aprile 2008

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[is it a bird?]

Gwyneth. Gwyneth. Gwyneth. Gwyneth. Gwyneth. Gwyneth. Gwyneth.

E pure il nuovo episodio di Friday Prejudice, con un giorno di anticipo.

Shoot ‘em up
di Michael Davis, 2007

Fermiamoci un attimo, e riflettiamo: vogliamo davvero prendere sul serio un film che si intitola programmaticamente come una delle più celebri categorie di videogame? Un film del regista di Monster man? Un film in cui il protagonista, come prima cosa, ammazza un cattivo ficcandogli una carota in gola, che trapassa la nuca, e dicendo poi "eat your vegetables"? La mia risposta è ovviamente un rumoroso no.

Questo non vuol dire che non se la si possa godere in santa pace: se avessimo scartato Crank solo perché era improbabile e esagerato, ci saremmo persi una roba come Crank. Ma il film di Neveldine e Taylor aveva uno stile che l’inglese Davis nemmeno avvicina, e Shoot ‘em up non è che un altro divertito tentativo – un po’ ritardatario – di fare l’action-cartoon definitivo. Con le carote di Bugs Bunny, appunto, ma anche con una sequela di situazioni inverosimili ed esagitate che non rasentano affatto il ridicolo, ma ci sbattono volutamente dentro tutta la testa.

Posto questo, mi risulta difficile condannarlo in toto: è un’allegra puttanatina, e se l’idea di costruire l’intera sceneggiatura sulle catch phrase per ironizzare sulle catch phrase stesse è già vecchiotta e annoia in fretta, almeno non è dannoso come altri titoli simili. Anzi, è un cinemino abbastanza innocuo, scemo e giocherellone, e finché il gioco tiene (direi per una mezz’oretta, poi si comincia a guardare l’orologio – mi rendo conto che in un film di un’ora e venti non sia il massimo) ci si diverte quanto basta.

Monica Bellucci, se vi farete il favore di vederlo in lingua originale, ha un modo di dire vaffanculo pezzo di merda che non può non conquistare. Paul Giamatti per quella battuta su Sideways è meglio che vada a nascondersi. Colonna sonora da denuncia penale: no, dico, Breed?

Imperdibile e già storica la contro-recensione di Blueblanket.

Big bang love, Juvenile A (46-okunen no koi)
di Takashi Miike, 2006

La cosa bella di un regista eclettico come Miike è che ognuno è libero di scegliersi il proprio Miike: quello furioso ed estremo di Izo, quello giocoso e irrefrenabile di Yokai Daisenso, oppure quello più intimista e cauto di film come Big bang love. E l’altra cosa bella è che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a un cinema fiammeggiante, stimolante, sperimentale.

Questo film, pur essendo una sorta di detection che prende vita da una storia d’amore e di interdipendenza nata dietro le sbarre di un carcere, prende grandi distanze sia dal film carcerario che dall’investigazione, utilizzando i generi – il detective, la scazzottata – per sostenerne l’essenza narrativa, ma basando l’intero film su un linguaggio assolutamente differente. Big bang love è costruito infatti su una totale abnegazione all’astratto, con scenografie teatrali in cui è negato qualunque tipo di orpello (sfondi, e a volte interni, compresi) e una fotografia contrastata (di Masahito Kaneko) in cui gli abiti, spesso divise, dei personaggi sembrano sembrano davvero galleggiare nel buio – e la loro inconsistenza quasi fantasmatica è rivelata dalla capacità della luce, letteralmente, di penetrari.

Visivamente contiene alcune tra le cose più stupefacenti girate dal regista giapponese, ma Big bang love è anche un film arduo, da affrontare con cautela. Lontano dalle sue opere più celebri, e forse più ammiccanti, possiede anche un’ardita deriva simbolista, abbastanza scioccante anche se assai affascinante. Ma come quasi tutti i film di Miike, alla fine ti lascia a bocca aperta, con il desiderio di averne ancora. Da recuperare.


Non sarà difficile recuperarlo: il film è uscito in Italia in DVD già da qualche tempo, in giapponese sottotitolato, nell’ottima collana Queer curata da Dolmen, e lo si trova un po’ ovunque a pochi euro.

Il titolo originale significa, circa, Un amore lungo 4.600 milioni di anni. Anno più, anno meno.

Lontano dal paradiso
(Far from heaven)

di Todd Haynes, 2002

"I’ve learned my lesson about mixing in other worlds. I’ve seen the sparks fly. All kinds."

