gennaio 2008

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[ba-cio!, ba-cio!]

Ancora e ancora e ancora Friday Prejudice. Mostri grossi, nudi.

[tonite]

Lightspeed Champion @ La Casa 139, Milano

Sito ufficiale, Myspace, Youtube, Wikipedia, Lastfm, Test Icicles.

Midnight surprise video directed by Drew Cox.

Exodus (Cheut ai kup gei)
di Pang Ho-cheung, 2007

A volte l’incipit di un film ha una funzione molto più che introduttiva: come accade anche, spesso quasi come una norma, nella forma del racconto breve, la prima frase del testo deve aprire in qualche modo la mente del lettore, far sì che chi guarda si ponga immediatamente delle domande ben chiare (tipo "che diavolo sta succedendo?"), solleticarne la curiosità. Anche a costo di rendere impossibili le risposte. O di essere palesemente sleali.

Exodus si apre con un piano-sequenza, un lungo e lentissimo carrello all’indietro che, a partire dagli occhi della regina Elisabetta in un quadro appeso nel corridoio di un commissariato di polizia, si scopre su una violentissima scena di lotta al ralenti tra un combattivo individuo e una banda di uomini in costume da bagno e maschera da sub, armati di martelli. Un’apertura talmente sopra le righe da tirannizzare, letteralmente, quasi ogni discorso sul film sia stato fatto finora, come sta succedendo qui: e se così è, la tentazione di non parlare d’altro è forte.

Ma sarebbe un peccato, perché oltre all’incipit c’è ben altro: prima di tutto c’è tutto un film che non fa che disattenderne programmaticamente – slealmente dunque, ma in senso buono – le premesse, sia nei toni (il film è nerissimo ma assolutamente antispettacolare, accennato e sommesso come la recitazione dell’incredibile Simon Yam) sia narrativamente (perché quei sub assassini non solo non rivelano nulla, ma il film che segue con essi ha apparentemente poco a che fare). Ci troviamo di fronte a un film che fino all’ultimo fotogramma, se si esclude un lungo e bellissimo flashback, "esplicativo" ma necessario, lavora soprattutto di negazione e di sottrazione, accompagnato dal lavoro, al solito eccellente, del fotografo di fiducia Charlie Lam.

E poi, c’è la conferma di un autore, Pang Ho-Cheung, che si sta costruendo una carriera e una fama attraverso film piccoli e "differenti", ma che è davvero impossibile non notare, e che con questo Exodus riesce a scartare parzialmente sia un eccesso di patina presente nell’irresistibile Beyond our Ken, sia le tentazioni eccessivamente autoriali dello stupefacente Isabella, costruendo un’operetta intelligente, caustica e sottotono, che nel paradosso di una trama bizzarra – che non rivelo, ma solo perché è più divertente scoprirla attraverso la visione – solleva qualche riflessione interessante di ordine storico e (meno) simbolico, ma che soprattutto, nel suo piccolo, prende a schiaffi le esigenze (e le abitudini) dello spettatore. Ben felice di trovarsi i segni delle dita sulle guance.

Un po’ intrusivo ma decisamente riuscito il lavoro del compositore italiano Gabriele Roberto, alla seconda colonna sonora importante dopo quella per Memories of Matsuko.

Extra: la sequenza iniziale di Exodus su Youtube.

[revisionismo]

Ribadire, ribadire, ribadire: è cosa buona e giusta.

Shaolin soccer (Siu lam juk kau)
di Stephen Chow, 2001

Per una legge non scritta di questo blog, che vede tra l’altro pochissime eccezioni, si suppone che io parli di ogni cosa mi capiti di vedere. Nel caso di film già visti nel "periodo blog" (ovvero da Gennaio 2004), la regola non vale: al massimo, se il film è particolarmente meritevole o interessante, posto una capture chiamata "revisionismo". Per qualche strano caso, invece, Shaolin Soccer è un film che, dopo la "prima volta" in sala nell’Aprile del 2003, mi è capitato di rivedere più volte durante questi ultimi anni. Eppure non ne ho mai scritto.

Un po’ perché scrivere di Shaolin soccer implica spesso discutere del noto trattamento che venne riservato al film dalla Buena Vista: non tanto dei tagli, che facevano parte di un’edizione da esportazione distribuita in Europa, ma per l’ignominioso lavoro di adattamento, che oltre a rovinarne indiscutibilmente la visione, ne adulterava il senso come pochissime altre volte nella storia della distribuzione nostrana. Un caso che tra l’altro aprì le porte a operazioni simili negli anni a venire, e di cui vorremmo solo dimenticare l’esistenza – soprattutto perché l’inatteso successo dalle nostre parti dipese anche dall’imbarazzante e provinciale doppiaggio. 

