nella perizia tecnica e l’intelligenza con cui struttura le singole scene senza cadere (troppo) nei tranelli della fiction televisiva, ma anche nell’umiltà con cui non ce lo sbatte in faccia.

Completa il quadro l’algida, bellissima colonna sonora di Teho Teardo.

Before the devil knows you’re dead
di Sidney Lumet, 2007

Qualche tempo fa, Lumet ha dichiarato in un’intervista che girare in pellicola è "a pain in the ass", e che si augurava una diffusione del digitale e la sostituzione totale del buon vecchio formato 35mm. Possiamo non essere d’accordo con un’opinione così radicale, ma è certo che l’entusiasmo con cui l’ottantatreenne regista di Philadelphia ha affrontato il mezzo – ottenendo un film che visivamente, a parte qualche scontata ingenuità e il solito problema delle focali lunghe, ha poco da invidiare ai suoi colleghi analogici – dimostra che non c’è un’età in cui si può o deve smettere di sperimentare.

Tornando a BTDKYD, il film è tratto da uno script dell’esordiente Kelly Masterson, sceneggiatrice e studiosa di teologia: ma quello che colpisce è in realtà soprattutto la sua dolorosità profondamente laica, che pur ponendosi come ulteriore tassello dell’usuale mosaico del genere "colpo andato male" e non dicendo nulla di nuovo o di rivoluzionario (il riferimento più diretto è Fargo), riesce a essere insieme un’amara riflessione morale sulla famiglia e sulle sue gerarchie, e un sonoro pugno nello stomaco. E come si può vedere nell’incipit quasi hard, nelle trovate narrative (la struttura è a incastro, e incastratissima), nella stessa violenza mai del tutto mostrata ma glacialmente esplicita, Lumet non ha certo paura di dimostrare la sua personalità.

Ne esce un film lucidissimo, rigoroso, spiazzante, con una storia che affonda le sue radici nella tradizione della tragedia, e che risulta per alcuni versi scioccante per la freddezza inquieta e ormai disillusa con cui Lumet guarda agli esseri umani e alle loro alterne sfortune.

Il film, che negli States ha avuto un’uscita limited ma con un grande successo di critica, uscirà nelle sale italiane nell’Aprile 2008 con il titolo idiota e fuorviante di Onora il padre e la madre, che non solo non possiede un briciolo dell’efficacia del titolo originale (tratto da un proverbio irlandese), ma dimostra che nessuno di loro ha visto il film. Oppure sì, e non hanno capito un cazzo. Forse siete ancora in tempo a fargli cambiare idea.

[battle royale, with cheese]

il titolo di questo post è rubato da un leggendario post di ohdaesu


Online da ora il 100°episodio di Friday Prejudice.
Che non contiene solo gli ultimi prejudizi del 2007: c’è un allegro contest.

Scrivete un pregiudizio per un film in uscita nel 2008,
e inviatelo al mio indirizzo di email entro mercoledì 26 Dicembre.
Entro Giovedì 27 verrà pubblicato un episodio speciale di FP
con alcune delle vostre più buffe amenità. Ah!
Il miglior pregiudizio, a mio insindacabile giudizio,
verrà premiato con il dvd
di Battle Royale (edizione HK).

Spiego tutto meglio, dall’altra parte: recatevi orsù su FridayPrejudice100.

Heima
di Dean DeBlois, 2007

Heima significa "casa": e racconta infatti il "ritorno a casa" di una band che, dopo 12 anni di successi e un tour mondiale che li aveva lasciati storditi e confusi, sentiva il bisogno di riappropriarsi della propria terra (e delle proprie radici, sonore, musicali, umane), e allo stesso tempo di restituire alla loro terra quanto lei aveva dato loro. Così, nell’estate del 2006, i Sigur Ròs organizzarono una serie di sorprendenti concerti in luoghi tanto inusuali quanto suggestivi della loro Islanda.

Ma Heima, per nostra fortuna, non si limita a raccontare la storia di un viaggio in musica, seppure affascinante, ed è quanto di più distante da un tour-movie si possa immaginare. Attraverso la meravigliosa fotografia che rende ancora più magici luoghi già incredibili, e alla regia che si concentra sui dettagli sfruttando la ricchezza di ogni inquadratura, di ogni quadro, volto umano, sorriso, gesto, angolo, elemento naturale, Heima riesce a restituire in modo perfetto in immagini quello che ho sempre voluto sentire nelle canzoni del quartetto di Reykjavík, quel misto di pace e inquietudine che le rendeva uniche.

