febbraio 2008

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The sun also rises (Tai yang zhao chang sheng qi)
di
Jiang Wen, 2007

Il film racconta le storie di una miriade di personaggi, divise in quattro parti ben distinte ma intrecciate tra loro. In un villaggio dell’Est nel 1976, una giovane vedova perde un paio di scarpe e impazzisce. Stesso anno, qualche mese prima, nella Cina del Sud, un professore viene accusato di molestie sessuali. Passato qualche tempo Tang, il migliore amico del professore, viene mandato per la "rieducazione" nel villaggio della prima parte, e si incontra con il figlio della vedova. La quarta e ultima parte è ambientata invece nel 1958, e ricongiunge in qualche modo i destini dei personaggi, mostrandone la genesi.

Bisogna arrivare fino alla fine per rendersi conto che l’obiettivo di Wen Jiang era di prenderci sottogamba: attratti com’eravamo da una struttura che sembrava inscatolata alla perfezione per poi espandersi in un finale rivelatore (o a sorpresa), il cinquantenne regista e attore (nel film interpreta Tang) ci colpisce con uno schiaffo sulla nuca. Non solo perché il (bellissimo) finale, invece che essere chiarificatore, è volutamente confusionario  e quasi "astratto", lasciando le vicende aperte a mille dubbi, rivelando alcuni intrecci e lasciandone altre parti completamente sprovviste, ma anche perché nel frattempo il film ha fatto il suo dovere alla perfezione, veicolando desideri e amicizia, amore passionale e familiare, con accenni ironici e malinconici alla rivoluzione culturale, quasi da sé e senza bisogno di troppi sforzi, con ammirevole naturalezza.

Certo, il film a volte prende pieghe insolite per i canoni del cinema cinese, e va ad assomigliare più a certo cinema europeo da esportazione, in voga qualche anno fa: un po’ nelle tentazioni di realismo magico della prima parte che ricordano suggestioni esteuropea, o le formidabili musiche del maestro Joe Hisaishi che assumono nella seconda parte toni quasi – mi si passi il termine – morriconiani. Ma sta di fatto che un film così sminuzzato non risulti mai sfilacciato è già un bel dire. A dare una mano e un senso al tutto c’è anche un favoloso cast, che fa ben più che il suo lavoro: davvero incredibili, per dire, la madre e il figlio della prima parte, che sono Zhou Yun (bellissima e sottotono, davvero una sfida visto il ruolo che le è toccato) e Jaycee Chan (sorprendente figlio di Jackie Chan), mentre i ben più esperti Anthony Wong e Joan Chen nel duetto dell’ospedale superano davvero loro stessi.

Anche se lo stupore più evidente di questo film strano e particolare, capace sicuramente di fare innamorare di sé, forse un po’ irrisolto ma irresistibilmente spudorato e comunque mai ruffiano, è dato dalla direzione della fotografia, affidata a tre celebri operatori (Lee Ping-Bin, Yang Tao, Zhao Fei) che lavorano sull’immagine e sulle luci in modo differente, regalando un film che è anche uno strabiliante florilegio visivo e a volte visionario (dalle intime inquadrature sui piedi di Zhou Yun dell’incipit al barocco del bambino nato tra i fiori sui binari di un treno), vero e proprio stato dell’arte della fotografia del cinema cinese. Buttala via.

Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2007
Acquistabile su Yesasia a una decina di euro scarsi.

[bye bye, life]

E’ morto Roy Scheider.

Sweeney Todd: Il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street)
di Tim Burton, 2007

Generalmente non do retta alle parole dei registi, ma mi ha colpito molto il fatto che Burton abbia detto di aver pensato al musical di Stephen Sondheim, da cui è tratto questo suo ultimo fenomenale lavoro, come a un film muto. E allo stesso modo ci ha lavorato: eliminando quasi del tutto i dialoghi e, grazie anche a una direzione degli attori che predilige mimiche esplicite e teatrali (mai stata così brava Helena Bonham Carter, gigione ma profondissimo Depp), traendone l’effetto di una traccia sonora sovrapposta, e non amalgamata, al supporto visivo. Il lavoro di selezione, poi, è stato durissimo e si vede (ne ha fatto le spese l’intero "coro" di fantasmi, tra cui Christopher Lee, spariti dal film) e quello che rimane è davvero di un’essenzialità e di una crudezza scheletrica difficile da descrivere. E a cui è difficile resistere.

