febbraio 2008

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[anno bisesto, anno funesto]

On air, il nuovo episodio di Friday Prejudice. Finita, la pacchia.

Lo scafandro e la farfalla (Le scaphandre et le papillon)
di Julian Schnabel, 2007

Non è facile farmi piacere così tanto un film il cui protagonista è completamente paralizzato: quasi non me lo spiego, anche perché qui ci sono tutti i crismi del caso che generalmente me lo renderebbero indigesto. La sensazione di essere presi in giro, o meglio, di essere colti scaltramente sul vivo e scoperti nudi come vermi di fronte alle proprie emozioni, è sempre dietro l’angolo.

Ma Lo scafandro e la farfalla è talmente riuscito e commovente da far cadere ogni dubbia sulla sua possibile furbizia. Un film sulla potenza invincibile del ricordo (la memoria nel passato), prima di tutto, ma anche – chiaramente – sulla forza necessaria e sull’impellenza del racconto (la memoria nel futuro), giocato peraltro su un geniale ribaltamento prospettico (un campione eccellente della frammentata società postmoderna costretto suo malgrado a giocare nel campo della pazienza e della lentezza) che fa con la letteratura quello che Una storia vera di David Lynch fece con il viaggio.

A prescindere da ogni possibile lettura, la trasferta francese del regista newyorkese Schnabel diventa un film davvero bellissimo e assolutamente straziante (basti pensare alla scena della telefonata del padre, uno dei momenti più strappalacrime, in senso letterale, degli ultimi tempi) ma anche costruito in modo molto intelligente: per esempio, la scelta di ritardare il "fattaccio" e il controcampo della soggettiva iniziale – per cui Mathieu Amalric appare solo dopo più di mezz’ora (ma il tempo speso fuoricampo non gli impedisce una performance strabiliante). La bellezza e la bravura di Emmanuelle Seigner e soprattutto della stupenda Marie-Josée Croze contribuiscono non poco.

Un film che è anche un esempio di come si possa costruire un film ineccepibile intorno a un libro apparentemente "impossibile", e che diviene – anche grazie alle stupende immagini e alle scelte compositive mai banali del nostro adorato Janusz Kaminski – un inno stupefacente al potere demiurgico e salvifico dell’immaginazione umana, e per estensione alla magia del cinema.

[grazia, graziella e kekkoz]

Come i più attenti e fedeli di voi già sanno, sono stato cortesemente invitato dal blog del settimanale femminile Grazia a espletare il ruolo di "ospite della settimana". Il che mi ha permesso di abbandonare per un po’ l’asfittica (no dai su si fa per scherzare) scrittura sul cinema in favore di qualche vacua divagazione del tutto personale, e soprattutto di provare l’emozione di un tuffo tra le fauci notoriamente squaliformi della loro readership.

La suddetta settimana finisce oggi: ecco i 4 post che potete leggere colà.

Sukiyaki Western Django, Takashi Miike 2007

Sukiyaki Western Django
di Takashi Miike, 2007

In un villaggio western post-apocalittico, in realtà senza tempo, e apparentemente abbandonato, si scontrano senza sosta e da tempo, sullo sfondo di storie d’amore fratricide e drammi shakesperiani, la banda dei bianchi e quella dei rossi – ispirate ai clan che si affrontarono nel medioevo giapponese nella Guerra Genpei del XII secolo. L’avvento di un cavaliere solitario e il ritorno di una guerriera leggendaria ne faranno collassare gli equilibri.

Come già si è intuito dai commenti del post in attesa, pare che ad affrontare una strenua difesa di Sukiyaki Western Django, uno dei tre film di Takashi Miike usciti nel 2007, si vada incontro a un vero e proprio muro di gomma: e sto parlando di chi effettivamente l’ha visto. Ma anche a raccontarlo a chi vorrebbe vederlo o ne è incuriosito, non va molto meglio: un western che nell’ottica di un “ritorno a casa” circolare, rimescola Sergio Corbucci e Akira Kurosawa, Sergio Leone e la Nikkatsu, per di più con un cast quasi interamente giapponese che recita un improbabile e biascicatissimo inglese?