Ora lo possiamo vedere, da dove vengono quei suoni, e di fronte a cosa quei suoni uscivano, e per cosa quei suoni lottavano e contro cosa sentivi che non avrebbero mai potuto vincere, in un continuo brivido fatto di paesaggi infiniti e impensabili su cui si posano le canzoni dei Sigur Ròs. Che nello splendore del panorama interiore islandese – a volte racchiuso, altre cupo, altre di abbagliante intensità, ma mai scontato o banale – acquistano una nuova e inedita ricchezza: difficile non struggersi di fronte all’umile e profonda intimità di una stupenda Staralfur suonata in una coffehouse. E poi, bambini, a decine: sospettosi, tra le onde, biondi, emozionati, vivi.

Heima è un film che lascia senza respiro, che rimescola le viscere e riappacifica con il proprio cuore.

Heima è uscito da qualche tempo anche nel nostro paese, in un DVD contenuto in una spettacolare confezione, al cui interno si trova anche un gran bel doppio CD. Con una selezione di 7 pezzi acustici che vi faranno completamente a pezzi. Regalatevelo.

[post in attesa]

[I took a big chance at the high school dance]

I più attenti di voi già lo sapranno, ma lo si dice ugualmente: dopo la puntata pilota di due settimane fa, sabato è iniziato "ufficialmente" Walk This Way!, il godurioso contenitore radiofonico del sabato pomeriggio di Radio città aperta condotto da Giorgio e Emiliano.

I quali, nonostante siano esperti professionisti e mettano pure della musica che lévati, sono stati così avventati da chiedere al sottoscritto di partecipare come ospite telefonico fisso. Il debutto della rubrica cinefila (e vagamente pregiudiziale, guarda caso) Lo spettatore esigente è stato sabato scorso 15/12, e – se non mi cacciano prima – ci si risente il 29.

Per scaricare l’episodio e/o iscriversi al podcast, cliccate qui.

L’immagine qui sopra è la mia vendetta per le minacce di Giorgio.

[hype]

See, to them you’re just a freak. Like me.

[no fade in: film begins on a kid in the big city]

Per quanto riguarda me, incapace come sono di rinchiudere il mio entusiasmo di mero ascoltatore in una cerchia di copertine da contare sulle dita di due mani, l’elenco dei dischi migliori dell’anno che sta per finire, anche quest’anno silenzioso e inesorabilmente incompleto, può avere solo due significati: tornare qui tra un anno e ricordare, come al solito, è il senso più consueto. Ma l’altro, questa volta, è segnare il preciso e sonoro rintocco di un anno, che scocca – guarda un po’ – proprio in questi giorni. Un anno intero di musica ascoltata insieme. E come ogni rintocco, significa la fine di qualcosa ma soprattutto il suo inizio. Auguri.

i miei 20 dischi stranieri del 2007

 


(1) Arcade Fire (2) Okkervil River (3) Radiohead (4) The National (5) Spoon
(6) Modest mouse (7) Maximo Park (8) Stars (9) Jens Lekman (10) Band of Horses
(11) Feist (12) Andrew Bird (13) New Pornographers (14) Shins (15) LCD Soundsystem
(16) Beirut (17) Great Lake Swimmers (18) Apples in Stereo (19) Kate Nash (20) P. Carlberg

i miei 8 dischi italiani del 2007


(1) A toys orchestra (2) Carpacho! (3) Amari (4) Giardini di Mirò
(5) Le man avec les lunettes (6) Amour Fou (7) Ex-Otago (8) Disco Drive

[tanto per ribadire]

Friday prejudice: siamo a quota 99. E l’immagine è cliccabile.

Superbad
di Greg Mottola, 2007

Vale il solito discorso, sul titolo italiano: sto facendo finta di niente. Ma in questo caso si è già detto tutto, tanto da renderlo il meme cinematografico dell’anno.
Nascondersi non serve:
Suxbad – Tre menti sopra il pelo.

Uno dice peste e corna per mesi del clan di Judd Apatow, e poi si ritrova di fronte a una delle sue ultime creature, forse alla più celebrata, tenendosi lo stomaco per le risate?

Facciamo dei distinguo, subito: si tratta di una commedia grevissima e volgarotta, evidentemente scritta da due eterni adolescenti, basata su opposizioni semplici e palesemente debitrice di una lunghissima tradizione (il clan del National Lampoon, la saga dei Nerds, e via dicendo – autori e cast stessi vengono dal SNL), e con una notevole parabola discentente nella seconda parte: almeno da quando appaiono i due poliziotti, che senza la verve dei due protagonisti rallentano molto il ritmo rispetto alla prima parte. Ma non si pensi che questa sia una notazione snob: no, anzi, va bene così: Superbad mi ha fatto ridere rumorosamente, con dei vertici (uno a caso, la prima scena sul documento falso) in cui credevo di sentirmi male. E non è nemmeno tutto qui.