Non sapete quante volte mi sono ritrovato a discutere e a sentirmi dire "eh sì, Shaolin Soccer è troppo figo, poi quel tizio che parla in marchigiano fa morir dal ridere!". Peccato per tutti quei musi gialli, eh?

Mi tolgo il dente ora che ho finalmente acquistato – a un prezzo che definire irrisorio è poco – la bella edizione inglese, completa sia della versione "europea" che di quella integrale cantonese, alla quale erano state sottratte soprattutto alcune "divagazioni", soprattutto nella seconda parte, irresistibili per chi conosca anche una briciola del cinema di Chow, ma che effettivamente non cambiavano (troppo) il senso né snaturavano (troppo) l’animo del film.

Che è, ora ci arrivo, un film che non possiamo non amare, pur rendendoci conto che si tratta in qualche modo di un’opera di passaggio, dai fasti di God of cookery e King of comedy all’assoluta perfezione di Kung fu hustle. Ma ora, in tempi meno sospetti e più lontani dagli entusiasmi di quando si cercava di recuperare tutto il recuperabile (e di quando questo blog era diventato una specie di fansite del Chow "Autore"), Shaolin soccer diverte ancora come allora, e non ha perso un briciolo del suo irresistibile, stupefacente, ed effettivamente inesplicabile fascino.

E poi, anche se vengono in secondo piano rispetto a cosette immortali come Tin Kai Man che, messo in porta contro la letale squadra dei "cattivi", telefona per confessare un amore segreto, o di Karen Mok e Cecilia Cheung che giocano/combattono con il pizzetto, ci sono tutta una serie di motivazioni di ordine, diciamo, storico: e prima tra tutte, che è un apripista. Sia perché contiene già i semi di Kung fu hustle in forma grezza (la magistrale scena della lacrima nell’impasto vs la rivelazione del leccalecca di fronte al poster di Top hat) sia perché ha aiutato – tutti noi, e molti altri in occidente – a conoscere il geniale, sublime cinema di Stephen Chow.

Ecco, Shaolin soccer è il film dove Chow ha marcato – con la scia di un pallone lanciato verso il cielo e verso la riscossa - il divario tra il geniale dei suoi film precedenti e il sublime dei successivi. Nei quali, senza troppi timori, speriamo di includere il promettente CJ7.

[post in attesa]

[un’altra immagine]

Gioca con noi, il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Into the wild
di Sean Penn, 2007