Tutto questo, insieme alle scenografie di Dante Ferretti, che riproducono una Londra da incubo tanto lontana dall’immaginario vittoriano quanto vicina all’immaginario horror-gotico della città stessa (quindi una città esclusivamente cinefila, e come i suoi personaggi estremamente teatralizzata), risulta in un’evidente "confezionatura" del film, quasi che Sweeney Todd volesse contrapporre alla sua stessa veemenza tragica, all’espressione acuta e melodrammatica dei sentimenti dei suoi personaggi, una cornice contestuale più sostenuta, glaciale e stilizzata come il sangue che schizza arancione dalle gole dei borghesi vittime del demoniaco barbiere. Un film sospeso su un limite ben più sottile, una bellissima statua di porcellana sull’orlo della mensola, apparentemente pronta a cadere in mille pezzi, ma ben sostenuta da fili invisibili.

La tentazione immediata è quindi quella di inserire Sweeney Todd nel corso del cinema di Burton che segue La fabbrica di cioccolato: se dall’altra parte c’è il cinema più carnale e immediato di Burton, quello di Big Fish e di La sposa cadavere per esempio, più catartici e apertamente emozionali, da questa vi è un cinema più controllato, quasi "plastificato", appunto – nel senso che può avere un foglio di cellophan stretto contro la vostra faccia, ad impedirvi il respiro – che ha le sue radici in Mars attacks e Sleepy Hollow ma anche già nel noto manicheismo scenografico di Edward. Un cinema forse più geniale, nei suoi risvolti: a uno non resta che sceglier da che parte stare. O meglio, quale parte adorare di più. Perché poi, al di sotto, il sangue che scorre e le pulsioni sono le medesime.

Come questo post, dopotutto: vi sembra che sia freddo e poco entusiasta, ne sono certo. Ma non giudicate il libro dalla sua copertina, ché sotto queste righe pigre batte un cuore entusiasta, batte di un amore sconsiderato e violento che non si ferma di fronte a nulla, quello per tutta la seconda metà del film – senza troppo levare alla prima, più preparatoria – che è assolutamente sublime, inarrivabile e perfetta, e impreziosita da una lunga sequenza musicale "a colori" (con la canzone By the sea) che è tra le cose più sensazionali (e divertenti) mai girate dal folletto di Burbank. E anche, perché no, quello per la ritrovata vena "nera" – ma davvero nerissima – di quello che è uno dei migliori registi dei nostri giorni.

Incredibile poi che sia venuto così spaventosamente bene da uno spettacolo che musicalmente si presenta così debole e irrimediabilmente invecchiato: insomma, sulle canzoni – soprattutto nella prima metà – qualche riserva ce l’ho. Ma come biasimare Burton per questo? E in fondo, chi se ne frega? Però, a parte By the sea, per dire, la perfida A little priest – perno crudele e sardonico di un massacro di classe che si affianca alla più pregnante vendetta melò -  funziona ancora alla perfezione: segnatevela.

Nei cinema dal 22 Febbraio 2008

Mr Magorium e la bottega delle meraviglie (Mr. Magorium’s Wonder Emporium)
di Zach Helm, 2007

Diciamola tutta, non è che ci si potesse aspettare granché da Magorium: dal canto mio, Dustin Hoffman che fa le mossette conciato a quel modo con le sopracciglia folte equivale nel mio immaginario a essere schiaffeggiato forte con uno straccio imbevuto di piscia di gatto. Però Zach Helm, già sceneggiatore furbacchione di Stranger than fiction, poteva almeno sbattersi un po’ di più, se non altro per la figura di genietto che gli hanno costruito intorno.

