2007

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La promessa dell’assassino (Eastern promises)
di David Cronenberg, 2007

L’ultimo film di David Cronenberg lascia ammutoliti: e a questo punto, preferisco considerarlo un oggetto misterioso, lasciando ad altri l’onore e il piacere di discernere le sue doti in un’attenta analisi. Il mistero non è tanto che un film recitato per l’80% con accenti esteuropei non suoni mai ridicolo, o che da un trailer interessante ma piatto ci si possa ritrovare davanti un film simile (sorprendente, inatteso), ma che dallo script di Steve Night – una robetta davvero mediocre, con dialoghi scritti con il pennarello a punta grossa sulla carta assorbente e un plot di 25 parole – ne sia uscito un film così robusto, intenso, potente, caustico, persino – disperatamente – romantico.

La storia di una donna alla ricerca della verità, e di un uomo che non può che nasconderla, inserita nel contesto di una Londra che, da dorata promessa diventa l’incubo di un popolo di esuli, nelle mani del regista canadese diviene ben altro: un altro dolente, straordinario viaggio nei più profondi turbamenti della morale. Nonché un ulteriore tassello della riflessione incessante del suo autore sul corpo e sulla mutazione, con i tatuaggi tribali/gerarchici che, nella tradizione cronenberghiana, definiscono, modificando la carne, la stessa personalità dell’individuo, andando ben oltre il mero ruolo di marchi sociali.

Eastern promises è un film anomalo, inafferrabile eppure cristallino, pornograficamente onesto, un gangster-movie senza pistole, crudo e spudorato (ma in cui il "gesto" violento è come al solito  testardamente despettacolarizzato), denso e ricchissimo, con un cast favoloso (soprattutto Viggo Mortensen, che supera – e "dona" – tutto se stesso), visivamente impeccabile (grazie al solito fidato Peter Suschitzky) e che regala con il suo finale, "chiuso" e sospeso al tempo stesso, un senso inquietante di impietoso equilibrio tra potere e felicità, tra libertà e sacrificio. Un film che lascia senza parole e con il cuore in gola, anche a costo di aspettare qualche giorno: e onestamente, capisco che possa non piacere, questo Cronenberg. Senz’altro diverso, meno incisivo forse, di quello degli anni ’90: ma dal canto mio, non meno entusiasmante.

Basterebbe citare – se ne parlerà a lungo, e già si è fatto – la sequenza capitale, graphica e terrificante, istantaneamente classica, del "duello" nella sauna: un gioiello dentro il gioiello, un vero e proprio capolavoro iperrealista.


Al cinema dal 14 Dicembre 2007.

Non vorrei prendermi la briga di dirvelo ma, sorprese a parte, le premesse per l’uscita italiana non sono delle migliori: il film è recitato in un misto di inglese, russo, turco, e soprattutto inglese con accenti vari. Ed essendo distribuito da una società dal passato burrascoso che, per iniziare con il migliore degli auspici, gli ha appioppato questo titolo cretino, non è così improbabile che la stessa visione del film venga inficiata definitivamente dall’edizione italiana. Non devo aggiungere altro, intanto vi ho avvertiti.

4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (4 luni, 3 saptamani si 2 zile)
di Cristian Mungiu, 2007

Qualche giorno fa è stata pubblicata una delle prime list cinematografiche di quest’anno ad avere una qualche rilevanza culturale: quella del Times. Secondo i critici del quotidiano britannico (e della sua versione domenicale Sunday Times) sono due i film di prima visione a meritarsi i "pieni voti", nell’anno del signore duemilasette. E se uno è Babel, scelta che prevedibilmente preferisco non commentare affatto, non lascia sorpresi che l’altro sia il film di Cristian Mungiu, trionfatore dell’ultimo festival di Cannes.

Non sorprende anche perché, in tempi recenti, sono pochi i film che hanno messo tutti d’accordo quanto quello del regista rumeno. Che riesce in ciò che naturalmente manda in visibilio tutti, proprio perché rarissimo da riscontrare, almeno con tale incontrastata purezza: ovvero, saper raccontare una storia profondamente radicata nei problemi del presente, mescolando sullo stesso livello i modi del cinema d’Autore europeo con i mezzi del cinema popolare. 4l3s2z è infatti sì una storia ambientata nella cupa Romania di Ceauşescu, ma – anche grazie alla scelta progettuale di evitare ogni tentazione di period-film, scelta per cui è difficile cogliere l’ambientazione, almeno fino alla sequenza della cena – anche e soprattutto un film su due ragazze costrette al trauma e al sacrificio, inermi nelle mani di un uomo nero, in una Bucarest nera e minacciosa come una foresta nera.