preparate le pistole, i coltelli, le frecce e i dardi, le donne, i cavalier, l’armi, gli amori perché?, non mi dirai mica che non ti è piaciuto Into The Wild ehi che tempismo, beh, esattamente beh sicuramente ti sei fatto condizionare da qualcuno è un’idea come un’altra oppure ti si è bruciato il cervello ma parla per te, e per Sean Penn semmai, che credevamo essere una persona seria e invece sì vabbè però non argomenti prima di tutto chi dice che è un mio dovere argomentare io, il tuo lettore seh, buonanotte, secondo punto, che tanto il nocciolo fondamentale della questione lo dico alla fine, dammi il tempo invece di attaccarmi subito così, alla prossima cosa mi dai, del nazista? (…) ecco appunto, parliamo di Into The Wild sono convinto che la tua insoddisfazione sia la solita solfa di matrice ideologica ehi ma allora lo leggi davvero il mio blog (…) guarda, stai zitto che è meglio, ammetto che al malgiudizio sul film ha contribuito in parte il fatto che, come altri avevano previsto, Christopher McCandless è ritratto con quest’aura profetica che cozza un sistema di valori per cui non si può santificare un fighetto incosciente che lascia dietro di sé un ingiustificato strascico di dolore, quando se davvero il suo problema era raggiungere una risposta, e se quella lì era la risposta, oh, vogliamo proprio dirla tutta, bastava che mi faceva una telefonata e glielo dicevo io, gli dicevo "leggi meglio, oh idiota, la risposta è a pagina 42" vedi che hai dei preconcetti zitto ma il Cinema non ha nulla a che fare con queste cose ho detto zitto, e ho detto pure che ha contribuito, non che è tutto qui cioé spiegati insomma, se pure avrei preferito di gran lunga che fosse più chiaro che McCandless era solo matto come un cavallo, e pure pericoloso, e che lo è pure ora, pericoloso dico, non è perché io voglia fare la moraletta sopra la sua stessa moraletta, ma solo perché sarebbe semplicemente stato più interessante, guarda Grizzly Man insomma, però questo è solo un problema mio, con roba così mi viene la gastrite smettila di schernirlo, ci vuole un po’ di rispetto ohi ciccio, non so cosa dirti, quando un film è orribile non mi viene naturale insistere così, ma Into The Wild non è orribile, e non è nemmeno bruttissimo, in fondo ci crede, ci prova, a fare l’opera herzoghiana sulla sfida persa in partenza dell’uomo contro la natura, lo vedi, proprio ogni due minuti, ehi, qui c’è dell’herzog, qui no meglio che io stia zitto davvero, tu non sai manco chi sia Herzog vabbé, uff, e poi ci sono le splendide canzoni di Eddie Vedder e alcune belle immagini di Eric Gautier, ma questo non toglie che da quasi ogni altro punto di vista Into The Wild sia un film palesemente malriuscito, uno spreco di energie imperdonabile, girato su un principio di accumulo nella regia e persino nella fotografia e nel montaggio che fa molto cinema sperimentale, con tutti i crismi per piacere alla sua bella fetta di mercato, eppure radicalmente risaputo nella struttura narrativa, e sotto questo aspetto, anche se non è il succo della questione, se vuoi mi soffermo che c’è che non va, hai davvero problemi con la struttura a flashback? ma no, è che mi sorprende che Penn che è una persona ragionevole, visto che ha avuto il coraggio di propinarci due tremende ore e mezza di questa roba non abbia avuto anche il coraggio di estremizzare il racconto linearizzandolo cioè? uff, cioè, anche qui è un problema mio, i flashback ammorbidiscono la forza espressiva dell’avvicinamento alla morte di cosetto, lo rendono convenzionale, ed è un peccato, perché un’ora conclusiva nel pulmino, quella sì sarebbe stata una bella mazzata nelle gambe, così son capaci tutti, ma tanto queste sono divagazioni, non è questo il punto allora spiegamelo, il nocciolo della questione appunto, il problema è proprio quello, la spiegazione, dover spiegare tutto, a ogni inquadratura, non credo di aver capito me ne rendo conto, comunque, succede qualcosa sullo schermo e senti la voce di Jena Malone, che tra l’altro sta crescendo maluccio poverina, ci piaceva tanto, e la voce di Jena Malone prima ti dice cos’è successo prima, poi ti descrive che cosa stai guardando, e poi, soprattutto, ti spiega per filo e per segno il significato di quello che sta succedendo, e sto parlando di uno spiegone big time di tutti i maledetti strati del maledetto discorso non ti piace il voice-over, insomma senti, c’è voice-over e voice-over, non è una questione di gusti, è che ci sono casi, e parlo di casi specifici come Into The Wild, in cui una scelta così sottolineata e invasiva come il voice-over, lungo quasi tutto il film, può essere davvero micidiale, non solo perché adultera il senso e il gusto del racconto, ma anche perché il film è assolutamente esplicito nel suo messaggio, e soprattutto nel farsi messaggio, il che, mettiamola lì, potrebbe annullare qualunque menata sulla sopravvalutazione dell’ideologia, talmente esplicito dicevo, e aperto, che queste spiegazioni tutte belle forbite non servono a nulla, anzi, insomma, perché una cosa è prendere per mano lo spettatore, altra è prenderlo per scemo, per non parlare di questo esercito di personaggini che sarebbero anche interessanti se non fossero piccoli così, meramente funzionali ai miseri scopi di Supertramp, e talmente infilati nell’indole da cineasta liberal da sfiorare l’autoparodia, fino a sfociare nel vero Ridicolo Involontario di tutta la sequenza con la tipina con la voglia di cazzo, che tra l’altro getta una luce sconfortante sulle tendenze ascetiche di Sean Penn, se ci aggiungiamo anche che l’unica scopata è una scopata triste su quello siamo d’accordo, che spreco poi, cotanta Kristen Stewart e le vediamo solo le mutandine ecco, razza di pervertito, parliamone è minorenne cos’ha poi questo qui come scarto emozionale, come trauma narrativo, i genitori che litigavano e non si separavano mai?, ma stiamo scherzando?, e tutte queste menate, e decine e decine di minuti di Jena Malone che ci legge la smemoranda con i drammi interiori suoi e del suo fratello matto, per cosa, per le litigate tra due poveri squallidi cristi che alla fine appaiono molto più umani di lui secondo me non è un problema del film, si vede che hai avuto un’infanzia perfetta, tu ma vaffanculo.

Tu non mi conosci. Non sai niente di me.

[goodbye]

E’ morto Heath Ledger.