Certo che con questi elementi tirare fuori un film dignitoso non era da tutti: e infatti Magorium è un film di impressionante insignificanza, una poverata squalliduccia che ribadisce con un tono superficialmente funebre quando non di fastidiosa naivite (come se per provare delle emozioni bastasse riprendere della gente che prova emozioni!) cose già dette e sentite miliardi di volte. Almeno dura poco, comunque più che rabbia suscita tenerezza – diciamo pure un po’ di pena.

Premio pucciosità dell’anno – pari merito – a Jason Bateman, decretato ormai come principe 2007/08 dei nostri cuori virginali di fanciulle, e a quel pupazzetto con lo sguardo triste sullo scaffale – talmente bello e ben congegnato da far rimpiangere il film che Magorium non è nemmeno per sbaglio né da lontano. Uno dei rari casi, forse l’unico, in cui non si sente – quasi – mai il desiderio di sbattere Natalie Portman a un muro e darle un figlio. Oppure, che ne so, un mazzo di fiori. Attenta, Natalie.

[scope]

Ludivine Sagnier. Beat that, Cialis.

Ah, e poi c’è il nuovo episodio di Friday Prejudice.

[post in attesa]



Voi pensate all’hype, io porto la carne fresca.

Tekkonkinkreet – Soli contro tutti (Tekkon Kinkreet) (Tekon kinkurîto)
di Michael Arias, 2006

Prima di tutto, risolviamo le due stranezze presenti qui sopra. La prima è il titolo italiano: il film infatti, vista la presentazione-evento al Future Film Festival, è uscito per l’home-video anche da noi: si trova già a noleggio e sarà in vendita dal 12 Febbraio, e prestissimo anche in formato blu-ray, piacevole eccezione a un mercato, quello della distribuzione di titoli nipponici anche chiacchieratissimi come questo, assai lento e distratto. La seconda è il nome del regista, che effettivamente non è giapponese: Michael Arias è un quarantenne californiano, anche dal look piuttosto tamarro, che vive e lavora in Giappone da molti anni, dove tra le altre cose ha sviluppato il software per le ombreggiature che viene usato da Miyazaki da Mononoke in poi. Per dire.

Passate queste curiose inezie che potevate pure leggervi da soli su Wikipedia, mettiamo subito in pace il cuore di Andrea: Tekkon kinkreet è uno straordinario pezzo d’animazione nipponica, trascinante e avventuroso: ma soprattutto visivamente impagabile. Se vogliamo proprio andare a cercare il pelo nell’uovo, ha una struttura un po’ involuta e prevedibile, basata su un’opposizione/sintesi reiterata allo sfinimento -  quella tra bianco e nero, insomma, la classica solfa del taijitu in cui bene e male si compendiano. Ma nulla che pregiudichi il divertimento e lo stupore di fronte alle corse, ai salti, ai veri e propri voli dei due amici Shiro ("bianco") e Kuro ("nero"), due orfani di strada che proteggeranno la "loro" città dagli yakuza e dagli assassini, e che sapranno trovare insieme, con l’amicizia, una loro strada per sfuggire al loro destino segnato. Che tenerezza?

Eh no, altro che tenerezza: prima di tutto perché Tekkon kinkreet è tratto da un seinen manga, e seinen rimane anche sullo schermo: sia nel linguaggio che nella rappresentazione della violenza, che non manca, anche ai danni dei due giovanissimi protagonisti. Che sanno difendersi, ma le prendono pure, e di santa ragione. Ma anche perché intorno a Shiro e Kuro viene costruito, ed è uno dei maggiori pregi del film, uno stuolo di bei personaggi, nessuno dei quali prevedibile o macchiettistico, dal poliziotto frigido a esseri crudeli come il "serpente" e i suoi temibili ed enormi scagnozzi, e tutti questi caratteri secondari arricchiscono moltissimo il film, dando una profondità maggiore al dualismo che regge il film, e tenendolo in piedi per tutta la sua durata.