Il resto è tutto quello che avete letto dappertutto: in alcuni casi, di più. E al di sopra di tutto, la regia perfetta, magistrale e terrificante, del trentanovenne Mungiu, che gioca con sapienza per tutto il film, in modo consapevole e teorico ma non "glaciale", con il contrasto tra, da una parte, l’ostentato, il palese (gli infiniti piani sequenza, quello sguardo insistito sul feto che si è accollato non poche critiche) e, dall’altra parte, il celato (la violenza che annichilisce proprio perché solo gli "atti" sono solo accennati, attraverso un uso del sonoro e del fuoricampo che viene dritto dritto dal cinema horror).

Un film sensazionale ma non sensazionalista, che inchioda alla poltrona e colpisce sempre nel punto giusto, con coerenza e correttezza, ribadendo la vitalità crescente del cinema rumeno, e che si conclude con un debrayage spettatoriale, genialoide nonostante il sapore di beffa, ma che aiuta a rimettere i piedi a terra e a ricordarci, per un istante, che siamo ancora vivi.

[beat that]

Friday Prejudice, il blog che vanta innumerevoli eccetera. Episodio 98.

Redacted
di Brian De Palma, 2007

Fece un po’ effetto, a chi De Palma lo coccola come qualcosa di prezioso da sempre, la notizia che il suo film presentato a Venezia sarebbe stato un aperte virgolette atto di accusa nei confronti della guerra in Iraq chiuse virgolette. Non che il cinema del regista americano sia del tutto avulso dall’impegno "politico" (pensiamo a Vittime di guerra, ma anche al sottovalutatissimo Falò delle vanità e ai suoi primordi godardiani), ma il suo interesse principale, soprattutto negli ultimi anni, è stato perlopiù una riflessione sugli statuti di realtà dell’immagine (del cinema, in particolare), che rivelava spesso la sua natura teorica tra le pieghe di generi come il noir, la fantascienza, l’action.

Niente di più sbagliato: il nuovo film di De Palma non è in realtà affatto dissimile, e basta guardarlo da lontano e con un occhio chiuso per capirlo, e gli strascichi polemici (di natura prettamente politica, leggi "rappresentazione semplicista e unilaterale dei soldati americani") non hanno evidentemente colpito il bersaglio. Ma nemmeno avvicinato. E’ chiaro che c’è uno stilmolo politico profondo nel girare questo film. Quasi un’impellenza, direi: ed è forse l’unico motivo che attutisce la grandezza del film. Perché per il resto, Redacted è un magistrale collage di linguaggi che passa dalla rarefazione del documentario europoide alle vere fotografie di vittime della guerra in Iraq, dalla tremolante a pagine web e videochat di assoluto realismo. Realismo, appunto: perché in ogni verità, come in quelle che chiudono il film e i nostri occhi terrorizzati, c’è menzogna. E viceversa, ovviamente.

Non dimenticando un’ironia che diventa da sibillina e accennata a feroce e spietata, una necessità dello sguardo che tradisce lo sguardo impietosamente curioso del suo autore (quasi) di fronte a nulla (e che contiene la vera politica del film), e – ovviamente – anche un senso del racconto che si costruisce e cresce sui suoi stessi frammenti, e che invece di spezzettarsi riesce a ricompattarsi con una tensione a tratti insopportabile (tutta la sequenza del "fatto": ma più i preliminari che l’atto vero e proprio).

Un film destinato a far parlare di sé per i motivi sbagliati, ma che meriterà senz’altro la vostra attenzione, sempre se – e non è così scontato come sembra – avremo la fortuna di vederlo dalle nostre parti.

Assolutamente da segnalare il pezzo veneziano dell’esimio dottor infamous, la cui attenta lettura del film condivido riga per riga, sulle pagine di sulle pagine di cineblog.