Eppure, com’è che io mi sono divertito come un pazzo? Probabilmente mi sto rincitrullendo, o forse sono solo passato sopra ai suoi evidentissimi e macroscopici difetti, alla recitazione canina (intendiamoci: se molti attori forse non sanno nemmeno cosa diavolo stanno dicendo, di sicuro noi non capiamo cosa diavolo stanno dicendo), al fatto che ci siano dei continui cali di ritmo e interesse, che in alcune parti diventi una palese e ricercata cretinata, buona giusto per ragazzini invasati e nostalgici del cinema di serie B: ma è di Takashi Miike che stiamo parlando, il film è un’opera tanto sconclusionata quanto anarchica e vitale, non è nemmeno il film modaiolo (fuori tempo massimo) che avrebbe potuto diventare, e una volta posto che non siamo di fronte a uno dei suoi capolavori, da Takashi Miike io voglio solo farmi sorprendere. E se Sukiyaki Western Django mi ha sorpreso così, tanto basta.

Anche solo (ma non solo!) per l’aspetto puramente plastico: grazie all’apporto del direttore della fotografia Toyomichi Kurita, il film è uno dei più visivamente spettacolari del prolifico regista nipponico, anche se in un senso molto più “ordinario” del solito: la mobilità della macchina da presa e la composizione dell’inquadratura (che riprendono spesso stilemi del western italico, come nelle sghembe o nell’uso dello zoom) lasciano senza fiato, e Miike e Kurita riescono a costruire sequenze magnifiche e folgoranti come la danza improvvisa e interminabile della bellissima Yoshino Kimura (impegnata poi anche in una memorabile fellatio fuoricampo). E poi i tocchi miikiani, che ci stanno sempre: l’insistenza su quelle rose di speranza lasciate crescere tra la sabbia, un bazooka cartoon nascosto in un antico baule, trovate grottesche come quelle del “test” dei samurai, un flashback veloce e silenzioso piantato qui e là.

Davvero molto bello – e immagino anche gradito ai più – l’incipit stilizzatissimo con il sempre più bolso Quentin Tarantino (che rivedremo ridicolmente invecchiato nella seconda parte) che nei pochi minuti iniziali aiuta a dare una chiave di lettura abbastanza chiara: non prendete alla lettera, né troppo seriamente, quello che vedrete. Divertitevi e basta.

Lussuria (Lust, caution) (Se, jie)
di Ang Lee, 2007

Uno dei film più chiacchierati dell’anno passato, per motivi parzialmente legittimi – un Leone d’Oro forse un po’ azzardato – o meno, appunto, lo è stato soprattutto per le performance erotiche dei due protagonisti, tra cui la sensualissima ventottenne esordiente Tai Weng di cui siamo biblicamente innamorati, che hanno ben poco di simulato: le "scene di sesso" che li vedono protagonisti sono effettivamente clamorose, almeno per un film destinato – pur se "marchiato" NC-17 – a una distribuzione "wide" e quindi mainstream. Ma quello che si dimentica è che Ang Lee non è propriamente un provocatore: è prima di tutto un cineasta, e un cineasta intelligente.

Lussuria è infatti un film basato su questa continua tensione tra la seduzione e la copula, tra la potenza e l’atto, in cui questi pochi minuti di coito sono funzionali a una sorta di furibondo sfogo nei confronti di una regia che è volutamente e progettualmente "rigida", diciamo pure erettiva. Lo mostra benissimo già la splendida sequenza iniziale: una partita di Mahjongg che viene rappresentata con una impressionante cura del dettaglio in ogni singolo movimento di macchina o taglio di inquadratura. E il messaggio che passa è proprio questo, da questa sorta di ineluttabile coercizione visiva: questo film non ha assolutamente alcuna via di fuga.