Greg Mottola dimostra di avere la giusta umiltà per assecondare lo script ondulante e piacevolmente immaturo (solo all’apparenza) di Seth Rogen (uno dei due poliziotti) e Evan Goldberg: il film possiede infatti per buona parte un ritmo assolutamente invidiabile, addirittura schiacciante se confrontato con i film diretti da Apatow. Trova riscontro forse quello che si diceva riguardo all’ideologia nel cinema del produttore-demiurgo: qui in Superbad, che ci sia o non ci sia una visione del mondo amorale e sballata (posto che non c’è), non ci importa nemmeno più: non ci si fa caso. Questo perché l’ideologia non inficia affatto la qualità del film.

E ogni tanto si riesce a infilare, all’interno della colorita sceneggiatura (quelli di The Onion l’hanno definito "il Quarto Potere delle battute sui cazzi") persino qualche perla inattesa, come il magistrale flashback sul talento del piccolo Seth nel disegnare uccelli (che poi riempiono i titoli di coda, come se non ne avessimo avuti abbastanza), o la sequenza (citata un po’ ovunque, ed effettivamente bellissima) in cui lo stesso Seth progetta di derubare il supermarket immaginandosi una serie di irresistibili bivi narrativi – prima, ovviamente, di rinunciare all’impresa.

Gran parte del merito va comunque alla coppia di attori, Jonah Hill e soprattutto il magnifico diciottenne Michael Cera, che nella rivisitazione (anche fisica) dei due sceneggiatori si rendono capaci di duetti davvero stupefacenti (a voi la scelta sull’immedesimazione, io sono Evan), e di una celebrazione finale dell’amicizia, unico modo per sopravvivere a quell’orribile, infernale esperienza che è la pubescenza, spudoratamente sincera. E che è andata a tanto così dal farci commuovere davvero.

Sono davvero contento: sbugiardarsi da soli non è poi così brutto come lo si dipinge.

The deaths of Ian Stone
di Dario Piana, 2007

A molti il nome di Dario Piana, come a me fino a qualche tempo fa, può dire poco. E la classica occhiatina all’IMDB serve a poco: una regia sola, vent’anni fa, per il pessimo sequel di Sotto il vestito niente 2, e qualche teleplay per altrettanto discutibili prodotti televisivi. Ma Dario Piana è in realtà uno dei più noti registi di spot del nostro paese, con un passato di illustratore pubblicitario nella Milano degli anni ’70 e un curriculum impressionante di centinaia di spot, tra cui molti famosi, spesso – soprattutto negli ultimi tempi – basati su un uso "spinto" degli effetti speciali.

The deaths of Ian Stone
è parte del progetto Horrorfest, sorta di "festival itinerante" che porta negli Stati Uniti "8 films to die for", 8 horror ispirati (o meno) all’età doro della serie B: sapere come Piana sia finito nel malefico ottetto è difficile a dirsi. Ma anche da principio, trovarsi di fronte all’horror di un regista italiano nel 2007, quando i tentativi in campo nel nostro paese, per quanto ben accetti, vanno poco oltre gli ultimi boccheggiamenti di Dario Argento, lascia un po’ di sasso. Più che altro, lascia di sasso che nessuno ce lo sia venuto a raccontare. Anche perché, sorpresa, Ian Stone non è affatto male.

Ian Stone è un giovane americano a Londra che viene ucciso di continuo da misteriose entità, e che ogni volta si risveglia, dimentico di quanto successo, in una vita e in "panni" diversi: ma i "mondi" sono accomunati dalla presenza di una ragazza bionda. Ma oltre alla trama, aggrovigliata quanto basta e assolutamente seducente (sembra uscita da una delirante graphic novel), ad incuriosirmi è stata soprattutto la presenza come produttore di Stan Winston, curatore degli effetti speciali delle saghe di Terminator e Jurassic Park (e non solo), che escludeva in partenza che si trattasse di una robaccia cheap: e infatti non lo è.