Shadows in the palace (Goongnyeo)
di Kim Mee-jeung, 2007

Diciamola tutta, dalle parti di Seoul son tempi cupi, e già da tempo. Non vorremmo mai far la figura dei bambini che gridavano al lupo! al lupo!, ma se escludiamo un limitato numero di nomi altisonanti (Park Chan-wook e Bong Joon-ho in primis, e poi Lee Chang-dong e Im Sang-soo, Hong Sang-soo se avete quei gusti lì, e Kim Ki-duk se siete particolarmente caritatevoli) è un po’ di tempo che il cinema coreano non riserva le grandi sorprese a cui eravamo abituati anni fa, quando lo scoprimmo nel bel mezzo del suo canto del cigno. E se una delle "molle" del grande stravolgimento culturale erano i famosi contributi ai registi emergenti, dove cercare nuovi entusiasmi se non nelle opere prime?

Shadows in the palace, appunto, è un’opera prima, e in quanto tale è stata premiata con l’apposito premio agli ultimi Korean Film Awards, poche settimane fa. Anche per la formazione della sua regista, assistente di Lee Jun-ik sul set di quello sfasciabotteghini che fu The king and the clown, il film si palesa ad un primo sguardo disattento come una sorta di costola del film di Lee. Sul cui medesimo set, per dire, è stato girato. Dopotutto, se un film fa un tale ed enorme successo, cosa ci si può aspettare se non una miriade di emuli? Per quanto, agli occhi nostri, una moda implacabile com’è quella dei film ambientati nell’interminabile epoca Joseon, se decontestualizzata, possa apparire abbastanza inspiegabile.

Ma l’idea alla base dell’esordio di Kim Mee-jeung è invece davvero vincente: l’ambientazione è sì quella del film in costume, ma la vicenda ha le precise e ben consolidate fattezze della detective story. Ad aggiungere interesse a un film comunque ottimamente girato e visivamente molto interessante e curato (ma lì c’è in ballo anche lo straordinario talento dei direttori della fotografia coreani), ci sono anche altri elementi. Il cui primo e più evidente è il vero e proprio esercito di attrici, a cui fa capo la bellissima e versatile Park Jin-hee, che trasformano una vicenda complicatissima e intricata ma rispettosa delle regole globali del whodunit in una lettura completamente "al femminile" del tipico tema della coercizione gerarchica e sociale.

Ma c’è anche dell’altro, ed è un carattere essenziale che aggiunge interesse, alla sua autrice più che a un film la cui riuscita è minimizzata prima di tutto da un eccesso di sceneggiatura (è necessaria una notevole concentrazione, soprattutto se non siete avvezzi al sistema gerarchico dell’epoca Joseon), e ancora di più dalla svolta k-horror, vigorosa nella seconda parte e nel finale ma del tutto inessenziale allo svolgimento della vicenda, e un po’ appiccicaticcia. Questo carattere, si diceva, è lo spiccatissimo senso del macabro di Kim Mee-jeung, ipotetica futura marca espressiva di un’autrice da seguire e da curare per bene, che nei suoi barocchi eccessi gore (gole tagliate, mani mozzate, unghie strappate, una festa proprio) non solo richiama piacevolissimi presupposti slasher che hanno le loro radici anche nel cinema horror nipponico e – perché no – europeo, ma soprattutto ricorda da vicino la libertà che mostrava il cinema della Corea del Sud qualche anno fa, e che un poco ci manca.


Scordatevi di vederlo dalle nostre parti. Per acquistarlo, cliccate qui.

Juno
di Jason Reitman, 2007

Captatio benevolentiae: questo post parla di un film che mi è piaciuto molto, davvero molto (e invito chi mi legge a tenerne conto in ogni passaggio, a pensare al mio faccino contrito e commosso e ai miei incomprensbili sorrisetti di ammirazione), ma lo farà sottolineando caratteri negativi, oppure cose raccontate con una punta di sarcasmo e con il naso un poco storto, che in realtà non hanno inficiato affatto il gradimento del film. Questione di clima, di umore, di come uno si sveglia la mattina: domani sarebbe stato del tutto diverso. Cosa credete, è sempre così.

Capiamoci, non è che io mi voglia tirare indietro. Però, forse forse, un poco, sì. Perché lo so benissimo che dovrei trovare qualcosa di spregevole, in Juno, perché sarebbe meglio che io non mi ci riconoscessi, e non dico in un personaggio, ma nell’indole generica, perché non ho più l’età per queste cose, perché non ho raccontato la perdita della mia verginità su blogspot, perché se indosso roba a righe e losanghe devo sperare ardentemente che accada perché mi piacciono davvero le righe e le losanghe, perché il mio profilo myspace giace come corpo morto giace, perché fino ai Belle and Sebastian ci arrivo, ma i Moldy Peaches non sono stati un passaggio fondamentale della mia crescita emotiva.