E il rischio di svaccare per via della lunghezza c’era: tanto che a un certo punto il film prende una piega completamente diversa dall’ora e mezza precedente, una svolta peraltro rischiosissima: da robusto – per quanto coloratissimo ed eclettico – racconto di strada, Tekkon kinkreet diventa nell’ultima parte un deliberato delirio visivo, per ragioni legate allo sviluppo della trama (e che non sto a raccontare) ma con impressionante – e slegata dal contesto, in un certo modo – libertà visiva. Ed è lì che Arias e soprattutto lo Studio 4*C tirano fuori davvero gli artigli: perché con una roba così volutamente surrealista, il pacchiano è una tentazione fortissima.

E invece il risultato di questa interminabile sequenza è un autentico spettacolo per gli occhi, un viaggio cupo e psicotico il cui turbamento viene reso ancora più inquietante da parole minacciose. Quelle che accompagnano la sconfitta, ma insieme l’accettazione definitiva e necessaria del proprio lato oscuro.

Strawberry shortcakes
di Hitoshi Yazaki, 2006

Quando si cerca di stare dietro a certe cinematografie, è bene avere dei punti certi a cui appoggiarsi nel momento del bisogno. Nella maggior parte dei casi si trovano facilmente, a volte meno. Nel caso del Giappone, uno dei perni saldi è da tempo Midnight eye, webzine specializzata sull’argomento e capitanata dai bravissimi thirtysomethings Tom Mes e Jasper Sharp. Ed entrambi, nell’abituale recap del meglio (e del peggio) del 2007, hanno indicato Strawberry shortcakes come miglior film dell’anno. Ci sarà una ragione.

Effettivamente il film di Yakazi è molto bello, anche se non propriamente diretto e immediato come potrebbe sembrare dalla trama, adattata da un josei manga di Kiriko Nananan: vengono raccontate le alterne vicende sentimental-sessuali di due coppie di amiche single a Tokyo. Da una parte, una bellissima escort ossessionata dalla morte (dorme in una bara) e innamorata del suo migliore amico, e la sua amica, centralinista dell’agenzia, che sfugge alle vessazioni della realtà (è stata appena scaricata, si sente piccola e brutta, viene molestata dal suo capo) pregando una piccola pietra in cui dice di vedere il volto di dio. Dall’altra parte, una pittrice bulimica in crisi creativa e la sua coinquilina, una bella impiegata che insegue soltanto il sogno di realizzarsi come moglie.

Ma le quattro storie sono raccontate con toni inediti ed estremamente intimi, Yazaki si allontana da tendenze modaiole, facili retoriche di ordine sociale o ideologico, intenti pruriginosi che verrebbero quasi naturali, scegliendo di tematizzare il nocciolo della questione nel modo più chiaro ed esplicito possibile (ricorrendo anche a metafore, lievi simbolismi, oppure giochi di parole o vere e proprie "etichette") e di prendersi poi tutto il tempo necessario per lasciare che i personaggi si rivelino e si descrivano da sé, osando molto (soprattutto nel doloroso personaggio di Toko, ma anche nella rappresentazione dell’atto sessuale) nel cercare di decifrare il cammino delle quattro donne verso una sorta di autoconsapevolezza. Aiutato dall’intelligente struttura duale ma non "episodica" – e riunita da un finale fuoricampo davvero strabiliante -, da un’ironia delicatissima e sempre ben contenuta tra le righe, e dalla bravura straordinaria delle quattro attrici, tutti volti relativamente nuovi del cinema nipponico.

In definitiva, nonostante qualche perdonabile impaccio di ordine ritmico, un film coraggioso e stimolante sull’incrollabile speranza dell’animo e sull’accettazione di sé a prescindere dal trascendente.

Per acquistarlo? Su Yesasia, l’edizione coreana costa 23 euro.
L’edizione giapponese c’è, ma come al solito costa di più.