Tra i casi più clamorosi di omaggio cinefilo applicato a una sceneggiatura originale (dello stesso Haynes), Far from heaven fu, qualche anno or sono, la conferma che il regista di Velvet goldmine era ben più che un’interessante mina vagante del cinema americano, e molto più che un nome da tenere d’occhio – promessa di recente mantenuta con l’eccellente I’m not there.

Su cosa sia e su cosa racconti e su cosa rappresenti Far from heaven è inutile spendere troppe parole: Haynes restituì alle sale lo splendore dei melodrammi di Douglas Sirk, ma facendo affiorare alla superficie, ed esplodere infine (ma con un garbo e un tatto quasi miracolosi), tutti quei caratteri che in film come Lo specchio della vita erano – per motivi di ordine culturale, e non solo – soltanto sotterranei. In particolare, conflitti di classe legati al confronto razziale, alle dinamiche di coppia, alla repressione sessuale, e alla questione femminile.

Accompagnato dall’incredibile tappeto sonoro di Elmer Bernstein (che non fece che riproporre i suoi stessi stilemi, quasi 50 anni dopo – e superandosi) e dalla fotografia davvero filologica (l’uso del colore, dei dolly, delle sghembe) di Edward Lachman, uno tra i più enormi film sull’incontro, lo scontro e il collasso di mondi differenti – e un’opera di sensazionale, millimetrica, smodata, svergognata meticolosità. Eppure, spudoratamente commovente.

Frontière(s)
di Xavier Gens, 2007

Alla curiosa rassegna itinerante 8 films to die for si accennò già scrivendo di Ian Stone: ma in realtà lo scorso Novembre vennero proiettati solo 7 film sugli 8 previsti, perché Frontière(s) si beccò un divieto ai minori NC-17 che lo rese inutilizzabile ai sensi del "festival", e vide costretta la After Dark a costruirgli intorno un’uscita a parte: sarà infatti nelle sale statunitensi il prossimo 9 Maggio. Ed è chiaro che un film troppo violento per una rassegna del genere non può non sollevare qualche curiosità.

Ed effettivamente il film di Xavier Gens, opera prima anche se uscita quasi in contemporanea con il bessoniano Hitman, a causa del quale si è già reso inviso alla critica internazionale, è costruito impilando uno sopra l’altro una buona quantità di topoi che, messi così tutti insieme, potrebbero sfiorare il ridicolo: i postadolescenti ribelli, il gerarca nazista, aborti affamati che vivono nel buio del sottosuolo, un’antologia del cannibalismo (ma senza scene di cannibalismo), aperte metafore politiche (riferite, come già in À l’intérieur, alla crisi nelle banlieu parigine). Anche le situazioni giocano al rilancio, e in questo senso c’è davvero da divertirsi: qui mettiamoci un lago di sterco suino, se non bastasse vai con la pioggia di sangue, e per finire una rotolata nel fango – catfight compreso – che non fa mai male.

In un certo senso però, se è vero che il film non è altro che uno slasher abbastanza tradizionale (lo scheletro è ancora quello di The Texas Chainsaw Massacre), sul sadismo applicato alla protagonista Karina Testa trova davvero una soluzione inventiva: quella di un personaggio che, da un certo punto in avanti (per la precisione dalla sequenza della cena), si muove esclusivamente per inerzia inconscia, mescolando il più classico "spirito di sopravvivenza" con un vero e proprio crollo psicofisico davvero convincente – tant’è che poi la risoluzione e la salvezza possono essere portate solo da un brutale livellamento, dall’abbraccio (parziale) con quella stessa furia animale che caratterizza i suoi personaggi.

Per il resto, rigetti di stomaco permettendo, una robetta che senza dubbio si fa vedere e che si fa pure dimenticare in fretta – ma davvero bella tosta, gradevolmente faticosa, e comunque assai meglio della maggior parte delle ragazzate prodotte oltreoceano. Che loro un NC-17 così se lo sognano.

Anche in questo caso, Valido era arrivato prima degli altri.

Rushmore
di Wes Anderson, 1998

"I understand you’re a neurosurgeon."
"No, I’m a barber, but a lot of people make that mistake."