E invece trovo non solo che Juno sia un film assolutamente delizioso e che ha le carte per fare da noi gli sfaceli che già ha fatto negli States – ha avuto anche qui celebri apripista, non mi sorprendo più di nulla – ma che Reitman (una conferma di cui siamo entusiasti) abbia appreso la lezione dei suoi recenti predecessori sundanciani (Terry Zwigoff, Little Miss Sunshine, citando a casaccio) mescolandone gli aspetti più superficiali (i titoli fumettosi, l’irresistibile piangeria della colonna sonora) con una palese vocazione definitivamente commerciale (che però non ha a che vedere con la qualità dell’operazione, e un "inganno" c’è solo per chi lo vuol vedere), e costruendo una storia che è davvero "piccola" e marginale come la sua protagonista e la sua casa, scritta con un linguaggio quasi "realista" (le ristrettezze di dizionario delle giovani protagoniste, totally) che si appoggia con garbo su una rappresentazione schematica, quasi stilizzata, dei caratteri, semplicemente divertente e immediatamente commovente quanto l’abbraccio tra le lacrime di una raggiunta maturità che "chiude" – non prima di una cantatina, via – il film.

Credo che la questione, prendendola con le presine per non scottarsi, possa essere comunque visto al di là delle singole passioni e/o degli stili di vita: Juno è un film che qualcuno troverà sicuramente irritante, forse perché del tutto privo di elementi di contrasto, o forse proprio perché costruito – non sorprende che la sceneggiatrice Diablo Cody sia una blogger, anzi, non poteva essere altrimenti – su questo misto di scaltrezza e ingenuità che potrebbe risultare persino pruriginoso. Ma è innegabile che il film colpisca nel segno, almeno sul suo target in cui ormai mi tocca infilarmi senza indulgere oltremodo, ma che lo faccia con una tale agilità, impressionante, non me lo aspettavo. Pensavo facesse più fatica, ti ci trascinasse a forza. Poi, che a poco tempo da un film come Knocked up, Juno trovi un modo così sfaccettato e – paradossalmente – maturo per parlare di maternità, deo gratias.

Continuiamo ciecamente a venerare Ellen Page, ancora spaventosamente brava (forse perché si ricorda davvero com’è essere nel bel mezzo dell’adolescenza?), pure in guisa unticcia e logorroica. Ma tutto intorno a lei le cose vanno persino meglio, Jennifer Garner compresa. Ma Michael Cera? Ah, Michael Cera for teh win.

Al cinema dal 04 Aprile 2008

Extra: 15 microinterviste a Diablo Cody e Ellen Page, su Youtube.

[faccioni]

Tre film italiani sui sette in uscita. Epoi dicheno lacrìsi.

Friday Prejudice, questa settimana, ricicla battute fino allo sfinimento.

[mi si nota di più se vengo e mi metto in disparte?]

Questo post veloce per ricordarvi che domani, alle 15 nella Sala del Capitano del Palazzo di Re Enzo in Piazza Maggiore a Bologna, all’interno del Future Film Festival, si terrà un incontro dal titolo (Cine)Bloggers to the future, una specie di tavola rotonda sui "blog di cinema" coordinata da Andrea "Contenebbia" Bruni.

Ospiti della conversazione: Roy Menarini, i ragazzi di Seconda Visione, Ohdaesu, Sara the hutt, e il sottoscritto.

Non vi aspettate niente di che – soprattutto da me, che in pubblico sono notoriamente impresentabile – però noi, dicono, saremo lì. Venite a incontrarci, venite a stringerci la mano, venite a sputarci in faccia, venite a sputarvi sulla mano prima di darcela, venite a darcela. Insomma, venite o no?

Per altri dettagli, il programma di domani sul sito del festival.

Rescue dawn, Werner Herzog 2006

Rescue dawn
di Werner Herzog, 2006

Siamo così abituati, forse, e soprattutto in film a sfondo bellico o simili, e consideratela pure un’autocritica, a confondere messaggio e messa in scena, cinema e ideologia, che fa un certo effetto, straniante direi, trovarsi di fronte un film ambientato durante i primi fuochi della guerra nel Vietnam che riesce ad essere così asciutto e immediatamente commovente, a diventare insomma il semplice racconto di una sopravvivenza impossibile e di un eroismo i cui confini con la follia pura sono sempre più labili. Se alla regia c’è Werner Herzog, ci si sorprende meno.