Così come non ne hanno i protagonisti della vicenda, tratta da un libro di Eileen Chang, divisi tra l’impossibilità di rispondere al desiderio, tra il sospetto e la colpa, tra la redenzione e la sua assenza, in un film che sembra una sorta di remake di Notorius (anche se un poster che appare nel film dice Suspicion), dove Cary Grant è un giovane ribelle dalla cecità eunucoide e Claude Rains ha le fattezze spietate – ma a cui vengono regalati inattesi lampi di empatia – di Tony Leung, secondario ma sempre immenso per la sua indescrivibile capacità di recitare con tutto il volto e con tutto il corpo. Pure quando è vestito, si intende..

Davvero un bel film, comunque. E lo dico facendola suonare come un’evidenza. La questione che sia o meno un film "cinese" solo perché ambientato in Cina e perché parlano cinese non sembra porsi: non lo è, né dal punto di vista produttivo né da quello linguistico. Ma Ang Lee è riuscito a riunire due mondi distanti, con scaltrezza ma anche con onore, come pochi altri sono riusciti negli ultimi tempi. Confezionando un filmone, classico e piuttosto risaputo, ma realmente solidissimo, e di fronte al cui disperato pessimismo – già rivelato in altri suoi film precedenti – è difficile rimanere indifferenti.

[satisfactions]

Glen Hansard e Marketa Irglova ritirano l’Oscar per la miglior canzone.

Qui il video dell’esibizione, qui il mio post su Once, qui per comprarlo.

Away from her – Lontano da lei (Away from her)
di Sarah Polley, 2007

Schiacciato in una programmazione tanto entusiasmante quanto insolente, è scivolato tra le dita di molti questa bellissima opera prima della giovane e fascinosa attrice canadese Sarah Polley: ed è un peccato, visto che si tratta di un film veramente intenso e commovente, girato con grande semplicità ma anche con notevole carattere, e senza alcuna spocchia da esordiente prima della classe. Anzi, con l’intelligenza di evitare l’imbarazzo e gli scivoloni del poco utile piagnisteo in cui film simili in passato si sono immersi fino al collo.

Anzi, colpisce la capacità della Polley di spezzare i momenti di imbarazzo, non già con il cinismo e il distacco che altrove avrebbero funzionato, ma grazie proprio a un uso, seppur cosciente, di forme empatiche quali la tenerezza e il calore, ma anche di un’ironia leggera e funzionale (incredibile quanto perfettamente appropriato, ad esempio, l’intervento dell’ex commentatore sportivo nel momento più rischioso del film) e soprattutto una maturità ed un’umiltà incredibili per una regista esordiente. Aiutata in questa dalle performance davvero ineccepibili di Julie Christie (classe 1941) e di Gordon Pinsent (classe 1930), perfetti nella rappresentazione di un amore e di un addio che per una volta includono sentimenti di cui gli ultrasessantenni (e ultrasettantenni) al cinema vengono privati: non solo la malinconia e l’affetto, ma anche l’erotismo e il profondo senso di colpa.

Ma la cosa che colpisce più del film è il modo in cui la Polley è riuscita a trasformare l’incontro con la malattia in un vero e proprio viaggio nel tempo. La memoria, tema centrale del cinema dei nostri giorni, lo è anche in Away from her, dove diviene materia malleabile, delicata e relativa proprio come il tempo, la cui privazione lascia il protagonista sperduto e straniato, mentre osserva il mutare implacabile delle cose intorno a lui nell’attesa di un ultimo abbraccio che – forse – non farà mai in tempo ad arrivare.

[post in attesa]

(questo qui sopra, ma anche questo e questo. Uff)
Update: e pure questo.

[shoegazer]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice, l’è onlàin adès. VECCHI.