Qualcuno la potrà pure chiamare maniera, da qualche parte del globo, ma a pochi giorni dall’uscita in Italia dello stupefacente The Darjeeling Limited, rivedere – oppure, come nel mio caso, vedere per la primissima volta – il secondo film di Wes Anderson, cult planetario vecchio ormai di 10 anni secchi, e trovarlo mosso dallo stesso spirito, le medesime impellenze, lo stesso inconfondibile stile, la stessa immutata e irresistibile idea di cinema, per quanto mi riguarda è davvero qualcosa che dà conforto.

Rushmore, poi, è davvero (paradossalmente, nella sua identità) un’autentica sorpresa: ambientato nella prestigiosa accademia eponima, segue senza perdere nemmeno un colpo, con un’empatia assoluta – forse più "vicina" ai suoi personaggi di quanto non lo siano gli ultimi film di Anderson – lo svolgimento dell’anno scolastico e le alterne vicende di Max Fischer (l’allora diciottenne ed esordiente Jason Schwartzman), un quindicenne sconsideratamente ardimentoso, ma brillante e pieno di talento, scatenate dall’impossibile infatuazione per una professoressa di inglese interpretata da Olivia Williams e dalla bizzarra amicizia con il ricco e frustrato padre di famiglia Herman Blume – un eccezionale Bill Murray, che proprio a questo film deve la sua "rinascita" dell’ultimo decennio.

Tra le altre – tantissime – cose, uno script che è una vera e propria miniera d’oro ("I saved Latin. What did you ever do?", "I always wanted to be in one of your fuckin’ plays") e, come in ogni film del regista texano, una vera manna per gli appassionati del wesandersonverse: dalla sequenza di presentazione di Max (replicata poi in The Royal Tenembaum), all’ossessione per Jacques Cousteau, alla presenza sorniona di Kumar Pallana, a quella tristezza negli occhi che nemmeno i colori e le musiche e gli innumerevoli carrelli potranno mai portar via ai personaggi – in un cinema che è sempre sostanzialmente malinconico, e in cui la catarsi non è che un tiepido sorriso temporaneo.

Impressionante la colonna sonora di Mark Mothersbaugh, condita da una sequela altrettanto spaventosa di brani, tanto noti quanto sempre appropriati, dai Creation agli Who, da Cat Stevens a John Lennon. Possederla è un dovere civile.

Il film non è reperibile nel nostro paese, ma l’edizione inglese è praticamente gratis, e ha pure i sottotitoli italiani. Non avete scuse. Se volete spendere due lire in più, c’è la solita eccellenza di Criterion Collection, nei cui extra tra le altre cose si trova questa cosetta meravigliosa realizzata dal cast in occasione degli MTV Movie Awards nel 1999.

[you gotta be kidding me]

Straordinario: questa settimana su Friday Prejudice ci sono solo pecore.

Inside (À l’intérieur)
di Alexandre Bustillo e Julien Maury, 2007

Il film d’esordio di Maury e Bustillo, quest’ultimo anche sceneggiatore e capo redattore del gagliardo Mad Movies, negli ultimi mesi ha gironzolato parecchio: da Cannes e Toronto l’anno scorso, è passato per molti festival di genere, come l’hollywoodiano Screamfest e il Frightfest di Londra (dove venne recensito da Valido). Ma che À l’intérieur possa trovare una strada distributiva dalle nostre parti, è tutto da vedere: si tratta infatti di uno dei film più violenti e truci prodotti in Europa negli ultimi anni, paragonabile semmai per le sue scelte estreme solo a certo cinema asiatico.

Non si tratta solo di sangue, né solo di paura: À l’intérieur è uno di quei casi, abbastanza rari per chi abbia uno sguardo preparato, in cui le barriere che solitamente rendono il gore materiale da tranquilli sgranocchiamenti vengono allegramente superate. In tal senso, una Béatrice Dalle gotica e irrefrenabile, il soggetto ridotto alla sua essenza, uno dei twist centrali più assurdi mai accennati (il risveglio del poliziotto), un bizzarro incipit in 3D da sopracciglia aggrottate (che però, come suggerisce il titolo, tramuta immediatamente il punto di vista da quello del classico slasher – vittima vs carnefice – a un inedito e solenne buio uterino), la prevedibilità della "spiegazione", la stupidità dei personaggi, tutti questi elementi di potenziale "disturbo" a nulla valgono di fronte a un film che riesce a colpire allo stomaco come quasi nessun altro in questo periodo.