Particolare e stimolante il confronto con un mediometraggio tutto italiano, intitolato Teo-sofia, che pur trattando temi più "leggeri" utilizza un metodo del tutto simile. L’ho visto mesi fa e non ne ho mai scritto: mi riprometto di farlo.

American Gangster
di Ridley Scott, 2007

Non lo faccio apposta, a fare l’autoriflessivo. E lo so, che è pure un atteggiamento antipatico. Ma tant’è, il paragrafo iniziale in cui sbatto una considerazione sul confronto tra il film e quello che se ne scrive, quello se ne viene fuori come una pisciata mattutina. Insomma, questa volta il discorso è: si capisce perfettamente che un film non mi ha entusiasmato dal fatto che non sono entusiasta di scriverne – e in seconda battuta, dal fatto che sono costretto a tutto questo per poter chiudere il primo paragrafo.

La questione con American gangster è però ben più complessa, come si sa: dobbiamo continuare a piangere sangue perché il regista dei Duellanti, di Blade runner e di Alien si è completamente bevuto il cervello da anni e, ah!, quei bei tempi andati non li rivedremo mai più e un film semi-riuscito non è che una magra consolazione, oppure possiamo prendere atto del fatto che American gangster è, finalmente, un film diretto Ridley Scott semi-riuscito, e gioirne? Almeno, per non aver buttato al vento 157 minuti (dico, centocinquantasette) della nostra vita?

A parlare del film, del perché sì e del perché no, ci ha già pensato Valido: a me rimangono le briciole, ma sono perfettamente d’accordo con lui. Per dirla con parole mie, il film è di una robustezza impressionante, ha l’enorme valore di prendersi i suoi tempi perdendosi all’infinito tra le pieghe dei tic dei suoi due personaggi (perché i Fatti tirerebbero via un film di una mezz’oretta, e in quanto a divagazioni quella pellaccia di Steven Zaillian è una garanzia), ci ridà indietro un attore – Denzel Washington, "my man" – che quasi non potevamo più vedere, è bello crudo ma senza eccessivo compiacimento (giusto un pochetto) e rovescia letteralmente addosso a Russel Crowe un intero armamentario da dropout hero (emarginato proprio perché onesto) che – risentendo della lezione di Zodiac, forse? – allontana gradevolmente ogni sentore di conformismo. Tutto bene.

Però, ci tocca ripetere quanto già detto dal giovane esule carpigiano: manca il guizzo, il vezzo, lo schizzo, il pazzo. Manca un motivo per ricordarsene, una scena da raccontare il giorno dopo (ti tocca tirar fuori l’apogeo narrativo del film, ovvero la retata, effettivamente una roba di un cazzuto che di più non si può, ma non basta), insomma, manca l’entusiasmo. Quello che, quando devi chiudere un post ed è mezzanotte suonata, ti sa dare pure una manina.

Nei cinema dal 18 Gennaio 2008

[addio]

E’ morta Eleonora Rossi Drago.

Glory to the filmmaker! (Kantoku – Banzai!)
di Takeshi Kitano, 2007

L’allucinante trailer che girava da tempo, e soprattutto le voci da Venezia, dove è stato presentato quest’anno, con esiti piuttosto deludenti, lo davano per certo: chi aveva pensato che la deriva "folle" di Takeshis’ (che nel nostro paese idiota è uscito solo in DVD, qualche mese fa) sarebbe stato un momento di transizione, passaggio autoriflessivo obbligato e peraltro tipico nella carriera di molti grandi Autori, si sbagliava di grosso. Da queste parti, nessuna delusione, perché si trattava di un grande film, in cui Kitano faceva i conti (e a pugni) con la sua carriera, con il caos, con il cinema, irridendo se stesso e la cognizione di sé da parte di critica, fan e pubblico pagante.

Ma se questo film procede indubbiamente nella stessa direzione del precedente, in questo caso ci si avvicina più al delirio incontrollato e parodico di Getting any? che non alla sofisticata sperimentazione di Takeshis’: GTTF è infatti a mio parere l’unico vero ritorno kitaniano al manzai da cui è spuntato: un delirio organizzato metacinematografico e – stavolta davvero – autenticamente demenziale. Basti dire che il protagonista della vicenda principale, interpretato da Kitano stesso, è affiancato per tutto il film da un bambolotto a grandezza naturale con cui vive una dualità paradossale: condividono a volte l’inquadratura mostrandosi come due entità differenti, ma sono indubbiamente la stessa. Oltre a questo, le qualità superumane del secondo vengono puntualmente utilizzate dal personaggio per uscire da situazioni difficili, trasformandosi nel suo inespressivo e stilizzato simulacro.