Margot at the wedding
di Noah Baumbach, 2007

Il film precedente di Baumbach, Il calamaro e la balena, suo quarto film che sembrava quasi un ri-esordio, fu una delle più belle sorprese dell’anno in cui apparve nelle sale: non tanto da noi, dove uscì in sordina acclamato dalle lacrimucce di quattro blogger in croce, ma in patria, dove si aggiudicò un’accoglienza critica davvero straordinaria, e un posto nel cuore – proprio lì – di tantissimi critici e appassionati.

Margot at the wedding continua il discorso sulla Cosa Famigliare iniziato nel Calamaro, intensificando i riferimenti al cinema europeo (non per niente il titolo provvisorio era Margot alla spiaggia, spiccata citazione rohmeriana) e raccontando la storia di un (mancato) ricongiungimento, e dei rapporti tra due sorelle e i personaggi (un ex marito, un amante un futuro marito, un figlio androgino e insicuro) che girano loro intorno. Il tutto ambientato in un luogo per nulla neutrale (la casa dove sono cresciute, e da cui Margot è "fuggita") che risulta ingrigito dal passare del tempo, e dalle nuvole che vi incombono.

Il carattere del film è dato soprattutto dal rapporto tra narrazione e montaggio, che funziona attraverso la composizione di sequenze ben distinte, le quali vengono tutte e sistematicamente private delle code, interrotte improvvisamente per far posto alla successiva – un tipico metodo anticlimatico che permette di mantenere una sorta di distacco analitico rispetto alla storia narrata. E forse per questo Margot non ha avuto la stessa fortuna critica del suo predecessore: perché fa un passo indietro rispetto ai personaggi, li guarda da una distanza maggiore, ci riflette più che riflettercisi.

Ma questo non significa che essi siano scritti con meno acume, anzi: il rapporto tra le due sorelle (splendidamente interpretate da una spietata e insopportabile Nicole Kidman e da un’eccezionale Jennifer Jason Leigh) è ritratto con rara sincerità e con un’illuminante ferocia, i dialoghi (a centinaia) sono sempre impeccabili, e se la prospettiva è quasi completamente femminile, Jack Black – oltre che formidabile comedic relief , al solito – offre una performance che convince del tutto, pur se ben inserita nella bambocciosità del cine-maschio americano di questi anni.

Questo post avrebbe potuto essere unicamente incentrato sul fatto che il film, già pronto per la distribuzione italiana con il titolo Il matrimonio di mia sorella, non uscirà nelle nostre sale. Anzi, probabilmente non uscirà nemmeno in DVD. Mettetevi il cuore in pace: non l’ha comprato nessuno. Complimenti. Ora che lo sapete, quel post ve lo potete immaginare da soli.

Eagle vs Shark
di Taika Waititi, 2007

Solleticato dal post del miglior blog italiano, come amo chiamarlo nell’intimità, ho recuperato l’opera prima di Taika Waititi, il maori belloccio che divideva il palco con il protagonista Jemaine Clement prima che quest’ultimo formasse gli splendidi Flights of the Conchords, presentata l’anno scorso a Sundance e diventata un piccolo caso tra i possessori di occhiali spessi e camicie di flanella worldwide.

Effettivamente Eagle vs Shark ha moltissime cose di cui vi potrete innamorare: una protagonista che sembra una specie di Miranda July ma senza la sensazione di doverla eliminare dalla faccia della Terra, un protagonista – Jemaine Clement, appunto – davvero bravo e con una comicità irresistibile che a tratti sembra rifarsi a quella di Will Ferrell, situazioni bizzarre e sopra le righe, costumi di animali buffi e sacchi a pelo colorati, amare solitudini, l’incapacità e la paura di essere sinceri dolci e adulti, una "famigliolina disfunzionalina" (cit), una colonna sonora indissima con dentro M. Ward, Devendra Banhart e gli Stone Roses.