Difficile infatti, o probabilmente impossibile, rimanere del tutto saldi di fronte all’impressionante repertorio di morti (perpetuate con grosse forbici, pezzi di specchio rotto, ferri da calza, pistole, fucili – e sempre dove fa più male) e a un sadismo davvero ai limiti dell’antologico, che si rifà ai peggiori incubi dell’immaginario maschile (la castrazione, per esempio) ma soprattutto di quello femminile, con un armamentario di pugnalate sanguinose nel reparto maternità (e nel reparto privazione) che comincia dall’horror-splatter più onirico e innocuo (il breve sogno che apre le danze, in verità una pacchia per gli amanti del vomito) per finire in un finale – annunciato, ma ugualmente stupefacente e altrettanto insostenibile – all’insegna della carne straziata, dei fiumi di sangue, e appunto di una  vera e propria epifania delle interiora.

Un’altra dimostrazione che il cinema horror francese è vivo e gode di ottima salute. E che, come in questo caso, è un cinema che sa fare quel passo in più – quello che distanzia il giochetto sterile dallo straziante cinema delle viscere, gli infantili sgozzamenti dal miglior horror possibile. Un cinema che, viste le brevi distanze, dobbiamo solo permetterci di invidiare.

Il dvd Regione1 (USA) del film è già in circolazione da qualche giorno, e su Amazon costa pure poco. Se invece avete dei problemi con le regioni, sarà acquistabile sull’Amazon l’edizione speciale francese, da domani 23 Aprile 2008.

In amore niente regole
(Leatherheads)

di George Clooney, 2008

Ci avevano colti di sorpresa, i primi due film di George Clooney: il primo era un film originale, entusiasmante e molto coraggioso, che sfruttava al meglio lo script di Charlie Kaufman e il volto di Sam Rockwell, mentre il secondo era apparentemente del tutto diverso, molto più classico e un poco manierista, ma innegabilmente riuscito quanto universalmente acclamato. Si vedevano, più che intravedersi, doti di impressionante eclettismo, inaspettate in quello che dapprima si pensava essere un attore prestato al mestiere di regista.

Due considerazioni sparse, partendo proprio dal fatto che Clooney si è dichiaratamente stufato di fare solo il cinema di ostentato impegno che per lui ha significato una sorta di seconda giovinezza: la prima è che ciò non leva affatto a questo suo terzo film una parte nel preciso percorso tematico del suo cinema. Che tratta sempre il medesimo tema, o almeno inserito in un medesimo contesto: quello di un’intera nazione (e di un secolo) alle prese con una sostanziale perdita dell’innocenza, incorniciata da grandi mutazioni sociali o economiche, dentro la quale i singoli personaggi si muovono proclamandone la morte, il canto del cigno, e un’eventuale rinascita.

La seconda considerazione, ahinoi più importante, è che la sua "voglia di leggerezza" non gli può far perdonare in toto un film del genere: Leatherheads è un film piacevole ma sostanzialmente medio, se non mediocre, garbato ma insopportabilmente privo di un interesse che vada oltre alla smorfia buffa, al tiepido omaggetto cinefilo, alla puntigliosa ricostruzione storica, e in cui il massimo obiettivo raggiunto è quello dell’ossessiva perizia scenografica – dote che in un regista assai capace come Clooney non ci interessa granché, e dei cui sentori, sottilmente onanisti, era già colmo Good night and good luck.

Il film perfetto per una serata divertita e smaliziata che avremmo potuto passare altrove.

Epitaph (Gidam)
di Jeong Beom-sik e Jeong Sik, 2007

L’horror coreano ha sempre dovuto convivere con la notorietà di quello nipponico: se si eslcude la fortuna (artistica e commerciale) di film come Two sisters, il film di paura di Seoul ha spesso vissuto della luce riflessa proveniente da Tokyo, oppure, nella maggior parte dei casi, non si è illuminato affatto, rimanendo all’ombra dei più noti esemplari giapponesi – con un nomignolo, k-horror, che non poteva essere più derivativo. Sono pochi insomma i film di questo popolarissimo genere prodotti in Corea negli ultimi anni a essere davvero memorabili: Epitaph è una gloriosa eccezione alla regola.

Costruito incrociando tre ghost-story abbastanza tradizionali, ambientate in un ospedale della Corea occupata nel 1942, nonostante abbia tre "capitoli" piuttosto distinti, il film riesce a non risultare "episodico" né frammentario. Grazie alla cerebralità della sceneggiatura, che incastra i personaggi comuni, le vicende e le location con grande perizia (e il rischio di una confusione, nell’eccesso, era altissimo), ma soprattutto per le tematiche comuni che rendono il film assai più coeso di quel che sembri a raccontarlo. La concezione dell’esperienza fantasmatica e ultracorporea come estensione del "caso clinico" di malattia mentale, per esempio, ma anche il più classico percorso narrativo di detection per il quale una situazione di stallo del soprannaturale viene superata scoprendo la "mancanza" che tiene i fantasmi "da questo lato", che sia il senso di smarrimento, la solitudine, il senso di colpa.