[post in attesa]


Cloverfield
di Matt Reeves, 2008


Questo post, secondo me, non contiene spoiler. Ma visto che sulla questione siete tutti molto delicati, fate così: non leggetelo se non avete visto il film. Se volete un giudizio sbrigativo senza dover leggere il post, beh, è decisamente positivo.

Facciamo subito piazza pulita dei due o tre concetti in croce che voglio esprimere sul film di Matt Reeves prima di gettarmi in un ingiustificato e gioioso whooo!: le  questioni sono strettamente correlate ma hanno a che fare con il linguaggio del film, con i suoi temi, e con cose più paratestuali come hype e aspettativa. D’altronde, visto che ho gentilmente aspettato tre giorni per scrivere questo post, permettemi di non pormi troppi problemi di spoiler.

Prima cosa. Cloverfield è, come molti di voi sanno, un film interamente girato da uno dei personaggi con una videocamera amatoriale, e si svolge quindi – va da sè – interamente in soggettiva. Una cosa che è già stata fatta, in modo simile e con intenzioni persino più teoriche, in un noto horror di qualche anno fa che tutti giustamente citano. Ma questo è un caso diverso: Cloverfield non è un fortunato giochetto tra giovani e ambiziosi cineasti, vi è una sintesi totale tra cinema di "serie A" e di "serie B" (si notino le virgolette), tra lo-fi e hi-fi, tra digitale grezzo e effetti speciali da blockbuster, che non ha davvero paragoni. Si può dire che quello di Cloverfield è un luogo in cui si trovano due mondi che finora si guardavano in cagnesco, e si trovano piuttosto bene. Dopotutto, sia la camera a mano traballante e finto-amatoriale sia l’effetto digitale che va a caccia del massimo realismo possibile giocano da anni con le medesime istanze di realtà, nonché con l’inganno e con l’accettazione della "truffa" insita nell’esperienza spettatoriale. In questo caso, appunto, si trovano a metà strada, e fanno – con la stessa infantile gioia distruttiva del mostro brutto e grosso – piazza pulita dell’entertainment fracassone degli anni ’90. Ed era pure ora.

Un film che voglia rispettare questa micidiale coerenza di linguaggio, però, porta a una conclusione diretta e scontata: Cloverfield è insomma, soprattutto, come viene sottolineato anche esplicitamente da dialoghi come se ce ne fosse bisogno, un film sulla necessità di guardare, di registrare, di testimoniare. Mi rendo conto quanto sia futile forse portare avanti questa risaputa lettura, ma altrettanto è ignorarla: non solo perché è solo un segno dei tempi, in cui il "nastro ritrovato" non è un documento ufficiale più di quanto sia un lungo filmato su youtube, ma proprio perché il modo in cui tutto ciò è portato sullo schermo: palese, ingenuo, cristallino, irresistibile.

Ma tutto questo, si noti, lo potevamo scrivere senza nemmeno averlo visto, il film. Questo è il motivo per cui una lettura stratificata ha vita breve, anche se – o proprio perché! – viene richiesta a gran voce dal testo stesso. Allo stesso modo, tutto quello che speravate e/o temevate di vedere in Cloverfield svanisce in una bolla di sapone: gli spoiler, la campagna di marketing, il mostro com’è e come non è. Ma il film è tutto lì, in un’ora o poco più, e non c’è niente da rivelare o da scoprire che non abbia a che fare con dettagli anatomici, c’è persino l’artificio manzoniano iniziale, che sta lì proprio a spazzare via qualunque dubbio su come vada a finire tutta la faccenda, fin dal primo minuto. Davvero. Insomma, Cloverfield è proprio qualcosa di cui avremmo potuto scrivere senza vederlo, niente di più e niente di meno. E qui sta il bello.