Ecco, tutto questo allo stesso tempo serve a far capire perché Eagle vs Shark possa dar noia, ed effettivamente a tratti la dia eccome: c’è un limite alla mia sopportazione di tutta questa carineria, pur nel suo essere comunque una spanna sopra esempi più celebri e celebrati. E non bastano le improvvise sterzate di "scorrettezza" (mica roba da niente) a cancellare la sensazione di una maniera globalizzata. Ormai gli stilemi del piccolo-cinema-indipendente sundanciano sono così palesi e sputtanati da essere anche facilmente esportabili – senza troppi sforzi, ma con risultati così così – anche in un paese come la Nuova Zelanda.

E non è mica la stessa cosa: dai, sentiteli parlare, che diavolo di lingua è?

Scherzi a parte, il succo è il solito: se avete voglia di vedere un film così, guardatelo. Forse vi piacerà. Se non vi attrae, avrete sicuramente qualcosa di meglio da fare – e probabilmente, purtroppo, non ne sentirete più parlare. Sicuramente è un film curioso, è divertente, è puccissimo, il personaggio dell’amico tonto mi ha fatto rotolare a terra, e purtroppo non c’è molto altro: però i momenti animati in stop-motion, con il torsolo che fugge dalle formiche su una ciabatta e si ricongiunge infine alla "sua metà della mela", valgono da soli il prezzo del biglietto. Se volete chiamarlo biglietto.

[l'ultima delle classifiche]

Ovvero, l’annuale classifica della Cinebloggers Connection.

Il petroliere (There will be blood)
di Paul Thomas Anderson, 2007

La magnifica sequenza iniziale del film, illuminata dal controsole, straniata dal morboso silenzio, dal rumore del fango e delle ossa, e dallo score inquietante e perfetto di Jonny Greenwood, come spesso accade, dice già molto su quello che sarà il film. Se non ci si mettesse anche il titolo: There will be blood è un film su una terra, intesa come terreno e ovviamente come territorio, che all’improvviso viene letteralmente penetrata con violenza, violata, sverginata di potrebbe dire, e che non smetterà di sanguinare finché ci sarà sangue nero a zampillare dai pozzi, e dai crani sfasciati degli uomini che ne varcano i confini.

There will be blood, romanzo propriamente "formativo" di un’intera nazione, e insieme di una poderosa e complessa individualità, e insieme di un impossibile rapporto padre-figlio giocato sull’inganno e sull’incomprensione, è anche e soprattutto il conflitto duale tra un’idea spietata di capitalismo laico e una vacua religiosità con cui convidide collusioni e conflitto, che in comune hanno il culto del denaro e del potere, e l’irresponsabilità e il delirio d’onnipotenza legati ad essi – in una guerra irresistibile e dai toni asprissimi, quando non di incontrollabile e furiosa violenza – lungo trent’anni, ma i cui rami si allargano ben oltre i volti dei due protagonisti. Una guerra, comunque, in cui non ci sono vincitori, ma solo vinti. E in questo incontro-scontro radicale, se della prova assolutamente spaventosa, epocale (davvero oltre in sequenze come quella magistrale del battesimo) di Daniel Day-Lewis si è parlato in ogni dove, tanto vale spendere qualche parola in più su Paul Dano. Altro che spalla: una vera Rivelazione, una prova capace di inattese e inarrivabile intensità, presente peraltro in quasi tutte le migliori scene del film, come l’esorcismo e il bellissimo – ripeto, bellissimo – finale.

Difficile porsi con leggerezza di fronte a un film di tale fattura, alcune cose sono immediate – la lunga sequenza, citata dappertutto, dell’esplosione della torretta e della conseguente corsa di Daniel e H.W. è davvero più che roba da antologia, è roba da storia del cinema, per tempi ritmo suono tecnica, e vale da sola quasi tutto il cinema americano degli ultimi 10 anni – mentre altre vengono fuori con il tempo e con la riflessione – come il suo rapporto, insieme ricompositivo e rivoluzionario, con il cinema del passato – e il rischio è quindi di prenderlo sottogamba, di liquidarlo come un "capolavoro mancato". Ma se è tutto molto chiaro e trasparente, in There will be blood, così è chiaro che ci troviamo di fronte a un film di impressionante grandezza. E, forse, di impressionante importanza.