Le tre storie giocano anche con narratività, identità e personalità, e sono puzzle via via più complicati: eppure non stordiscono, anzi funzionano alla perfezione. Ma quello che entusiasma di più in Epitaph è l’incredibile talento compositivo e plastico dei fratelli Jeong: spavaldi e persino un po’ sbruffoni, aiutati dalla splendente fotografia di Yun Nam-joo (anch’egli all’opera prima), i due esordienti portano avanti un discorso estetico dai riferimenti eclettici ma precisi  – qualcuno segnala un forte debito nei confronti di Park Chan-wook, forse anche per i moltissimi valzer presenti nella strana colonna sonora dagli accenni hermanniani, ma si tiene conto anche della tradizione del j-horror appunto, pur senza dover ricorrere alle solite Sadako – e producono una delle opere coreane più belle a vedersi degli ultimi tempi (il lungo carrello in avanti che spalanca paraventi paradossali è roba da brividi sulla schiena) e soprattutto un film, viste le premesse, inaspettatamente compatto, cupissimo, malinconico, ed emozionante.

Poi, trattandosi pur sempre di un horror, anche se sui generis, non è affatto secondario che faccia paura. Una paura del diavolo.


Recensioni entusiaste su Variety e Beyond Hollywood, decisamente meno su Slant.

[non basta]

Oppure sì? Un altro pallosissimo episodio di Friday Prejudice.

La zona
di Rodrigo Plá, 2007

Quante volte si enumera tra le qualità di un film "la capacità di far scaturire una riflessione sul conflitto sociale tramite meccanismi di genere"? Sarà una banalità, ma La zona sembra fatto apposta per farmela scrivere: e se contiamo che il film del quarantenne Rodrigo Plá è un esordio nel lungometraggio, l’acclamazione generale che lo ha accolto non sorprende affatto.

La zona è infatti un gran bel film di impressionante cupezza, che sa passare dallo stato di generale inquietudine che è proprio del contesto (un quartiere residenziale benestante, rinchiuso e protetto, al di fuori del quale, pochi centimetri fuori, c’è il Messico vero) alla più nera delle prospettive. Quella fortemente politica e altrettanto disillusa per cui le differenze di classe, tracciate da muri ben definiti – e talvolta concretissimi – di incomprensione, e di ghettizzazione socialmente accettata, non siano abbattibili dalla forza del caso, né tantomeno – quando sopravviene una sorta di violenta sopravvivenza xenofoba che ha qualcosa di tribale – dal trauma, e forse nemmeno dalla coscienza sovversiva delle pavide nuove generazioni.

Un cast di belle facce dure (come la coppia di spagnoli Daniel Giménez Cacho e Maribel Verdú, o l’eccellente Carlos Bardem), una regia tesa, ritmica ed emozionale, che non dimentica che sempre di una caccia all’uomo si tratta e si comporta di conseguenza, e una bellissima fotografia livida che trasmette perfettamente il senso di angoscia dei personaggi – e della loro piccola società decadente.

Once upon a time | Once upon a time in Corea
di Jeong Yong-ki, 2007

Nell’estate del 1945, un truffatore misterioso e sbruffoncello e una corteggiatissima cantante jazz che nel tempo libero è la ladra più ricercata in Corea si litigano un inestimabile diamante chiamato "La luce dell’Est", sullo sfondo dell’occupazione giapponese, della resistenza (rappresentata da due imbranatissimi camerieri), e della disfatta dell’esercito nipponico alla luce della fine della Seconda Guerra Mondiale.

Cinema coreano al minimo sindacale, e piuttosto vecchiotto (un film avventuroso, ironico e romantico nel modo in cui poteva esserlo, che ne so, Romancing the stone), gradevole nel suo essere programmaticamente stupidino (e poi a tratti improvvisamente serissimo, come al solito), anacronista, e storicamente acritico. Inspiegabile più che altro – se decontestualizzata – l’insistenza della sceneggiatura sui due camerieri, comedic relief di davvero cortissimo respiro, anche se nel pre-finale à la John Woo si dona loro un po’ di gloria. Molto meglio le grazie di Lee Bo-yeong, le improbabili canzonette da night club, la prevedibile beffa finale – che però arriva alla fine di un film talmente raffazzonato da risultare assolutamente sorprendente.