Perché Cloverfield fa una cosa che da lui non ci aspettavamo, tutti distratti com’eravamo: recupera in tutto e per tutto l’esperienza dell’emozione spettatoriale. Il valore, enorme, di Cloverfield è lì, nel suo farsi intrattenimento circense, divertimento muscolare, tangibile direi. Al di sotto c’è la solita struttura della favola (la principessa da salvare, il mostro grosso, aiutanti e opponenti) e le tendenze catastrofiste di molto cinema americano post 9/11. Ma al di sopra, davanti ai nostri occhi, c’è quest’oretta massacrante di cinema-rollercoaster, primo vero cinema dinamico ad arrivare nelle sale, che ti ingabbia alla poltrona e ti emoziona, scuotendoti letteralmente, come poche cose viste al cinema – e solo al cinema, siete avvertiti* – negli ultimi tempi. Senza dimenticare uno dei migliori personaggi di questa stagione, quello di Hud, di cui per la maggior parte del tempo sentiamo solo la voce – terrorizzata, eroica, pavida, innamorata – perché è pura identificazione, è la personificazione senza volto e senza corpo (come noi, nel buio) dell’occhio ingenuo e insieme ossessivo dello spettatore.

Adesso però tocca al whooo!, posso?

Whooo!

*a questo riguardo, intollerabili freni sono portati dal doppiaggio, indipendentemente dal fatto che sia malriuscito o meno, ma proprio perché cozza con gli statuti di realtà del film, riportandoci troppo spesso con i piedi per terra.

Piano, solo
di Riccardo Milani, 2007

A differenza di ciò che qualcuno potrebbe pensare, le memorie che danno il titolo a questo blog sono proprio, letteralmente, memoria. Tentativi di recupare estratti di ricordo per strapparli alla fugacità del tempo. Sono centinaia, migliaia, le cose, i dettagli del passato, che ricordo proprio grazie a questo blog. Ma è una cosa pessima, davvero, la mia memoria: tanto che a volte guardo un film e me ne scordo. Non è la prima volta, anche se il blog dovrebbe aiutare. Si direbbe che se ci si dimentica è colpa, o può esserla, del film, ma in questo caso è un peccato, perché non lo è.

Recuperato diversi giorni fa grazie alla segnalazione nelle classifiche dell’anno passato da parte di qualche blog (che ringrazio e invito a palesarsi eventualmente nei commenti), tratto dal romanzo di Walter Veltroni sulla vita di Luca Flores, pianista morto suicida nel 1995 a meno di 40 anni, il film è il racconto di un’ossessione vividamente sonora e della sua sublimazione musicale, dove le dita che corrono sui tasti non sono che la fuga da un qualcosa che è sempre dietro l’angolo, e soffia sul collo. E lo sguardo triste del solito eccellente Kim Rossi Stuart non fa che trasmettere la rassegnazione, da principio, di fronte a questa ineluttabilità. Dal canto mio, Piano, solo è stata un’esperienza difficile, toccante per alcuni versi, ma immagino di poter dire con tutta tranquillità che l’impressione sia assolutamente positiva a prescindere da questioni del tutto personali.

Se alcuni dei caratteri del cinema italiano che generalmente snobbiamo rimangono incastrati nella rete, per esempio sul piano della direzione d’attori (e in questo senso la prova d’attrice di Jasmine Trinca stona assai con quella sorprendente di Paola Cortellesi), è davvero ammirevole il tentativo di Milani di rifuggirli con le armi della sintesi e dell’asciuttezza, relegando il melodramma nei visi dei suoi personaggi e trasformando Piano, solo in un film di rara compattezza, che rimane miracolosamente in bilico, ma dal lato giusto, sul rischioso filo teso dalla rappresentazione della malattia sullo schermo. E regalando, nella scena perforante del flashback "rivelatore", uno dei momenti più intensi del cinema italiano degli ultimi tempi.

Mad detective
di Johnnie To e Wai Ka-fai, 2007

L’ispettore Bum è una testa calda: è convinto di avere un dono trascendente che gli permette di risolvere i casi, si immedesima "radicalmente" con le vittime, e dice di saper vedere – letteralmente – le vere personalità nascoste nell’animo degli individui. Matto come un gatto, certo: però i casi li risolve eccome. Il giorno che decide di omaggiare la purezza del suo capo tagliandosi di netto un orecchio, i suoi colleghi cominciano a pensare che sia anche pericoloso, e Bum viene emarginato. Ma chi può dire davvero quale sia il confine tra realtà e immaginazione, e – allo stesso modo – tra follia e malinconica sopravvivenza?