The Nines
di John August, 2007

L’esordio registico dello sceneggiatore di alcuni recenti (e splendidi) lavori di Tim Burton, nonostante la presentazione all’ultima Mostra di Venezia, non ha ancora un’uscita prevista nel nostro paese, ma ha già un suo seguito di culto, in rete e (immagino) non solo. Non sorprende affatto, perché The nines è un film girato in poco tempo con pochi soldi, "tra amici" e su location reali, con forti componenti autobiografiche e soprattutto con un progetto narrativo inusuale e quasi irraccontabile – e infatti non ho intenzione di farne alcun accenno, per non rovinarvi la festa – e insomma ha tutte le carte per conquistarsi la sua fettina di aficionados.

The nines non si ferma però allo status di oggettino strano e curioso fuoriuscito dal Sundance, ma anzi conquista davvero. Grazie a una sceneggiatura intricata e di grande intelligenza e all’abilità di August nel manovrare e gestire una tale vastità di toni (da un’ironia divertita a lampi propriamente horror) e di linguaggi (che siano di fiction o di reality television), si riescono a trarre, nelle singole parti in cui è composto, riflessioni non banali sul ruolo dell’autore nell’industria dell’intrattenimento, mentre nella sua intierezza questa storia d’amore bizzarra e dalle venature misticheggianti diviene una bella variazione sui temi dell’identità e del rapporto tra autore e personaggio, e un sacco di altre cose divertenti tra cui la più piccola delle sorelle Fanning alla fermata dall’autobus che ancora tanto così e mi veniva un’infartino.

Bene così, bravo.

Ryan Reynolds, malgrado la somiglianza con Ben Affleck, è diventato molto più bravo di quanto potessimo sperare anni fa. Un high-five a Melissa McCarthy.

Extra: John August ha un blog, a tratti anche piuttosto divertente.

[post in attesa]

Sogni e delitti (Cassandra’s dream)
di Woody Allen, 2007

Il fatto che il nuovo film di Woody Allen non aggiunga o tolga niente a ciò che ci si potrebbe aspettare conoscendo questo suo cosiddetto "nuovo corso", che sta tra due virgolette perché in realtà riprende temi cari al nostro, soltanto levandoci lui stesso e aumentando le dosi di disilllusione esplicita (che non significa che sia davvero più disperato e nero), potrebbe essere pure una via di salvezza per il film stesso: Cassandra’s dream è un circolare e "chiuso" non solo nella struttura ma anche nel suo rapporto con i suoi spettatori e con gli estimatori di Allen. Ma proprio lì sta l’inganno.

La secchezza che lo contraddistingue, con questo finale assolutamente asciugato di orpelli e di ingegnosa specularità, oltre a stuzzicare lo spettatore in modo del tutto diverso rispetto a Match point (del quale è una specie di gemello eterozigota, in levare si potrebbe dire) forma una coppia di sensualissime primedonne con una sceneggiatura che, al solito, dimostra le doti mai defunte di un grandissimo drammaturgo per il cinema (che altrove è stato anche grandissimo regista, qui limitandosi a tirare pigramente in barca gli ormeggi trageci) per la quale il finale stesso ha una valenza totalizzante, annunciato com’è in ogni singola parola dello script. Davvero notevole lo score hitchcockiano di Philip Glass, che altrove non avrei sopportato.

Se non si fosse capito, l’entusiasmo regna in altri territori: Cassandra’s dream è un film medio, irreparabilmente medio, un film di perfetta, inarrivabile e acutissima medietà. Vedete voi se mantenerlo nella risma dei complimenti, o meno.

Le sopracciglia di Colin Farrel mi fanno una paura fottuta.