Tutto sommato non gli si vuol poi così male, se si ha voglia di staccare completamente il cervello per un paio d’ore.

Se proprio vi ispira, il DVD regione 3 in edizione limitata a poco più di 20 euro.

[per capirci bene]

Qui si continua a parlare di cimena.

Penelope
di Mark Palansky, 2006

Girato interamente in Inghilterra e presentato al festival di Toronto più di un anno e mezzo or sono, ma uscito nei cinema statunitensi soltanto da poche settimane per colpa dell’abbandono dei diritti da parte degli Weinstein e della IFC, Penelope è l’esordio alla regia di un ex assistente di Sir Michael Bay, nonché di una sceneggiatrice (Leslie Caveny) che viene da buona televisione, soprattutto dall’acclamato Everybody loves Raymond. E dell’esordio, Penelope mantiene alcuni pregi e molti difetti.

Se da una parte c’è senz’altro una coinvolgente freschezza, e la capacità di non prendersi troppo sul serio, giocando molto con i cliché della fiaba e del cinema fiabesco, è anche vero che la natura fortemente derivativa del film dà qualche problema. Un esempio calzante sono le musiche: il compositore inglese Joby Talbot viene da League of gentleman, e mostra di conoscere bene i meccanismi della rilettura "ironica" di un genere. Là l’horror riletto in tono demenziale, qui la fiaba gotica – o mitteleuropea – nell’incontrastato zuccheroso regno di Amélie Poulain. Ma molti sono i momenti in cui le sue melodie non fanno che aggravare la sensazione che Penelope voglia essere a tutti i costi – a tratti in modo piuttosto esplicito, non bastassero la spinta londonizzatrice e la presenza di Catherine O’Hara- il più burtoniano possibile.

Senza sottolineare eccessivamente i difetti del film, ché su un filmettino così naif, inoffensivo e piacevole – e quindi sommariamente indifeso – non mi va di sparare, sono molte le cose che lo salvano, spesso in corner e altre volte con una parata convinta. Come il ritmo e la durata, adeguatissimi, il cast mezzo inglese e mezzo americano e il conseguente – e divertitamente ingiustificato – miscuglio di accenti, alcune partecipazioni marginali (il mefitico Burn Gorman di Torchwood, Reese Witherspoon, la presenza silenziosa del wrightiano Nick Frost). E poi, la performance di Peter Dinklage, che si dimostra attore di grande rilievo, ben oltre le solite macchiette da "little person" (anche se quando compare nel film è nascosto in un armadietto), e la cui malinconia "sporca" il finale di una palpabile sensazione: che nel mondo della diversità e dell’emarginazione, l’happy end non sia che una miracolosa e poco credibile eccezione.

James McAvoy però è davvero insopportabile come dicono: ammirevole il suo impegno nel voler mandare tutto a puttane con la sua imbarazzante interpretazione del principe azzurro spiantato e truffaldino. Christina Ricci è uno splendore, pure col naso da porco.

Il film uscirà senz’altro nel nostro paese: difficile al momento dire quando, e chi.

Our town (Woo-ri Dong-ne)
di Jeong Gil-yeong, 2007

Qualche anno fa la Corea del Sud, per contingenze economiche e culturali favorevoli, poteva permettersi di puntare e investire molto sui registi esordienti: ed era proprio nei moltissimi esordi che si andavano a cercare i futuri capisaldi del cinema di Seoul. Dopo qualche anno di stallo, sono in molti a indicare in certi film di questa stagione alcuni veri e propri lampi vitali. Film come Epitaph, l’enorme successo a sorpresa di The chaser (entrambi ancora da recuperare) e come, appunto, Our town.

Intendiamoci, Our town non inventa niente di nuovo: è un triangolo di morte tutto al maschile che coinvolge un poliziotto che indaga su una catena di omicidi, l’inquietante serial killer stesso, e come vero protagonista della vicenda un giovane scrittore, amico di infanzia del poliziotto, che si divide tra istinti omicidi e emulativi e l’indagine psicologica. Non c’è bisogno di dire che niente accade né è accaduto per caso, e che i tre scopriranno (sulla loro pelle) le connessioni che li uniscono. Ma quello che sorprende non è lo sviluppo narrativo, bensì il coraggio di un regista che al suo primo lavoro mette in scena un walzer di morte che lascia davvero poche speranze allo spettatore.

