Sukiyaki Western Django
di Takashi Miike, 2007
In un villaggio western post-apocalittico, in realtà senza tempo, e apparentemente abbandonato, si scontrano senza sosta e da tempo, sullo sfondo di storie d’amore fratricide e drammi shakesperiani, la banda dei bianchi e quella dei rossi – ispirate ai clan che si affrontarono nel medioevo giapponese nella Guerra Genpei del XII secolo. L’avvento di un cavaliere solitario e il ritorno di una guerriera leggendaria ne faranno collassare gli equilibri.
Come già si è intuito dai commenti del post in attesa, pare che ad affrontare una strenua difesa di Sukiyaki Western Django, uno dei tre film di Takashi Miike usciti nel 2007, si vada incontro a un vero e proprio muro di gomma: e sto parlando di chi effettivamente l’ha visto. Ma anche a raccontarlo a chi vorrebbe vederlo o ne è incuriosito, non va molto meglio: un western che nell’ottica di un “ritorno a casa” circolare, rimescola Sergio Corbucci e Akira Kurosawa, Sergio Leone e la Nikkatsu, per di più con un cast quasi interamente giapponese che recita un improbabile e biascicatissimo inglese?
Eppure, com’è che io mi sono divertito come un pazzo? Probabilmente mi sto rincitrullendo, o forse sono solo passato sopra ai suoi evidentissimi e macroscopici difetti, alla recitazione canina (intendiamoci: se molti attori forse non sanno nemmeno cosa diavolo stanno dicendo, di sicuro noi non capiamo cosa diavolo stanno dicendo), al fatto che ci siano dei continui cali di ritmo e interesse, che in alcune parti diventi una palese e ricercata cretinata, buona giusto per ragazzini invasati e nostalgici del cinema di serie B: ma è di Takashi Miike che stiamo parlando, il film è un’opera tanto sconclusionata quanto anarchica e vitale, non è nemmeno il film modaiolo (fuori tempo massimo) che avrebbe potuto diventare, e una volta posto che non siamo di fronte a uno dei suoi capolavori, da Takashi Miike io voglio solo farmi sorprendere. E se Sukiyaki Western Django mi ha sorpreso così, tanto basta.
Anche solo (ma non solo!) per l’aspetto puramente plastico: grazie all’apporto del direttore della fotografia Toyomichi Kurita, il film è uno dei più visivamente spettacolari del prolifico regista nipponico, anche se in un senso molto più “ordinario” del solito: la mobilità della macchina da presa e la composizione dell’inquadratura (che riprendono spesso stilemi del western italico, come nelle sghembe o nell’uso dello zoom) lasciano senza fiato, e Miike e Kurita riescono a costruire sequenze magnifiche e folgoranti come la danza improvvisa e interminabile della bellissima Yoshino Kimura (impegnata poi anche in una memorabile fellatio fuoricampo). E poi i tocchi miikiani, che ci stanno sempre: l’insistenza su quelle rose di speranza lasciate crescere tra la sabbia, un bazooka cartoon nascosto in un antico baule, trovate grottesche come quelle del “test” dei samurai, un flashback veloce e silenzioso piantato qui e là.
Davvero molto bello – e immagino anche gradito ai più – l’incipit stilizzatissimo con il sempre più bolso Quentin Tarantino (che rivedremo ridicolmente invecchiato nella seconda parte) che nei pochi minuti iniziali aiuta a dare una chiave di lettura abbastanza chiara: non prendete alla lettera, né troppo seriamente, quello che vedrete. Divertitevi e basta.
grazie, come ti ho detto ci speravo.
adesso provo a capirci qualcosa e lo vedo anche io.
Tanto non ti piacerà.
Piace solo a me e a quei pazzi di Midnight Eye. ^^
Uno dei suoi difetti secondo me è proprio essere fuori tempo massimo. Come scrisse la Sara, dopo le incursioni postpost tarantiniane è tardi per rimestare ancora nela stessa broda.
ti sottoscrivo molto volentieri in questa recensione positiva. Io me lo son visto a Venezia, e forse a causa della noia di certi film orribili, questo Western alla Ken-Shiro mi ha fatto ridere parecchio. Aspetto visivo e personaggi caratterizzati in maniera veramente divertente (Tarantino compreso e sgargiante). Nel delirio che si porta dietro, nelle cazzate (tipo la gatling a manovella a tracolla) lo trovo godibilissimo anche se colmo di ettolitri di sangue e sbudellamenti.
Saluti
Filippo
A me forse è quello che non convinse, il fatto che era tirata troppo in là la tendenza. Forse rispetto a Tarantino c’è una follia maggiore, è vero, e forse anche questo pregiudica la mia simpatia nei suoi confronti.
di tutti i miike che ho visto solo uno (the cell, tra l’altro uno dei pochi ad essere arrivati in italia) mi ha lasciato tra l’indifferente e l’incazzato. e anche lì un paio di sequenze non erano male. non apprezzare miike significa non apprezzare un certo genere di cinema. nulla di male in questo, ma fare di meglio nel genere è impossibile. django mi piacerà di sicuro;)
Va bene che The Call era una boiatina, però gli ultimi 20 minuti erano una Bomba A Mano.
Kekkoz, conosci e ti piace Seijun Suzuki?
Sì, lo conosco e mi piace ovviamente moltissimo, anche se – a parte pezzettoni e conoscenza teorica – non ho visto moltissimo di suo.
Vuoi propormi paragoni tra Operetta Tanuki Goten e l’incipit di Sukiyaki?
(non ho mai finito di vedere Operetta, ai tempi ebbi dei problemi con i sottotitoli e non l’ho più recuperato)
No, no… però certe scelte stilistiche mi hanno ricordato almeno Pistol Opera. Solo che Pistol Opera era bello!
3_9
kekkoz, grazie.
a.
e di che?
(e chi sei?)
Però Suzuki con il Django di Miike c’entra un belin.
E per fortuna!
[_^
lo voglio vedere…
Visivamente azzeccato, bella fotografia e personaggi studiati bene…peccato non averci capito una mazza…(serve il dizionario di inglese o quello di giapponese?)