Scritto dal regista e tratto da una storia vera, che Herzog stesso aveva raccontato nel 1997 nell’acclamato documentario Little Dieter needs to fly, da noi semi-inedito, il film racconta della cattura e della fuga del pilota della marina americana di origini tedesche Dieter Dengler da un campo di prigionia nel Laos, dove era stato rinchiuso dopo essere stato abbattuto durante i bombardamenti della regione (i cui storici filmati riapparsi pochi anni fa aprono in modo inquietante il film, cancellando immediatamente le tradizionali linee di demarcazione tra Storia e racconto, anche in senso morale).

E Rescue dawn è davvero un film di notevole impatto, nonostante Herzog, dopo molti e bellissimi documentari, affronti il racconto di fiction con una certa ingenuità, o almeno con scelte (di messa in scena e di direzione degli attori) che altrove lascerebbero di stucco. Ma la lezione appresa (e insegnata) da Herzog negli ultimi film fa sentire comunque il suo peso, anche se qui la narrazione è molto più pacificata, forse addirittura normalizzata: ma solo in apparenza, perché quello che conta davvero in Rescue Dawn è ancora lo sguardo sconvolto dell’uomo sulla natura, e soprattutto il posto occupato dall’uomo nella Natura, ritratta, quest’ultima, con la solita impalbabile e poetica semplicità.

Del film, apprezzatissimo dalla critica statunitense e ancora privo di una data d’uscita italiana, si è parlato nei mesi scorsi più che altro per le molte leggerezze con cui Herzog ha riadattato gli eventi narrati, scatenando le ire del fratello di Gene DeBruin (interpretato con incosciente e perfetta paranoia da Jeremy Davies) che ha creato un sito in cui esprime la sua protesta nei confronti delle ingiustizie propugnate dalla versione di Herzog. Ma con tutto il rispetto, tornando al cinema, da un regista come lui – come già abbiamo visto in Grizzly man, per dirne una – non solo non possiamo chiedere la veridicità storica, ma non vogliamo, non ci interessa proprio. Questo fatto non inficia insomma affatto la qualità del film, lo si riporta più che altro come curiosità.

Impossibile non parlare della solita impressionante performance corporea di Christian Bale, che non è solo un uomo di incredibile bellezza e fascino, ma uno dei più coraggiosi e pervicaci attori dei nostri tempi. Praticamente, un mutaforma.

Millennium actress (Sennen joyû)
di Satoshi Kon, 2001

Ultimamente invece di parlare di film sollevo troppe questioni di principio. Meglio che discernere metaracconti, diranno i miei piccoli amici. Per quanto riguarda questo film, mi limiterò a questo paragrafo, e dirò: una persona che non ha mai visto Millennium actress ha il diritto di parlare o scrivere di Tokyo Godfathers e/o Paprika? Perché, sapete, io l’ho fatto. Lasciamola lì, che rimanga una domanda retorica, nascosta nella sabbia insieme alla mia testa.

D’altra parte, ehm, che cosa si può scrivere ancora sul capolavoro di Satoshi Kon? Millennium actress va ben oltre la concezione di "cinema d’animazione per adulti", in voga ormai da molti anni, portandosi ai massimi livelli del cinema giapponese di questo decennio. Il ritratto intrecciato e struggente di una donna segnata da un destino crudele e nefasto, di un amore senza confini che la terrà in piedi, e del cinema che le permetterà di diventare millenaria, o forse immortale, grazie alla potenza del racconto e alla magia della macchina da presa.

Un film che tra l’altro non è solo un omaggio appassionato a un’intera cinematografia, o al cinema in senso più ampio, per come attraversa con diligenza e affetto i suoi sviluppi (in primis, i generi cinematografici), ma anche alla cinefilia stessa: al personaggio di Tachibana è concesso il raro, anzi unico privilegio di entrare letteralmente a far parte del mondo che aveva sempre sognato e da cui, per l’ingenuità del suo sguardo o forse per troppo amore, era stato messo in disparte. E questo grazie ad artifici metacinematografici tra i più complessi mai visti, che però, per una sorta di alchimia che ha davvero del magico, non risultano mai cerebrali o forzati, ma che si inseriscono con prepotente naturalezza nel racconto rendendosi subito indispensabili al suo svolgimento.

In definitiva, un film che merita la sua enorme fama, e di fronte alla cui geniale mistura di brillante e intelligenza ed enorme (e inevitabile) commozione, la maggior parte del cinema d’animazione, non solo nipponico, dovrebbe chinare la testa. Meglio tardi che mai: da oggi in poi, se vi volete bene, consideratelo pure un obbligo.