E se anche qualche volta Piana cede alla tentazione di applicare pure qui la sintesi pubblicitaria – il film è estremamente breve, poco più di un’ora, e quindi va da sé che le cose succedano tutte un po’ in fretta – e modi da post-matrix (certi imperdonabili cappotti), lo si perdona volentieri, perché il film è un innegabile
divertimento, è girato come si deve, Mike Vogel ha la faccia giusta e non sembra appoggiato lì perché belloccio come spesso accade in questi casi, e la storia non ha paura di prendere pieghe inquietanti (la sequenza dell’eroinomane) o rischiose (il "design" delle armi delle suddette entità). Forse è un po’ mordi-e-fuggi, ma poco importa: è anni luce da qualunque cosa simile io abbia visto tirar fuori in tempi recenti dalle manine di registi italiani.

Le potenzialità ci sono tutte, e non ci sono più scusanti. Che non sei mica più un ragazzino: adesso, Dario Piana, torni qui a Milano e ci fai vedere, ma davvero, di cosa sei capace. Sai che goduria.


Scopro solo ora che il film uscirà nelle nostre sale il prossimo anno, distribuito da Medusa: la data per ora è fissata al 13 Giugno 2008.

Halloween
di Rob Zombie, 2007

Se qualcuno non se ne fosse accorto, sto volutamente ignorando il titolo italiano, che aggiunge un ridicolo "The beginning" dopo l’originale. I distributori hanno probabilmente letto una sinossi e capito male: ma un prequel e un remake, anche in una saga, sono cose ben diverse.

Da queste parti e nei dintorni, l’anno scorso, si fece un gran parlare di Rob Zombie, responsabile di due film che hanno diviso (il primo un horror truculento e sorprendente, il secondo un’autentica perla di cinema americano), facendo del leader dei White Zombie, da qualche parte, una sorta di irriso simbolo dell’incomprensione soggettiva. Lo si ama o lo si odia. O meglio: ci si crede o non ci si crede. E non siamo qui a ritrattare alcunché, su quanto detto e ridetto sul cinema di Zombie, in particolare su The devil’s rejects: non ci provate nemmeno. Qui ancora ci si crede.

Ma non v’è dubbio che ci sia ben più che una punta di delusione, dopo le aspettative montate da un progetto così radicale da non poter non essere stimolante: perché se invece di infilarti in coda alla celebre saga di Michael Myers decidi di rifare un "mostro sacro" come Halloween di John Carpenter, ti esponi automaticamente alle critiche (spesso preconcettuali) dei fan e dei convinti passatisti (come successe a Gus Van Sant, per dirne una), ma d’altra parte la cosa ti spinge, ti deve spingere, a dare tutto te stesso. Cosa che Rob Zombie ha fatto, come probabilmente saprete già da mille cose già lette ovunque, solo a metà. O meno.

Infatti, dividendo per comodità il film in quattro parti, che in realtà sono effettivamente ben distinte (approssimando: incipit, 25 minuti; detenzione: 25 minuti; fuga: 50 minuti; epilogo, 20 minuti) la mano di Rob Zombie si sente e si vede, fortissima, solo nella prima, con un altro ritratto di allegra famigliola americana, brutta sporca e cattiva, e destinata al massacro, in un geniale ribaltamento del film di Carpenter (come scrive saggiamente Gozu: "dove lì c’era la metafisica, il Male, l’orrore che nasce spontaneo nel cuore della middle class, qui c’è una precisa fenomenologia della psicosi, un male che nasce da una famiglia sbandata, tipicamente robzombiana, cresce e si dilaga secondo precisi e prevedibili schemi") che lascia terrorizzati per la coerenza e la spietatezza dimostrata da Zombie. Oltre che per il faccino inquietante di Daeg Faerch.

Da lì in poi, è tutta discesa, e non nel senso buono del termine: la lunga sequenza dell’internamento di Michael, a guardarla con obiettività, si salva solo per un favoloso Malcolm McDowell ringiovanito di vent’anni ("Why do you talk funny?") e per un paio di lirici ed efferati omicidi (uno ai danni di un’infermiera e uno a quelli di una certa persona), mentre il resto del film, ahinoi, il suo cuore pulsante, è una robetta che starebbe in piedi e gradiremmo, con una ciotolona di pringles appoggiata sulle mutande sporche, solo se fosse un altro di quegli horror di bassa lega che riempiono gli scaffali delle videoteche. Non certo un film di un autore con una personalità così forte, quasi completamente assente nella noiosa ora centrale che ho quasi completamente rimosso se non fosse per la faccia da zoccola (sì cara, non me la dai mica a bere con quel look da prima della classe) che si ritrova Scout Taylor-Compton.