Non è nemmeno una questione di mera violenza. Certo, Jeong si rifà all’inaudito e qui spesso vertiginoso sadismo che è carattere di molto cinema di detection coreano: e a farne le spese non sono solo i personaggi – e le donne vittime dell’omicida seriale, appese come crocefissi pagani – ma anche alcuni animali, e qui ci vuole davvero un po’ di stomaco – anche se si vedrà che non è affatto una scelta fine a se stessa. Al di là di questo, a colpire duro è la coerenza con cui, nel tratteggio di tutti i personaggi, vengono fin da principio mescolate istanze profonde di immedesimazione e una progressiva disumanizzazione, negando agli spettatori la possibilità di sfuggire a questa progressiva discesa nell’innata malignità umana.

Date le premesse, tra cui la necessità di sostenere un tono davvero cupo e mortifero, qualche lungaggine (ma tutta la lunga sequenza "onirica", o meglio "ipotetica", è davevro sorprendente), parecchi spigoli da limare, il solito finale interminabile che porta alle estreme conseguenze – ma davvero – una storia che si rivela come profondamente passionale, Our town è un’interessantissima opera prima, solitamente bellissima a vedersi, e capace di abissi di disperazione che altri registi esordienti, magari più vicini ai nostri lidi, davvero si sognano.

La recensione di Variety, e quella di BeyondHollywood.
Reperibile in DVD regione 3, per esempio su Yesasia a meno di 18 euro.

[riprenditi]

Italia nuova Norvegia? Ecce nuovo episodio di Friday.

CJ7 (Cheung Gong 7 hou)
di Stephen Chow, 2008

Inutile stare tanto a girarci intorno: CJ7 è probabilmente il meno bello dei film diretti dal grandissimo Stephen Chow dai tempi lontanissimi di Forbidden city cop. Non solo perché è il suo film meno divertente, o meglio l’unico in cui non ci si schianta a terra – e il perché è presto detto: Chow appare poco – ma anche perché Chow prende una parte del suo cinema che adoriamo (quella poetica che viene dritta dritta dai lecca lecca di Kung fu hustle e dalle lacrime salate di Shaolin soccer) e dimentica tutto il resto.

O meglio, ne dà degli accenni, dei contentini per completisti, e poi li tralascia: l’aspetto più grottesco e la dimensione cartoonesca del suo cinema, per esempio, vengono annacquati da una storiellina scritta su un post-it piena di bambini buffi e/o crudeli. Non parliamo comunque di un regista casuale, e non mancano infatti i momenti di stupore e di meraviglia, lo spettacolo dato da trovate registiche, fotografiche e scenografiche (settori curatissimi, fin troppo), inattese coerenze (adorabile il fatto che Chow, nonostante il successo e il fascino, continui a intepretare personaggi sommariamente antipatici o sgradevoli), buone trovate narrative (la lunghissima sequenza onirica che viene poi replicata) e persino istanti di autentico genio (come questo). Ma pensare di conquistare un pubblico globale (il film è uscito negli USA a Marzo, scontentando i più) che l’ha accolto per centinaia di altri motivi, facendo come massimo sforzo quello di sbattere sullo schermo un’irresistibile creaturina aliena, mezza cucciolo pucci e mezza slime, è davvero troppo instabile anche per noi fan. O forse è l’idea che Chow ha del pubblico globale: e come dargli torto?

Non si dimentica comunque che Chow rimane un genio comico assoluto, e che il pugno di film da lui diretti tra il 1996 e il 2004 sono tra le opere migliori prodotte dal cinema asiatico (e non solo) in questi anni. Sotto quest’ottica, questa divertente scematina gliela si perdona, più che volentieri.

Il film non ha ancora una data d’uscita italiana, ma vedrete che uscirà. Se avete fretta e volete comprarlo, su Yesasia costa 12 euro.

Contrariamente alla mia prima idea – ovvero che fosse un omaggio alla CJ Entertainment – il titolo del film si rifà alle ultime missioni spaziali cinesi, denominate appunto Shenzhou 5 e Shenzhou 6. La missione Shenzhou 7 partirà a Settembre.