Come previsto, davvero inascoltabile il doppiaggio italiano, soprattutto nella solita piatta e pietosa voce cantilenante appioppata a Ewan MacGregor. E poi si lamentano se uno se li scarica in inglese.

[sayonara]

E’ morto Kon Ichikawa.

[oh yes, there will be]

Una terzina così non la sentivo da mai, ma poi Friday Prejudice arrivò.

The warlords (Tau ming chong)
di Peter Chan, 2007

Quando i cinesi mainland si trovano tra le mani una barca di soldi per soddisfare, almeno una volta l’anno, i bisogni di una nuova e sterminata massa di spettatori, e un mercato estero sempre più ricettivo, sono capaci di notevoli disastri: The promise ne fu un buon esempio, un paio di anni fa. The warlords, con un budget di 40 milioni di dollari (una cifra enorme, se contestualizzata, che ne fa il film più costoso della storia del cinema cinese) è la dimostrazione che anche il cinema di Pechino è ora capace di costruire dei poderosi blockbuster di qualità – senza scomodare capitali esteri o alleanze panasiatiche.

Certo, alla regia c’è Peter Chan, che non è l’ultimo dei cretini. E tra l’altro Chan corregge di parecchio il tiro rispetto al bellissimo (e criticatissimo, ahiloro) Perhaps love, suo ultimo commovente avvicendamento nel cinema "ricco" della Repubblica Popolare. Qui infatti la personalità del regista viene messa del tutto in secondo piano rispetto ad un racconto che, si capisce quasi subito, è costruito per essere il più possibile masticabile e consono a un gusto di massa – che assomiglia però sempre di più a un gusto globale che a quello di un pubblico come quello cinese. Niente pippe cromoterapiche, niente grandangoloni impazziti, niente svolazzi magici.

Questo potrà sembrare un male: ed effettivamente ha i suoi risvolti inquietanti. Perché se leviamo alcune suggestioni tipicamente locali, tra cui una ruvida brutalità che in occidente si sognano di rappresentare (la scena della decapitazione, i dettagli cruenti in battaglia) e soprattutto il gusto del melò che non togli anche se gli strappi via di mano con la forza i personaggi femminili (Chan ha dichiarato di aver rinunciato alle sue storie d’amore per ispirarsi piuttosto all’amicizia virile che fece grande il cinema di Hong Kong), con le sue scene di massa e la voce fuori campo (di Kaneshiro) e il suo ritmo pomposo e ineffabile, The warlords è un film che non ci saremmo sorpresi di vedere diretto da un regista "straniero", o (ancora di più) con ingenti investimenti americani. E sembra che questo sia il trend per il cinema cinese dei prossimi anni: fateci il callo.

Però, pur con tutte le aggravanti del caso, di fronte a cui non si può storcere un po’ il naso, soprattutto se si è degli snob fighetti come il sottoscritto, il film di Chan è anche un notevole e innegabile divertimento: neanche una lira è stata spesa a caso, è realizzato con grandissima cura, ci sono centinaia e centinaia di cavalli, le scene di battaglia fanno davvero impressione per complessità e precisione nella composizione, pur nel furore che le contraddistingue, e poi un terzetto di protagonisti come Jet Li (invecchiatissimo ma fascinoso e ambiguo), Andy Lau e Takeshi Kaneshiro (sempre e comunque l’uomo più bello di questo pianeta) possono bastare come ragione per sedervi in poltrona due ore a vedere questo piovosissimo e violento triangolo battagliero di amicizia, fedeltà, potere e morte. Insomma, non ci si strappa le vesti ma ci si diverte, e non poco. Chiamatelo pure guilty pleasure.

Xu Jinglei, l’unica donna del cast, intorno a cui ruotano i destini dei tre personaggi maschili, dotata di un carisma notevole e di una bellezza insieme semplice e altera, non è (ancora) molto conosciuta da noi, ma è una delle star più luminose della Cina contemporanea, un’affermatissima e raffinata regista, e pure una delle blogger più lette in Cina (il che equivale a dire, al mondo), e io l’ho pure conosciuta*, tiè.