Vale la pena di spendere due parole sulla struttura narrativa, se così si può dire, del film: da principio, una voce fuori campo racconta del tentativo di Kitano stesso di sfuggire dalla sua mancanza di ispirazione e (proprio come nel film del 2005) dalla sua incapacità di girare un altro film di gangster. Tutta la prima metà, meravigliosamente naif e indescrivibilmente spassosa, è quindi una sequela di incipit di film iniziati e mai portati a termine, la cui brillantezza è data soprattutto dalla metodologia comica usata da Kitano. Che non parodizza in modo tradizionale i generi (tra cui un j-horror, una commedia romantica, un film di fantascienza, un chambara eiga, un incredibile finto-Ozu che fa rizzare i capelli sulla testa) ma fa sì che la ridicolaggine scaturisca autonomamente dalle forzature insite nei generi stessi, senza bisogno di sottolinearle.

La seconda parte è invece "la scelta" effettiva di Kitano, l’unico film che è possibile girare tra le varie opzioni, l’unico che è in grado di raccontare senza dover contraddire i suoi valori (e il suo blocco creativo) ed è – come si poteva prevedere – qualcosa di completamente avulso dagli schemi e dalle teorie dei generi, con personaggi che a volte vi si rifanno vagamente (con un occhio di riguardo, mai così esplicito in Kitano, agli anime, di cui vengono riprodotti letteralmente anche alcuni "luoghi comuni"), ma che vengono comunque assorbiti da una trama talmente assurda che ci sembra di averla sognata. Il suo scheletro, per dire, parla di una donna e sua figlia che irretiscono una guardia del corpo, credendolo un ricco erede, ma visto quello che vi gira intorno non varrebbe nemmeno la pena di citarlo.

Alla lunga però, e spiace davvero doverlo ammettere, la vicenda fa sentire una certa stanchezza. Non si può fare finta di niente, la mistura manca di freschezza: giusto perché è Kitano, ecco, possiamo perdonare idiozie come la parodia di Matrix. Ciò nonostante, ci si diverte come pazzi, se si è dell’umore giusto, e se si è disposti ad accettare che GTTF – questo sì – è un film di transizione, un divertissement arguto e piuttosto perfido, perfetto per fare impazzire i fan, incazzare i critici e lasciare con un palmo di naso quasi tutti gli altri.

Kitano riesce comunque a riempire di significato anche alle cose più triviali, ed è ancora un regista splendidamente lucido e coraggioso. Forse a questo punto siamo arrivati al limite di saturazione in cui rivorremmo solo l’immensa poesia di Hana-bi, ma questo ruolo di elclettico e ingenuotto creatore di mondi (e di allegro distruttore di mondi, nel finale catartico e apocalittico) gli calza che è una meraviglia. In fondo, GTTF è un film talmente spudorato e liberatorio che non riusciamo a non volergli bene. Un po’ di bene. Un poco.

Mio fratello è figlio unico
di Daniele Luchetti, 2007

Pur apprezzando molto il cinema di Luchetti, tutto il tempo atteso dall’uscita di questo suo ultimo film, tratto da "Il fasciocomunista" di Antonio Pennacchi, mi aveva convinto, in qualche modo, di non essermi perso niente di che. L’ho recuperato quindi pigramente, senza troppa curiosità e senza troppo entusiasmo.

Invece ho trovato un film che, pur con qualche limite (dovuto, per fare un esempio, all’accostamento del solito eccellente Elio Germano alla decorosa legnosità di Scamarcio), racconta una storia italiana in cui la politica e gli ideali vengono svuotati della loro aurea mi(s)tica, ritratti più come un pretesto per sopravvivere, per sfuggire al grigiume della povertà e della provincia, per trovare un posto nel mondo. E che ha il coraggio di costruire la figura di Accio mescolando antipatia ed empatia, con una malinconia che diventa, nel sommesso e bellissimo finale, sottile disperazione.