Tutta la vita davanti
di Paolo Virzì, 2008

C’è una cosa precisa che ho pensato, all’uscita dell’ultimo bellissimo lavoro di Paolo Virzì, ormai una settimana fa, mentre mi asciugavo le lacrime. Una cosa che sono stato lieto di riscontrare poi nei discorsi di molte altre persone che hanno gradito – o amato, come me – questo film, e che ho comunque voluto immediatamente condividere con qualcuno: Virzì è l’unico rimasto ad aver capito la commedia all’italiana. O meglio, è l’unico rimasto ad applicarla come si deve.

Inutile pretendere uno statuto di realismo storico da questo film: anzi, Tutta la vita davanti gioca volutamente con il grottesco, con la macchietta, e in ogni caso attraverso una spinta di assoluta addizione, perché sa che – se non è propriamente l’unico – è in questo caso e con questo linguaggio il modo più appropriato per farne scaturire la realtà, nei suoi aspetti più grigi e squallidi, così come nei barlumi di speranza veicolati dall’onestà e dall’intelligenza, soffocati comunque da una società ormai decaduta.

L’avevano capito i maestri a cui il film si rifà fortemente, con quel suo animo di fiaba amara, tutto sommato nera e disperata, e stavolta non è davvero fuori luogo richiamare autori come Dino Risi (come la scena dello sfogo di Elio Germano, da brividi) Ettore Scola (al di là della citazione diretta) o addirittura Antonio Pietrangeli: difficile non pensare al regista romano nella pazzesca, straziante sequenza del licenziamento di Micaela Ramazzotti, che strilla "nessuno è gentile!" nel parcheggio.

Ma la sostanza del mio giudizio non può non fermarsi, ad un certo punto: ed è già molto che io sia arrivato fino a qui. E il punto è quello in cui il regista e il suo fidato sceneggiatore Francesco Bruni, in modo mai così preciso e feroce, smettono di raccontare una storia qualunque. E cominciano a raccontare la mia.

Mai sufficiente il plauso a Isabella Ragonese, ed eccezionali tutti gli altri. Vi piaccia o meno, uno dei film italiani più belli e più importanti degli ultimi anni.

Non pensarci
di Gianni Zanasi, 2007

C’è una lezione importantissima per il cinema italiano, che Non pensarci insegna: per fare dell’ottimo cinema indipendente, anche nel nostro paese, non è necessario scrivere sopra ogni fotogramma che lo si sta facendo. Basta mettersi a dire la propria storia, e farlo fino in fondo. Così, senza spiattellarcelo in faccia, il risultato è questo: uno dei film italiani più indipendenti (orgogliosamente, fieramente) degli ultimi anni nasconde la sua libertà all’interno di meccanismi assai consoni al cinema del nostro paese, nonché del cast e del suo autore, quali sono quelli del contrasto tra città e provincia (qui tra i brevi accenni di una Roma punk e una Rimini addormentata, eclettica ma saggiamente de-regionalizzata), e quali sono quelli della commedia familiare italica, divisa tra toni intimi, divertiti e amari.

Per il resto, Non pensarci è attraversato da un vento di leggerezza di cui si sentiva davvero la mancanza, dalle nostre parti: incanalati in logiche economiche, prospettive ombelicali, e tutte quelle cose di cui si taccia il nostro cinema (spesso a ragione), ci siamo dimenticati di una cosa che in questo film pulsa, e che non ci stancheremo di lodare: il bisogno, bruciante, di raccontare. E di farlo davvero bene: non è da tutti far uscire tutto un mondo da un accendino caduto, da uno stage-diving, da centinaia di vasetti di ciliege in frantumi, dalla corrente che se ne va in tutto il paese, lasciandoci senza luce. "E io come faccio senza Matrix?". Tutto il resto, poi, viene da sé: la scrittura è freschissima, agile, acuta. La regia modesta e attenta. Le scene madri, assolutamente inusuali nel loro essere sussurrate, sono silenziose, contenute: come l’impressionante confessione della madre nello stanzino, o il dialogo tra Stefano e Michela, sulla collina. "Sei tornato perché hai bisogno di noi".

Essenziale il contributo di una colonna sonora bella e intelligente, tra i Clap Your Hands Say Yeah e il commovente Ivan Graziani di Agnese dolce Agnese, ma mai quanto il cast: Valerio Mastandrea trova il suo ruolo migliore, e il più adatto ai suoi toni e al suo incredibile talento, dai tempi di Tutti giù per terra: e da quel film ritrova anche Anita Caprioli, che là esordì. Qui è sua sorella, rifugiata amorosa in un delfinario, bellissima, pallida, malinconica: impossibile non innamorarsene, perdutamente.