Una nota, non proprio di margine, ma anzi a cui bisognerebbe guardare con interesse, va fatta riguardo alle diverse versioni del film. Halloween è infatti circolato sulla rete, mesi prima della sua uscita, in una versione workprint (una copia-lavoro, praticamente una bozza da rifinire) che però differiva per molte cose dall’edizione uscita nelle sale. A sua volta, a quest’ultima si aggiunge la extended cut che uscirà sul mercato DVD americano il prossimo 18 dicembre, in cui ritrovano spazio un paio di cose espulse dal workprint stesso. Se non fosse chiaro: ci troviamo di fronte non più a un film singolo ma a due "varianti" di una stessa traccia autoriale, che arrivano persino – per via della pregnanza dei "pezzi" che sono stati "cambiati", ed è un caso quasi unico – a vivere di vita e personalità propria.

Quale Halloween avete visto? Quale Halloween vedrete? Quale Halloween vedremo in sala? Sono domande con cui, volenti o nolenti, dobbiamo ormai fare i conti: quello che si può dire, tornando finalmente al film, è che la versione definitiva possiede una delle cose di cui la workprint pare fosse carente: ovvero, l’epilogo. Quello di Halloween è un finale potente, violento, tesissimo, tragico, senza vincitori, e finalmente zombiano fino al midollo, che quasi riesce a riconciliare con quella brutta oretta passata ad annoiarsi e a bofonchiare. Dico quasi.

Nei cinema dal 5 Gennaio 2008.

Per un’analisi approfondita delle differenze tra le versioni, c’è questo post. Che però non leggerete prima di aver visto il film, sennò siete davvero dei bagonghi.

[ammucchiata]

Se leggete il blog del Conte lo sapete già: ne ha scritto qui e qui. Comunque:

Venerdì 18 gennaio, all’interno del Future Film Festival di Bologna (che quest’anno festeggia il decimo compleanno) si terrà una tavola rotonda sul "fenomeno cineblogger" (e dintorni), ideata e coordinata da Andrea Bruni.

Ospiti della conversazione: il Conte, Roy, Ohdaesu, Sara, e il sottoscritto.

Siateci anche voi.
E spargete la voce, perdiana.

The king of Kong: A fistful of quarters
di Seth Gordon, 2007

Non è uno di quei film di cui parlare agli amici: penseranno che sei impazzito. Racconta infatti dei testardi tentativi da parte di Steve Wiebe, un timido e gentile insegnante di scienze dello stato di Washington che assomiglia ad Al Gore e che suscita una simpatia "nerdy" immediata, di battere il record mondiale di Donkey Kong, registrato nel 1982 da Billy Mitchell (l’unico ad aver mai raggiunto il "killer screen") e mai più battuto da allora.

Ma da storiella curiosa, che lascia increduli per la bizzarria del suo contesto culturale (un’organizzazione chiamata Twin Galaxies che gestisce in modo monopolistico – e a volte massonico – il mondo del competitive gaming fin da quando esistono gli arcade), grazie a un registro che non spinge troppo sul tasto sull’ironia lasciando che sia la colorita realtà a parlare da sola, il film di Gordon diventa presto uno dei documentari più interessanti e persino esaltanti degli ultimi anni, e le vicende di Weibe, i suoi tentativi – frustranti o vittoriosi – di battere (o anche solo di affrontare) Mitchell coinvolgono lo spettatore come se si trattasse di una questione di vita o di morte.

Ma oltre all’innegabile intelligenza di Gordon, che riesce a non scadere mai nel ridicolo né tanto meno nella ridicolizzazione di questo assurdo mondo di giocatori incalliti, ma che anzi guarda con un certo irridente affetto a una corte dei miracoli di ex ragazzini brufolosi rimasti nella sala giochi senza accorgersi che è passato un quarto di secolo, una delle ragioni principali della riuscita di questo strano racconto americano, è proprio Billy Mitchell himself: un cattivo impenitente, tamarro, scorretto, quasi luciferino, che ricorda – molto – da vicino i personaggi dei film di Will Ferrell. Solo che è tutto vero.

Se di parlarne non è dunque il caso, senza dubbio The king of Kong è un film da presentare agli amici. Presentateglielo.

Il film è stato presentato, tra gli altri, alla Festa di Roma. Per ora, non c’è traccia di una distribuzione italiana. Se qualcuno ne sa qualcosa, non esiti a parlare.

Esiste un altro film di quest’anno che racconta le vicende di quella che viene chiamata "Golden Age of Arcade Games": si chiama Chasing Ghosts. Cercherò di recuperarlo.