Non esiste un’edizione italiana, ahinoi: probabilmente non ce la meritiamo. Quella sottotitolata che circola sul p2p è comunque davvero curatissima e ben confezionata. Se volete acquistare il film, su Play.com è temporaneamente out of stock, ma appena torna ve lo tirano dietro.

[sciàmbola]

Atonement vince come Best Drama nei 65th Golden Globe Awards.

[forse cercavi: hafsia scherzi]

Friday Prejudice: eccetera eccetera eccetera. Eccetera.

E culo chi non lo dice.

Non è un paese per vecchi (No country for old men)
di Joel e Ethan Coen, 2007

Ci sono film che stimolano logorree, altri che innescano infinite discussioni, altri ancora che, nel bene o nel male, lasciano che il discorso su essi si fermi ad un nulla di fatto: No country for old men appartiene invece alla rara categoria dei film che strappano proprio le parole di bocca, lasciando quest’ultima spalancata e le prime disperse a vagare convulsamente al di fuori del cervello. Perché se da una parte è vero che sono centinaia, migliaia le cose che si vorrebbero dire sull’ultimo film dei fratelli Coen, altra cosa è – anche se dubito che i Coen ne abbiano bisogno – riuscirci davvero.

Mettiamola così: No country for old men è il miglior film dei fratelli Coen – almeno – dai tempi de L’uomo che non c’era, e questo è un dato quasi incontrovertibile, e – perdiana – augurabile e prevedibile. La cosa che invece è più difficile da esprimere senza sembrare uno che la spara sempre grossa è che – in barba ai malinconici passatisti ancora incollati al loro DVD del Grande LebowskiNo country for old men è uno dei migliori film dei fratelli Coen tout court. E se questi ultimi sono stati tra i maggiori registi dello splendente cinema americano degli anni ’90, beh, fate i vostri calcoli.

In fondo, a conoscere anche vagamente la traccia narrativa del libro di Cormac McCarthy, ce lo si poteva aspettare: quello del romanzo omonimo è un mondo che si riallaccia alla perfezione alla poetica che i fratelli di Minneapolis portano avanti, in buona parte del loro cinema, fin dai tempi di Blood simple. E i due non fanno che ribadire quanto già detto in passato sul caso e sul caos, sul libero arbitrio, sulla causa e sull’effetto. Ma lo fanno con un’asciuttezza e un rigore che lasciano stupefatti, se si pensa che il loro cinema era spesso e volentieri identificato (in modo limitativo) con un uso estremamente mobilista della macchina da presa, e con il loro modo smaliziato e "cinefilo" di frullare generi, stili e riferimenti.

Qui la regia mantiene invece un registro secco e implacabile: e non sbaglia un colpo, confezionando una serie impressionante di sequenze instant classic che farebbero impallidire qualunque forzato tentativo altrui (immediatamente nel cuore il primo "testa o croce" di Chigurh con il negoziante e il duello verbale tra Bardem e Harrelson, ma potrei andare avanti fino a notte fonda) che non si fermano però mai al mero giochetto (cinefilo) né alla burla né al virtuosismo gratuito (nonostante il virtuosismo ci sia ancora, eccome, anche se ben nascosto: basta pensare alla brutale sequenza dell’inseguimento con i cani), ma fanno il gioco dei Coen nel restituire una visione del mondo in cui in un’ideale battaglia tra il bene e il male, quest’ultimo ha trionfato senza possibilità di replica, lasciando i cavalieri del bene e gli angeli a bocca asciutta, e gli uomini immersi nel fango, con un lungo rivolo di lacrime e sangue.

Molto del lavoro sporco lo compie però l’impressionante terzetto di protagonisti: se Josh Brolin è la sorpresa del 2007, e lo sappiamo bene, e per la performance cinica e sotto le righe di Tommy Lee Jones parlare di un’ennesima conferma è davvero fuori tempo, è l’Anton Chigurh di Javier Bardem a lasciare il segno più di tutti. Entità malefica assoluta, vera e propria "morte al lavoro", demone claudicante creato dall’avidità umana e impossibile da sconfiggere, acquista con il suo passo e la sua cadenza una statura quasi metafisica (e non lo si dice a caso), entrando immediatamente nel pantheon dei migliori cattivi degli ultimi (molti) anni. E a differenza dell’altro Anton del 2007, qui non c’è spazio per alcuna madeleine di redenzione.