Qualunquista e disilluso? Semplicistico? "Rossi e neri son tutti uguali"? "Ve lo meritate Alberto Sordi"? Forse. Ma quello che ci ho visto io, o che ci ho voluto vedere, è stato soprattutto il recupero di un gusto e di una piacevolezza del racconto (anche grazie alla scorrevole sceneggiatura scritta da Luchetti insieme a Rulli e Petraglia, che a sessant’anni sanno scrivere script di una freschezza che la maggior parte dei conterranei si sogna) che non riscontravo da tempo nel nostro cinema.

[perseguibile penalmente]

Ultime speranze del cinema italiano, questa settimana su Friday Prejudice.

Futurama: Bender’s Big Score
di Dwayne Carey-Hill, 2007

Il mondo si divide in: persone che hanno già visto il primo film di Futurama, persone che sapevano della sua esistenza e si procureranno presto il dvd (o altro), e persone che non lo sapevano affatto, le quali immagino stiano correndo per casa tirando urli tipo aaaah film di Futurama aaaaah fiiiiilm. Tsk. C’è un’altra categoria, in realtà, quelli che Futurama non è niente di che, Futurama non mi mancava affatto, Futurama cos’è, Futurama vuoi mettere i Simpson. Non li prendo nemmeno in considerazione. Faccio finta di niente. Na na na na na.

Scherzi a parte, riassumo in dodici parole, ché il resto ve lo potete leggere su Wikipedia: la quinta stagione, attesa ormai da più di quattro anni, da quando la Fox decise di chiudere il programma per sopraggiunta idiozia, sarà formata da quattro veri lungometraggi, che usciranno direttamente in DVD e che poi verranno trasmessi in forma episodica su – tah dah – Comedy Central.

Ora, venendo alle cose serie, su Bender’s big score si dovrebbe fare un discorso – che non farò comunque – molto diverso da quello che si poteva fare per The Simpsons Movie. Perché Futurama era un oggetto ben più complesso (migliore? maybe?) del suo predecessore, e soprattutto adulto, un geniale frullato alieno che si cibava di letteratura fantascientifica e pop culture, Philip Dick e Star Trek e Douglas Adams, era colto e nerd, era stratificato e ricchissimo, come pochissimi altri. Ma sto ancora parlando di Futurama, e non di Bender’s Big Score. Com’è, mi si chiede. Almeno, immagino che mi si chieda. Funziona così, io scrivo e sento le voci nella testa.

C’è tutto un incipit lunghissimo in cui gli autori prendono apertamente per il culo quelli della Fox che li avevano fatti licenziare in cui quasi mi metto a piangere dal ridere. C’è Hermes Conrad acefalo per quasi tutto il film, quando non con la testa rivoltata. Ci sono tre orribili alieni nudi che vogliono conquistare il mondo usando lo SPAM. C’è una scena in cui sono tutti nudi. C’è la spiegazione della sconfitta presidenziale di Al Gore. C’è un numero musical (stupendo) con Robot Santa, KwanzaBot doppiato da Coolio, e Chanukah Zombie da Mark Hamill. Nibbler parla, e non solo: un idolo. Purtroppo non riesco a parlarne che così, a frammenti, a cui poi ripenso. E rido da solo come uno scemo.

Ma non stiamo mica parlando di Family Guy. Che pure adoro, ma non vuol dire. Qui la questione è ben diversa: Bender’s Big Score non è un film fatto dei suoi frammenti, per quanto geniali. Anzi: è un film denso e cerebrale, costruito da una parte per accumulo (di stimoli, riferimenti, autocitazioni) e dall’altra, con perfetta e perversa macchinosità, su un numero di paradossi temporali (perlopiù sorprendenti) da far impallidire Ritorno al Futuro 2. E se al di sotto si vede ben altro che la semplice parodia (la storia d’amore tra Fry e Leela, sempre più struggente), dal finale si può anche ben intuire che la quadrilogia sarà un lunghissimo e irresistibile flusso. Non vediamo l’ora: ma dovremo aspettare a lungo.