*vabbè, "conosciuta" è dir troppo, ma insomma, ho passato un’intera mattinata al suo cospetto, avrò bene tutto il diritto di bullarmene.

Acquistabile su Yesasia (Doppio DVD HK regione 3).

Caos calmo
di Antonello Grimaldi, 2007

Quando ci si affeziona ad un libro, se si escludono scelte di conduzione palesemente imbarazzanti, si è sempre contenti di vederlo tradotto sullo schermo. Ci si può confrontare tra l’immaginazione soggettiva e "libera" creata nella propria mente durante la lettura, e un’immaginazione "istituzionalizzata" qual è quella dell’adattamento cinematografico. E in questa sede, questo è quanto di più si vuole scrivere sull’argomento: Caos Calmo è un film estremamente fedele al libro da cui è tratto.

Non tanto per il fatto che le situazioni del libro vengono riproposte in modo attento e quasi del tutto compiuto (con i limiti posti dalle due ore della proiezione), quanto per l’indole che contraddistingue la narrazione: Caos Calmo è un film che racconta il suo percorso di elaborazione del lutto con una varietà di toni davvero inusuali per il contesto un po’ mortificante del cinema "leggero", in cui il film si inserisce con evidente volontà. Toni che vanno da un’ironia attenuata e coivolgente a una capacità di raccontare il dolore della perdita senza insistere sui soliti dettagli ombelicali, mantenendo sempre un ritmo eccellente, e molto adeguato alla durata del film. Non limitandosi a una replica del testo, però (evitando per esempio di accasciarsi pigramente sulla voce over: era un rischio su cui temevo scivolassero col culo a terra), e osando qualcosa di più.

Osando nel raccontare il conflitto tra il dolore e la sua presentazione sociale, prima di tutto, e nel rappresentare – a prescindere dagli strascichetti polemici del caso – la riscoperta del desiderio, e del suo rapporto con complicità, intimità e senso di colpa – con crudezza e sincerità davvero inedite. Oltre ad essere un film dignitosissimo sotto l’aspetto semplice ma insidioso qual è il gusto della visione, quindi, Caos Calmo cerca anche di fare qualche passetto in più all’interno della psiche del suo protagonista. E lo fa, paradossalmente, abbassando molto le ambizioni del libro, e portandolo ad un livello più medio, rifacendosi anche a precedenti noti quali l’ultimo Moretti (lui stesso fa "suo" il personaggio di Paladini, inserendo anche il suo stile nella sceneggiatura, anche se con umiltà e spesso a schizzi improvvisi) e colpendo per la limpidezza e la semplicità con cui la buona sceneggiatura e l’ottimo cast – tra cui una bambina brava e non insopportabile, e un Roman Polanski che è puro carisma – riescono a conquistare lo schermo.

Invece, se qualche – neppure troppo piccolo – dispiacere c’è, lo si riscontra dal punto di vista estetico e plastico: insomma, Caos Calmo non si divincola da un’insoddisfacente piattezza che tradisce le abitudini distrettesche di Grimaldi, e in cui l’esperienza di Alessandro Pesci alla fotografia (altrove molto bravo) non si riesce a smarcare dai soliti movimenti ondulati della macchina da presa nel campo/controcampo, e soprattutto da una patina bruttarella e imprecisa che fa pensare solamente alle immagini che siamo abituati, nostro malgrado, a vedere sul piccolo schermo.

Ma sono osservazioni limitate, e non troppo limitanti, perché Caos Calmo è davvero un bel film, rischioso e delicato allo stesso tempo, che infila in colonna sonora Stars, Rufus e Radiohead come fossero acqua fresca, che riesce perfettamente nel suo intento, e visti i tempi che corrono non possiamo che esserne entusiasti.