Il cinema dei Coen, insomma, pur essendo sempre nerissimo e conservando un taglio sardonico che spesso si tramuta in sberleffo (ma più spesso in rassegnata e dolorosa empatia), si è definitivamente trasformato dall’eccellente giocattolo barocco che era, in un qualcosa di perfetto e allo stesso tempo inafferrabile che, possiamo dirlo con tranquillità e con senno, ha davvero pochissimi eguali, nel cinema contemporaneo non solo, e che si pone definitivamente al livello dei grandi classici del cinema americano. Compresi quelli a cui si rifà. Se credevamo che fosse L’uomo che non c’era a segnare la definitiva e inarrivabile maturità dei Coen, ora dobbiamo ricrederci.

Una cosa, però, almeno voi: la prima volta che vi capitasse di trovare un valigia piena di soldi, per cortesia, lasciatela lì dove sta.

Gone Baby Gone, Ben Affleck 2007

Gone baby gone
di Ben Affleck, 2007

Una delle questioni su cui ricordo di aver più dibattuto parecchio tra umili e illetterati blogger come me, e di sicuro uno delle scelte più facili per introdurre un post su un film diretto da Ben Affleck, è quella della relatività: se un film può avere per noi un valore in qualche modo – diciamo – “stabile”, vero è anche che bisogna fare i conti per forza con le aspettative che il film crea, soprattutto – e qui veniamo al film – per i nomi in gioco.

Insomma, sarà effettivamente un ingiusto pregiudizio, ma se qualche mese fa mi avessero detto che Ben Affleck, attore recentemente sdoganato per via di un’interpretazione effettivamente molto convincente all’interno di un bruttissimo film, avrebbe diretto di lì a poco un film tratto dal Dennis Lehane di Mystic river, avrei storto il naso. E così feci, storsi il naso, e ancora mi fa male. Tanto più che – ma l’avevo capito già dal trailer – avevo preso una madornale cantonata: abbiamo dovuto aspettare più di dieci anni di martirio per renderci conto, noi con lui, che il giusto posto per Ben era dietro la macchina da presa. Non davanti. Dopotutto, chi ha mai detto che un regista deve essere una persona brillante, gradevole e intelligente? Nessuno. Anzi.

E qui entra in gioco la relatività di cui parlavo da principio: ci ho pensato qualche giorno, perché non ero sicuro di averci visto bene, ero talmente frastornato dal fatto che Ben Affleck avesse realizzato un film così sincero, disilluso, maturo, ma anche incalzante, emozionante, commovente, che mi sono chiesto se in fondo il mio entusiasmo non fosse che una timida espiazione per tutto il male e la derisione volta in direzione del grosso mastino californiano. Gone baby gone invece è proprio così, ve lo posso garantire: e in un certo senso, la deformazione soggettivista ha dato i suoi frutti, trasformando l’esordio di Affleck da un semplice bellissimo film a una delle più straordinarie sorprese degli ultimi tempi.

Tratto dal quarto libro di una vera e propria saga letteraria noir pubblicata da Lehane, i cui protagonisti sono i detective privati Patrick Kenzie e Angela Gennaro, qui ritratti con sommesso affetto ma con l’invididiabile capacità di non darli mai per scontati, il film parte come la risaputa storia di un rapimento malriuscito (la cui vittima è la bravissima Amy Ryan, che con questa perfetta e insostenibile interpretazione borderline ha preso una scorciatoia per uno sfacelo di premi), ma diventa presto – anche grazie a una narrazione ondivaga che predilige la dilatazione dell’innecessario, proseguendo anch’esso sulla strada intrapresa da Zodiac, e se mi permettete la divagazione, mostrando una volta di più l’importanza forse sottovalutabile ma capitale del film di Fincher per il cinema di detection – un racconto corale fondato sul ribaltamento tematico (verità/giustizia) e sull’ambiguità morale, che ci lascia (con un’immagine finale malinconica e straziante nella sua ricercata banalità) con l’amaro in bocca per giorni interi.

Che rimanga dietro la macchina da presa, Ben Affleck, ma che lo faccia davvero: perché adesso da lui ci si aspettano grandi cose, là dietro. Se l’è cercata. Tanto, a sostituirlo dall’altra parte c’è suo fratello Casey: dopo l’exploit impressionante in Jesse James, un’altra interpretazione dolorosa, bofonchiante, magistrale.

[good news]

Dopo due mesi, tornano stasera The Daily Show e The Colbert Report.

Le vere ossessioni del mio 2007, di cui colpevolmente non ho mai parlato in questi lidi,
tornano, ovviamente, senza sceneggiatori: speriamo in bene.

L’immagine sovrastante è una t-shirt che potreste regalarmi