Comunque, se ancora state cercando un mero giudizio che vada al di là della mia personalissima opinione (e cioé che ci siamo, il prodotto è ganzissimo, roba di primissima qualità) vogliate sapere che Bender’s Big Score non è perfetto, non è una vetta, non è una chiusa magistrale, niente di tutto ciò: e chi se ne frega. Futurama aveva lasciato un piccolo vuoto, e ora l’ha ricolmato.

Bentornato, Professor Farnsworth.

You, the living (Du levande)
di Roy Andersson, 2007

Sette anni dopo Songs from the second floor, il regista svedese ritorna al suo cinema fatto di pochi e interminabili quadri a camera fissa, e di personaggi fantasma che girovagano tra le ultime vestigia della nostra civiltà.

Questa volta la scelta di Andersson è di rendere il suo discorso più implicito e allo stesso tempo empirico, riaccollandosi sulle spalle il pesante fardello del presente, e facendo fuoriuscire i personaggi da una realtà (altrettanto grigia e funerea) soltanto nella forma del sogno: così, gli unici sfoghi surrealisti sono quelli propriamente onirici. E meravigliosi: uno, il transfert di un senso di colpa sociale (legato forse addirittura ad una visione disincantata della lotta di classe); l’altro, la sublimazione di una delusione amorosa.

Se molta della forza sovversiva del film precedente si acquieta (mancano sequenze che abbiano metà della forza di quella del sacrificio umano in Songs), donando ahinoi al film quell’effetto soporifero da cui il film del 2000 era riuscito del tutto (e miracolosamente) a sfuggire, la scelta di cedere più spesso alla mobilità (che non è affatto horror vacui: anche qui i movimenti della macchina da presa contano sulle dita di una mano) dimostra la capacità di Andersson di penetrare (letteralmente) le sue visioni, mostrando peraltro – e quasi nessuno lo fa più – la portata, non solo teorica ma anche emozionale, di un carrello.

Il cinema di Andersson rimane comunque qualcosa di estremamente prezioso, non solo perché ancora bellissimo a vedersi, anzi ancora impressionante sotto il profilo visivo, ma anche perché è un oggetto assolutamente alieno rispetto al cinema europeo, che nelle sue forme "autoriali" ha solo da imparare dalla strenua coerenza (anti-commerciale di principio: bisogna accettarlo) di Roy Andersson.

Un plauso a Ladyfilm per aver avuto, a modo loro, il coraggio di distribuirne qualche copia nelle nostre sale.

[hype]

CJ7.

[all you need is patata]

Friday Prejudice: l’episodio novantasei.

Mirrormask
di Dave McKean, 2005

Ultimamente mi sono appassionato, senza alcun completismo ma con estrema curiosità, all’opera dello scrittore britannico Neil Gaiman: naturale sfociare, soprattutto dopo l’indecisa reazione a Stardust, nel recupero delle cose da lui fatte per lo schermo. Mirrormask è il primo vero progetto cinematografico di Gaiman: lo scrisse insieme al regista Dave McKean, disegnatore geniale (celeberrime le sue copertine) e socio abituale di Gaiman (nelle graphic novel Signal to noise e Mr Punch e come illustratore di molti suoi libri), e insieme lo produssero grazie all’intervento di Lisa Henson, figlia di Jim.

Mirrormask è, da principio e senza dubbio, un progetto ammirevole, soprattutto se i disegni di McKean e le storie di Gaiman vi affascinano, ma non solo. Entrambi gli artisti fanno di tutto per tradurre in immagini le loro ossessioni e il loro mondo, le loro inquietudini e il loro bizzarro e irresistibile senso dell’humor. Ci riescono alla perfezione, con un invenzioni visive che spesso lasciano a bocca aperta, e in modo assolutamente sincero, dando moltissima libertà ai singoli animatori e – facendo di necessità virtù – traendo uno stile originale anche dalle loro ristrettezze di tempi e di budget, non facendosi schiacciare del tutto da queste ultime. E tirarne fuori una robaccia trash era davvero un rischio reale.