Queste sono le premesse dell’ultimo film del grandissimo Johnnie To, tornato a farsi spalleggiare dal collega e amico Wai a qualche anno dall’ultima collaborazione: era il 2003, l’anno del bizzarro Running on Karma. Nel frattempo, To è uscito dal "ghetto" della culto cinefilo, è divenuto una presenza fissa dei festival di tutto il mondo (e persino negli scaffali delle videoteche italiane), e asciugando ulteriormente il suo inconfondibile stile ha prodotto autentiche perle come Throwdown, Exiled e i due Election. Mad detective è stato presentato come film a sorpresa da Marco Muller all’ultima Mostra di Venezia, e rappresenta una specie di ritorno alle atmosfere che fecero grande la casa di produzione Milkyway a cavallo tra i due ultimi decenni.

Una storia intricata su identità e sopravvivenza, identità e mito, emulazione, potere, mescolanza ben amalgamata di ghost-story (sui generis) e noir metropolitano, in cui i due registi mettono spesso la loro esperienza al servizio di autentici pezzi di bravura: la sequenza dell’appuntamento a quattro, fatta di silenzi, gesti, e sguardi "nel vuoto" ne è un esempio perfetto. E se Mad detective è chiaramente un’opera disillusa e malinconica, per alcuni versi straziante, toni a cui spesso To ci ha abituato, l’elemento del gioco (soprattutto nell’esplosiva sequenza finale, risaputa e con tanto di stand-off, ma di impressionante perferzione) è ben evidente: To e Wai si divertono a confondere le carte e a mescolarle sadicamente davanti ai personaggi e agli spettatori, ma sanno gestire il continuo alternarsi dei piani di realtà, tra visioni e riflessi, con una scioltezza e una maestria impagabili.

Certamente To ha fatto film migliori, anche negli ultimi anni, e la solitudine alla regia gli ha senz’altro giovato: considerato anche che Wai, nel frattempo, girava Shopaholics. Ma non v’è dubbio che il cinema di To rimanga quasi sempre una spanna sopra quello dei suoi conterranei, schiacciando letteralmente gli emuli per le qualità formali e per l’assoluto genio che contraddistingue la sua messa in scena. E poi, in cima a tutto, c’è l’incredibile performance di Lau Ching Wan.

Per completare la mia noiosissima opinione, vi propongo quella del bravissimo e bellissimo Carlo "lonchaney" Tagliazucca, discussa in un breve e grezzissimo scambio di email che ho trasformato malamente in una specie di micro-intervista.

Carlo, voglio sapere la tua. 
Non è malaccio, dai. Molto (troppo) macchinoso e con vari riciclaggi, soprattutto da The Longest Nite. Il personaggio di Lau Ching Wan è bellissimo, e mi è piaciuta un sacco la scena del ristorante, con lui che se ne parte in moto da solo. Tu che ne dici?
 
D’accordo con te, ma un tantino più contento: qui si respira l’aria della Milkyway di una volta, ci sono un sacco di specchi che si rompono, e la scena per strada con le due mogli è da strappacuore. Bello bello bello.
Sì, dai, però è davvero troppo arzigogolato per convincermi davvero. Mi chiedo quanti minuti di film siano veramente di Johnnie To. Secondo me, pochi.

Però la mano di To nella sequenza finale c’è. E sicuramente in quella del ristorante. E’ vero, però, che è arzigogolato. Più che altro, che casino.
A me piacciono tanto Throwdown e PTU perchè raccontano esclusivamente con le immagini, attraverso gesti e azioni dei personaggi. I Milkyway troppo scritti e troppo waikafaieschi mi lasciano spesso un po’ così.
 

Il DVD (edizione hongkonghese) è in vendita da oggi, a pochi euri.