Però Mirrormask è anche un film, soprattutto sotto l’aspetto narrativo, che definire irrisolto è dire poco. Al di sotto delle favolose fantasmagorie di McKean (e del fotografo Antony Shearn), c’è putroppo un pasticcio confuso e confusionario che tende all’eccesso entusiasta: ci si sbatte dentro di tutto e di più (dal fascino biecamente tribale del mondo circense, a riflessioni junghiane sulla coscienza, a un’opaca variazione sul tema del doppelganger), ma in questo modo si rischia di intrecciare pericolosamente l’onirismo con il colpo di sonno, anche per colpa dei limiti portati dall’inesperienza dell’esordiente McKean in un progetto complesso come un lungometraggio.

Ciò nonostante, la dedizione dei due è encomiabile, e non c’è alcun dubbio che le loro stesse ambizioni siano state rimodellate da un modello economico e tecnologico del tutto inadatto alle esigenze del caso. Vedremo, in futuro (chissà), se ci sarà per loro una seconda occasione.

Ignorato (ingiustamente, suvvia!) dalla distribuzione per sala, il film è uscito in Italia direttamente in DVD. Generalmente, ve lo tirano dietro. Per dire, io l’ho pagato sette euro da Saturn. Se siete anglofoni, su Play.com tra un po’ vi pagano per comprarlo.

[tonite]

The National @ Music Drome (Transilvania Live)
Official Site, Myspace, Wikipedia, Lastfm, Mistaken for strangers.

Supporter: Hayden – Official site, Myspace, Wikipedia.

Apartment Story video directed by Banner Gwin.

[addio]

E’ morto Ferdinando Baldi.

Angel
di François Ozon, 2007

Ozon è uno di quei registi di cui, all’interno di un immaginario dibattito tra gli amanti più sconsiderati e i critici più insolenti, non mi sono fatto ancora un’opinione precisa. Prima di tutto perché ho visto ancora poco. Il perché sfugge anche a me, misteri della mia stessa psiche. Non fa eccezione, nella mia brevissima esperienza ozoniana, questo gran bel "esordio anglofono" del quarantenne parigino dopo otto notissimi film in lingua francese.

Se con 8 femmes aveva dimostrato di riuscire a gestire alla perfezione questo tipo di omaggio nostalgico (lì c’erano le Donne di Cukor, e molto altro), qui Ozon riconferma di avere le stesse capacità anche senza l’aiuto di quell’ipnotico e straordinario cast. Angel è però un melodramma smaccatamente plasticato: fasullo, ma nell’unica accezione in cui possa essere un complimento. E lo è: non solo racconta un’ascesa e una caduta nel più classico dei modi, ma si filtra attraverso l’espediente del gioco cinefilo. Dai fondali ai tessuti, dagli abiti ai set, fino ad ogni singola mossa o battuta, Angel si pone come un punto d’arrivo del cinema riproduttivo proprio della – certuni la chiamano ancora – postmodernità.

Chi bazzica qui sa bene che ciò non è considerato un male, se fatto con classe: e di classe Angel ne ha da vendere. Ma se tutto ciò vi può trovare infastiditi, di principio, statene lontani: Angel, per questa sua tendenza esplicitamente cerebrale, e profondamente superficiale, è un film che accontenta la vista più che il gusto, la mente più che il cuore – e tutto questo rende un po’ ardua la parte più propriamente "melodrammatica": proprio perché una volta che il gioco è aperto e sotto gli occhi, fin da subito, è difficile poi riuscire a buttare il cuore alle ortiche.

Ma tutta la prima parte (l’ascesa, appunto) è qualcosa di travolgente e sorprendente, costruito su barocchismi tanto spudorati quanto affascinanti, in cui molta della forza è dovuta all’interpretazione "insopportabile" di Romola Garai, che più che un talento mimico formidabile, che comunque le si riconosce, mostra un’ammirevole abnegazione al "metodo Ozon": sopra le righe eppure ad esso sottomessa. Imprescindibile per questo la visione in lingua originale.

[tonite]
[ovvero yesterdaynite]

Okkervil River @ Estragon, Bologna
Official, Myspace imeem, Wikipedia, Lastfm, Down the oubliette.

Our life is not a movie or maybe video directed by Margaret Brown.

[post in attesa]

[se fossi in voi mi leverei subito quel pensiero dalla testa]



Volete sapere perché dovreste levarvi subito
quel pensiero dalla testa?

Correte su Friday Prejudice, episodio novantacinque.

Arriveremo mai a 100? Che il ciel ci aiuti.